L’origine del toponimo del vico deriva dal nome dell’omonima famiglia a cui in passato venivano erroneamente attribuite delle proprietà nella zona.
La schiatta dei Cicala che si stabilì in Liguria proveniente dalla Germania nel 942, formava il VII Albergo.
Avventurosa è l’origine leggendaria del casato che si fa risalire ad un tal Pompeo.
Si narra infatti che durante un combattimento fra genovesi e pisani, un soldato di Ventimiglia, Pompeo, udì il canto di alcune cicale; ottenuta la vittoria costui avrebbe decorato il suo scudo con sette cicale, ridotte poi a cinque dai discendenti. Nel 1432, per le sue vittorie contro i Tartari, fu concesso a G.B. Cicala di sostituire le cicale del suo stemma con un aquila bianca.
Fra i numerosi illustri membri della casata meritano menzione: Guglielmo che figura fra i Capitani che portarono a Genova le ceneri di Giovanni Battista; Lanfranco, gentiluomo saggio, giudice e cavaliere, grande amatore e poeta.; Andrea, eletto gran giustiziere nel regno di Napoli per volere di Federico II; Zoaglio Battista governatore della Corsica e doge e Carlo, vescovo di Albenga e partecipante al concilio di Trento.
A titolo di cronaca va ricordato anche Scipione Cicala, protagonista del brano Sinan Capudan Pascià di De Andrè che, imprigionato dai turchi, ne divenne condottiero e corsaro fino ad ottenere il massimo degli onori possibili per un infedele, ovvero il titolo di Pascià.
Nella piazzetta si possono ammirare:
Il palazzo Cicala che fu fatto edificare da Nicolò Cicala nel 1542.
Sul palazzo un sovrapporta pietra con fregio sec.XVI mentre la volta dell’atrio è sorretta da lunette poggianti su peducci in pietra.
Sull’archivolto che conduce in Sottoripa ecco un Agnus Dei XVI in pietra.
Al civ. n.1 sovrapporta con due angeli che reggono una ghirlanda con trigramma di Cristo. Al civ. n. 5 un medaglione ovale vuoto che conteneva un dipinto oggi scomparso.
Al civ. n. 3 si trova Albergo Veronese al n. 5r Osteria sopra il mare e a civ. n. 27 l’Osteria Cicala, forse l’ultima autentica osteria del centro storico. Arredata in legno con tovaglie a quadretti sui tavoli e i tradizionali gotti (bicchieri) di vetro spesso per la mescita del vino.
In Copertina: Vico Cicala. Foto di Stefano Eloggi.
All’esterno del palazzo di Piazza dell’Agnello n. 6 noto come Pallavicino Richeri è affissa una lapide che ricorda erroneamente come l’edificio sia stato di proprietà di Lanfranco Cicala.
Erroneamente perché gli storici hanno individuato con certezza in piazza delle Scuole Pie la casa natale dell’eclettico letterato genovese.
Lanfranco Cicala – infatti – recita la lapide fu un: “console, legista e poeta” vissuto nel XIII secolo.
Nome non poteva essere più azzeccato visto che – nomen omen – proprio come la cicala, Lanfranco il trovatore cantava i suoi versi.
I Cicala si stabilirono a Genova nel 942 – questo è sicuro – provenienti dalla Germania ma le loro vicende risultano piuttosto contorte: alcuni rami si sono infatti sviluppati non solo in città ma anche nelle due riviere, a Lerici e a Ventimiglia.
L’origine del casato si fa comunque risalire a Pompeo valoroso soldato – appunto di Ventimiglia – che, mentre affrontava i pisani, ebbe il capo ricoperto da uno sciame di cicale frinenti.
Alla vista di tale insolita scena i nemici s’impaurirono e Pompeo – da allora divenuto Pompeo Cicala – trionfò.
Per via di questo curioso aneddoto sullo stemma nobiliare del casato fino al 1432 compariva dunque il rumoroso insetto.
L’arma venne successivamente sostituita con l’aquila d’argento in campo rosso, insegna conferita dal re di Polonia a Gio-Batta Cicala per meriti militari. Questi si era infatti distinto sul campo sconfiggendo i Tartari per conto del sovrano di Varsavia.
