Tutta la contrada compresa tra Porta Soprana e Sarzano prende il nome dalla strada a mezza costa e parallela alle Murette che le collega.
Il toponimo Ravecca sarebbe un’evoluzione fonetica di Ruga Vecchia. Con il termine Ruga infatti nel Medioevo si identificava una strada maestra fra due ali di palazzi.
Si tratta di uno dei caruggi più coloriti e vivaci del centro storico. Una volta pullulava di forni, sciamadde e osterie. Oggi i locali che resistono si adattano ai cambiamenti dei tempi proponendo menù salutistici.
Prima del 1284, l’anno della Meloria, quando i prigionieri pisani vennero tradotti in città, l’area era identificata come Campus Sarzanni e fino a gran parte del ‘400, fu adibita a cimitero per poveri e pellegrini.
Fu solo a fine secolo che si iniziarono a costruire, slanciate e accatastate le une alle altre, le prime case.
Vista la loro inusuale altezza, osservate dal mare, dovevano proprio ricordare gli odierni grattacieli di una metropoli scolpita nella pietra e aggrappata alla scogliera.
“Andiamo al Campo Pisano: ivi i tredicimila prigionieri fatti alla Meloria cainesca e le larve disperatissime dei tremila uccisi fecero ringhiare il proverbio tremendo: – Chi vuol veder Pisa vada a Genova“.
Cit. Ambrogio Bazzero scrittore (1851 – 1882).
In realtà i prigionieri fatti alla Meloria furono circa 9000, probabilmente lo scrittore aveva conteggiato un numero più alto includendo i catturati delle numerose altre battaglie avvenute in quegli anni con l’odiata rivale.
Varcata la Porta di S. Andrea, svoltando a sinistra s’imbocca Via di Ravecca, probabilmente il caruggio più antico della città. Ravecca, infatti, è l’evoluzione fonetica di Ruga Vecchia termine con il quale nel medioevo s’indicava una strada maestra fra due ali di palazzi. Tutta la contrada che si snoda a mezza costa, parallela alle murette, ne assume il nome.
Al civ. n. 1r in una piccola nicchia semicircolare contettuccio in ardesia e basamento di stucco, la Madonna della Misericordia, copia dell’originale del sec. XVII-XVIII, conservata nel museo di S. Agostino.
Proseguendo, al civ. n. 3 un’altra minuscola nicchia priva di cornice sempre con tettuccio in stucco e base in ardesia al cui interno è ricoverata una Madonna col Bambinello anch’essa in stucco. Sul trave del portalino l’epigrafe: “Visitavit et Fecit”.
All’angolo con Vico Gattilusio, il cui nome trae origine dalla nobile famiglia (in realtà furono anche pirati) che tra il 1262 e il 1462 fu signora di Metelino (Mitilene in Grecia) ed ebbe numerosi fondaci in giro per l’oriente, un’edicola di San Giovanni Battista del sec. XVII. Un tempietto classico in marmo decorato con motivi ad intarsio. La statua marmorea raffigura il santo nel consueto atto benedicente, il bastone pastorale e l’agnello ai piedi. Il libro appoggiato su un tronco d’albero da cui spunta un serpentello. Sulla roccia cui poggi il piede il santo, una minuscola figura di bambino a cavalcioni.
Sul piedistallo si legge. “De. Mense. Mail. 1616”, nella trabeazione. “Vicini. Hvivs. Contractae. Hanc. Statvam. S. Io. Bap. Erigendam. Esse. Cvravere. Sulla base infine: “Sic Hvmilis. Qvisnam. Clamanti. Voce. Potatvr. Severiore / Qveit. Vita. Fvlgere. Permini”.
Questa breve deviazione laterale verso le murette costituiva in passato il passaggio dei doganieri al loro posto di guardia. Fino al 1858 il caruggio era popolarmente identificato come “Vico Spuncia cù”, forse per sottolineare i modi non propriamente garbati con cui le guardie effettuavano i loro controlli.
Al civ. n. 5 sul muro all’altezza del primo piano fra due finestre brani di un dipinto in cui è solo riconoscibile un disegno a rombi di colore rosso.
Di fronte al 30r. la tipica insegna in marmo di una vecchia tripperia. S’incontrano poi alcuni portalini, stipiti in pietra nera di Promontorio.
Al civ. n. 50 un tabernacolo con Madonna con Bambino del sec. XVI- XVII. La nicchia poco profonda la fa pensare più adatta ad un dipinto che ad una statuetta. L’originale è andato perso ed è stato sostituito con una moderna e anonima ceramica in rilievo. Alla base è inciso il monogramma di Maria con la corona.
Via Ravecca non è solo un percorso nella storia ma anche un viaggio nel gusto e nella tradizione:
al 19r. “La Sciamadda”, rivendita di torte e farinate, al n. 48 “Cibo e Libri”, un originale locale in cui è possibile consumare pasti etnici e salutistici in compagnia di un buon libro, al n. 72r. “L’Antico forno Patrone”, dove assaporare, fra le innumerevoli specialità, la migliore focaccia dei caruggi.
Percorso il budello di Ravecca si sbuca in Sarzano, nel cuore medievale di Genova, sotto lo sguardo severo ma indulgente del campanile di S. Agostino e allora, per dirla come il poeta, all’imbrunire, si palesa in tutto il suo solare splendore.
“Un chiarore in fondo al deserto della piazza sale tortuoso dal mare dove i vicoli verdi di muffa calano in tranelli d’ombra. In mezzo alla piazza, mozza la testa guarda senz’occhi sopra la cupoletta.
I Lavatoi, attualmente situati nei “Giardini Baltimora”, vulgo “Giardini di Plastica” vennero costruiti nel 1797, anno della fugace Repubblica Democratica, dall’architetto al quale devono il nome, Carlo Barabino.
In origine i trogoli, detti della “Marina”, erano collocati nel contesto di una zona densamente popolata e popolare, la via dei Servi, per soddisfare una reale esigenza di servizio pubblico. Si conservano due versioni del progetto: un bozzetto più lineare a tre luci, e un altro analogo a quello realizzato, ma coi grossi pilastri bugnati arricchiti di teste leonine. Al disegno è aggiunta una curiosa nota autobiografica che appare indicativa dello stato d’animo dell’autore: “Lavaderi delli Servi, fatti da me Carlo Barabino 4 n. 1797 fatto in tempo delli Birboni. Lavoro che mi è costato la perdita della quiete d’animo…”
L’opera, ormai completamente decontestualizzata, sorgeva sul lato opposto della valletta del Rivotorbido, accanto alla chiesa di Santa Maria sulla Montagnola dei Servi, affacciata lungo l’asse continuo Borgo Lanaioli-via dei Servi–via Madre di Dio.
Oggi collocati sotto i resti delle Mura di Sarzano, dove un tempo erano altri truogoli, quelli del Colle, all’interno di un parco urbano concepito negli anni ‘70 del secolo scorso in luogo del preesistente quartiere di via Madre di Dio. Sulle macerie reali e morali di millenarie contrade scolpite nella pietra, sorge l’effimero e, dopo meno di 40 anni, già fatiscente centro direzionale dei Liguri. Il sito non ha mai preso vita rimanendo quotidiana memoria della barbarie commessa. Anzi negli anni ’80 era addirittura territorio tacitamente concesso ai tossicodipendenti, una sorta di ghetto a cielo aperto, in cui le aiuole dei giardini erano disseminate di siringhe e preservativi usati.
I lavatoi vennero infatti smontati nel 1979, durante la realizzazione del Piano Regolatore Generale di via Madre di Dio, un modo elegante per sancire la distruzione del quartiere e ricomposti sotto le mura di Sarzano, da Ignazio Gardella, progettista del parco urbano ivi previsto.