Oltre a Pompeo fra i numerosi membri di questa illustre schiatta che generò ammiragli, cardinali, generali e senatori, due personaggi meritano particolare menzione; Guglielmo che nel 1198 fu fra i capitani che portarono a Genova le ceneri di San Giovanni Battista; Scipione marinaio vissuto a metà del ‘500 e divenuto Gran Visir, le cui gesta ispirarono il brano “Sinán Capudán Pasciá” di Fabrizio De Andre’.
A Instanbul il prestigio dei genovesi è testimoniato non solo dal quartiere Galata con relativa torre simbolo della città ma anche dalla contrada che ancora oggi, portandone il nome, celebra il nostro eroe: Cağaloğlu (poiché oglu significa figlio, il figlio di Cigala).
Sette tracce che, fondendo in maniera irripetibile e magistrale suoni e parole, celebrano Genova, il mare e le culture del Mediterraneo.
Fra queste canzoni emerge da un lontano passato la storia del nostro nobile concittadino Scipione Cicala che, imprigionato dai turchi, ne divenne condottiero e corsaro fino ad ottenere il massimo degli onori possibili per un infedele, ovvero il titolo di Pascià.
“E questa a l’è a ma stöia, e t’ä veuggiu cuntâ”…
“Sinan Capudan Pascià” racconta appunto le vicende del genovese Cicala (“sinan”, dato che in turco ottomano antico Genova si dice “Sina”, significa genovese) che fu catturato nel 1560 a bordo della nave del padre Vincenzo dopo la disfatta della battaglia di Gerba.
Nei pressi dell’isola tunisina ebbe luogo infatti lo scontro che permise ai Turchi di consolidare in maniera inequivocabile la propria supremazia nel Mediterraneo dopo i decenni in cui Andrea D’Oria vi aveva imposto la propria legge.
In quell’occasione il corsaro Dragut aveva infatti sconfitto la flotta cristiana da pochi anni ereditata dal nipote Gian Andrea con il titolo di Capitan general de las galeras de Génova.
Secondo alcune interpretazioni a quasi 94 anni Andrea si spense nel suo palazzo, corroso dai dolori e soprattutto dalla delusione per la notizia della perdita delle sue invitte galee.
Gian Andrea dovette aspettare il 1584 per vedersi riconoscere, al pari dell’illustre avo in precedenza, l’incarico di massimo prestigio della marina spagnola, ovvero quello di Capitan general de la mar.
Non tutti gli storici però concordano su tale antefatto: per alcuni invece Sinan sarebbe stato catturato da Dragut non nei pressi dell’isola tunisina, ma al largo di Marettimo, alle Egadi, mentre con il padre Vincenzo veleggiava verso la Spagna. Era il 18 marzo del 1561 e Scipione aveva appena 17 anni.
Quale che sia la versione corretta di certo il giovane Scipione e il padre Vincenzo vennero catturati entrambi e tradotti prigionieri ad Instanbul.
Vincenzo pagò il proprio riscatto e venne liberato ma, per carenza di fondi, non quello del figlio. Fu così che Scipione per non finire ridotto in schiavitù, legato a qualche banco di voga a remare, abiurò la propria fede e si arruolò nel corpo scelto degli Giannizzeri.
Per via di questo suo opportunistico cambio di campo religioso, venne disprezzato e battezzato dai Cristiani “rénegôu”:
“E digghe a chi me ciamma rénegôu
che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu
Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü
giastemmandu Mumä au postu du Segnü”.
Ma Scipione bestemmiando Maometto al posto del Signore fece presto carriera dimostrando coraggio e abilità nautiche salvò la vita ad un importante e potente Bey (nobile ottomano).
Le sue vicende incrociarono con alterne fortune i sultanati di Solimano I il Magnifico, Selim II, Murad III e Maometto III.
Cicala si distinse in numerose scorribande piratesche lungo le coste del sud in generale e della Calabria in particolare fino ad ottenere il massimo dei riconoscimenti dal Sultano Maometto III: Sinán Capudán Pasciá, cioè “il genovese grande ammiraglio della flotta ottomana”.
Cağaloğlu Sinan Kapudan Paşa conosciuto anche per assonanze fonetiche come Sinan Bassà diventerà persino per breve tempo Gran Visir e Serraschiere del Sultano di Costantinopoli.