L’edificio, in stile neoclassico, presenta un impianto planimetrico lineare, ottenuto dalla ripetitività del modulo-base a pianta pressoché quadrata, e composto essenzialmente da un vano che ospita la fonte (oggi non collegata ad alcuna rete di approvvigionamento idrico) e da altri due locali accessori. La grande vasca rettangolare è situata al centro di uno spazio voltato a tre crociere; essa consta di un elevato in muratura portante intonacata (originariamente in pietra e mattoni ed in seguito ricostruito in elementi di calcestruzzo) concluso da un piano di lavoro in arenaria incisa a solchi paralleli e di una bocca di erogazione a grottesche di marmo collocata su una delle due testate. Gli altri due vani non attrezzati per il lavaggio dei panni sono coperti da volte a botte e comunicano soltanto con l’esterno attraverso grandi archi chiusi da inferriate. L’asimmetria della disposizione planimetrica è magistralmente bilanciata dalla risoluzione adottata nel prospetto: il ritmo seriale ed indifferenziato dei cinque fornici a tutto sesto, mediato da un fregio a triglifi, trova la sua naturale conclusione nel timpano triangolare. L’impostazione dei pilastri rastremati verso l’alto e trattati a bugnato rispecchia la formazione romana e classica di Barabino, così come l’uso della trabeazione dorica, dove con elegante raffinatezza è collocata la targa marmorea inneggiante al popolo sovrano:
“Al Popolo Sovrano / Gli Edili / Libertà / Eguaglianza / l’Anno Primo della Repubblica Ligure Democratica / MDCCXCVII”.
I lavatoi del Barabino sono rimasti per lungo tempo nel più completo degrado e abbandono, deturpati, sporcati, imbrattati e violentati dall’ignoranza e oblio altrui, talvolta dimora occasionale di qualche senzatetto. Recentemente, dopo insistenti segnalazioni, sono stati avviati i lavori di ripristino che prevedono, fra i vari interventi, la dotazione di grate anti intrusione e la pulizia dei marmi al fine di restituirli al loro primitivo decoro.
Il Vico dei Tre Re Magi prende il nome dall’omonimo Oratorio raso al suolo durante la seconda guerra mondiale.
L’Oratorio fu eretto nel 1365 e poi ricostruito in forme barocche nel 1611. Nei primi decenni del Novecento venne concesso a privati ed adibito a fabbrica di mobili. Alcune opere d’arte al suo interno sono state recuperate e conservate presso il vicino museo di S. Agostino, altre purtroppo, sono andate irrimediabilmente distrutte: degli affreschi di Lazzaro Tavarone, Luca Cambiaso e di Bernardo Castello di cui parlano gli storici dell’arte, non si ha più traccia.
Le vicende di questo edificio possono essere assurte ad emblema dell’ignoranza e della superficialità con cui i cementificatori del secolo scorso hanno gestito i beni comuni e distrutto interi quartieri dalla storia millenaria, cancellando le contrade dei Lanaioli, dei Servi, della Madre di Dio e della Marina.
Forse per questo gli abitanti del centro storico proprio qui, nel cuore di Sarzano, dove tutto un giorno ebbe inizio, hanno collocato la loro “Colonna Infame”.
Posta all’angolo con Via del Dragone (nello spiazzo dietro l’abside di S. Agostino) nella prima parte omaggia la più celebre descrizione della nostra città:
“… Arrivando a Genova / Vedrai Dunque / una Città Imperiosa, / Coronata da Aspre Montagne, / Superba per Uomini e per Mura, / Signora del Mare/ Francesco Petrarca 1358, a Cura dei Genovesi / del Centro Storico / Giugno 1990
Sotto prosegue…
“Male non Fare / Paura non Avere”. 1945 1981 – A Vergogna dei Viventi e a Monito / dei Venturi Come Usava ai Tempi / della Gloriosa Repubblica di Genova / Dedichiamo Questa / Colonna Infame / all’ Avidità degli Speculatori / e alle Colpevoli Debolezze / dei Reggitori della Nostra Città. Con Vandaliche Distruzioni Hanno / Cancellato Tesori di Arte e di Storia / Eliminando Interi Quartieri / del Centro Storico Marinaro ed Artigiano / Deturpando per Sempre la Fisionomia / della Città fino all’Inaudito Gesto / di Demolire la Casa Natale di Nicolò Paganini. Essi Hanno Così Disperso la Popolazione / di Questi Quartieri con l’Infame / Risultato di Sradicare le Fiere Tradizioni / che Fecero Genova Rispettata e Potente.