Teste fascië ‘nscià galéa ë sciabbre se zeugan a lûn-a a mæ a l’è restà duv’a a l’éa pe nu remenalu ä furtûn-a
Teste fasciate sulla galea le sciabole si giocano la luna la mia è rimasta dov’era per non stuzzicare la fortuna
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu tundu che quandu u vedde ë brûtte u va ‘nsciù fundu
in mezzo al mare c’è un pesce tondo che quando vede le brutte va sul fondo
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu palla che quandu u vedde ë belle u vegne a galla
in mezzo al mare c’è un pesce palla che quando vede le belle viene a galla
E au postu d’i anni ch’ean dedexenueve se sun piggiaë ë gambe e a mæ brasse neuve d’allua a cansún l’à cantà u tambûu e u lou s’è gangiou in travaggiu dûu
E al posto degli anni che erano diciannove si sono presi le gambe e le mie braccia da allora la canzone l’ha cantata il tamburo e il lavoro è diventato fatica
vuga t’è da vugâ prexuné e spuncia spuncia u remu fin au pë vuga t’è da vugâ turtaiéu e tia tia u remmu fin a u cheu
voga devi vogare prigioniero e spingi spingi il remo fino al piede voga devi vogare imbuto (= mangione) e tira tira il remo fino al cuore
e questa a l’è a ma stöia e t’ä veuggiu cuntâ ‘n po’ primma ch’à vegiàià a me peste ‘ntu murtä
e questa è la mia storia e te la voglio raccontare un po’ prima che la vecchiaia mi pesti nel mortaio
e questa a l’è a memöia a memöia du Cigä ma ‘nsci libbri de stöia Sinán Capudán Pasciá
e questa è la memoria la memoria del Cicala ma sui libri di storia Sinán Capudán Pasciá
E suttu u timun du gran cäru c’u muru ‘nte ‘n broddu de fàru ‘na neutte ch’u freidu u te morde u te giàscia u te spûa e u te remorde
e sotto il timone del gran carro con la faccia in un brodo di farro una notte che il freddo ti morde ti mastica ti sputa e ti rimorde
e u Bey assettòu u pensa ä Mecca e u vedde ë Urì ‘nsce ‘na secca ghe giu u timùn a lebecciu sarvàndughe a vitta e u sciabeccu
e il Bey seduto pensa alla Mecca e vede le Uri su una secca gli giro il timone a libeccio salvandogli la vita e lo sciabecco
amü me bell’amü a sfurtûn-a a l’è ‘n grifun ch’u gia ‘ngiu ä testa du belinun amü me bell’amü
amore mio bell’amore la sfortuna è un avvoltoio che gira intorno alla testa dell’imbecille amore mio bell’amore
a sfurtûn-a a l’è ‘n belin ch’ù xeua ‘ngiu au cû ciû vixín e questa a l’è a ma stöia e t’ä veuggiu cuntâ
la sfortuna è un cazzo che vola intorno al sedere più vicino e questa è la mia storia e te la voglio raccontare
‘n po’ primma ch’à a
vegiàià
a me peste ‘ntu murtä
e questa a l’è a memöia
a memöia du Cigä
ma ‘nsci libbri de stöia
Sinán Capudán Pasciá.
un po’ prima che la
vecchiaia
mi pesti nel mortaio
e questa è la memoria
la memoria di Cicala
ma sui libri di storia
Sinán Capudán Pasciá
E digghe a chi me ciamma rénegôu che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü giastemmandu Mumä au postu du Segnü
E digli a chi mi chiama rinnegato che a tutte le ricchezze all’argento e all’oro Sinán ha concesso di luccicare al sole bestemmiando Maometto al posto del Signore
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu tundu che quandu u vedde ë brûtte u va ‘nsciù fundu intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu palla che quandu u vedde ë belle u vegne a galla
in mezzo al mare c’e un pesce tondo che quando vede le brutte va sul fondo in mezzo al mare c’è un pesce palla che quando vede le belle viene a galla.
A Istanbul il prestigio dei genovesi è testimoniato non solo dal quartiere Galata con relativa torre simbolo tuttora della città ma anche dalla contrada che ancora oggi, portandone il nome, celebra il nostro eroe:
Cağaloğlu (poiché oglu significa figlio, il figlio di Cigala).