I Genovesi dei / Quartieri della. “Marina” / “Via Madre di Dio” / “Via del Colle” / “Portoria” / “Sarzano e Ravecca”.
… alla base della colonna, conclude poi con le amare parole di un grande musicista:
“Non ci Sarà Mai Più un Secondo Paganini” / Franz Liszt.
A proposito di Paganini in Vico Gattamora sotto l’edicola che ornava la casa natale del celebre violinista era affissa una lapideche recitava:
“Alta Ventura Sortita ad Umile Luogo / in Questa Casa/ il Giorno XXVII di Ottobre dell’Anno MDCCLXXXII / Nacque / a Decoro di Genova a Delizia del Mondo / Nicolò Paganini / nella Divina Arte dei Suoni Insuperato Maestro”.
Nel cuore medievale di Genova, in Piazza Sarzano, poco distante da S. Agostino e da S. Silvestro, la chiesa del Santissimo Salvatore ha saputo ritagliarsi il suo spazio nella storia della città. Fondata nel 1141 dai canonici della Congregazione di San Rufo presso Camogli, si stabilì che essendone alle dirette dipendenze, a titolo simbolico, ogni natale tributasse un denaro ed una candela alla cattedrale di S. Lorenzo. Si affaccia sulla piazza, l’unica a quel tempo così spaziosa, dove si tenevano i tornei, il mercato e le adunanze. Quando nel 1311 Genova era lacerata da lotte e divisioni intestine, S. Salvatore fu attonito testimone della prima dedizione della città, in signoria, ad un principe straniero, l’imperatore Arrigo VII di Lussemburgo. Nel 1640 assistette sgomenta all’omicidio del giovane emergente pittore Pellegro Piola, il cui assassinio ebbe grande risalto nelle cronache cittadine del tempo.
Nel 1653 grazie al corposo lascito di una facoltosa famiglia del quartiere la chiesa venne ricostruita in forme barocche. Nel 1684, in seguito al bombardamento francese del re Sole subì il crollo del soffitto e fu oggetto di nuovi interventi. Ulteriori modifiche vennero apportate poi, anche nel tardo ‘700. Nel 1809 accorpò il titolo della vicina chiesa della comunità lucchese di S. Croce mutando il nome in chiesa di S. Salvatore e S. Croce. Qui furono battezzati il pittore Gioacchino Assereto e il musicista Nicolò Paganini il cui certificato di nascita è custodito presso la parrocchia di San Donato.
Nel 1942 durante la Seconda Guerra Mondiale venne quasi completamente distrutta, la sua storia e le sue opere d’arte sotterrate sotto le macerie fino a quando, negli anni ’80 e ’90, è stata acquistata dalla vicina università che, una volta sconsacrata, ne ha ricavato l’aula magna di architettura, una struttura in grado di ospitare 340 persone per conferenze, concerti ed eventi.
S. Salvatore è vero, non ha opere d’arte, arredi o quadrerie di particolare rilievo, né ne ha mai avute, ma con i suoi colori rosso mattone e giallo ocra,che si accendono o si smorzano a seconda dell’angolo da cui la si osserva, là “nei quartieri dove il sole del buon Dio non da i suoi raggi”… funge da specchio dell’anima… l’anima di Sarzano.
Al tempo in cui il cielo si specchiava tutto il giorno nel mare e l’acqua e la terra si contendevano lo spazio, gli otto venti di Mediterraneo giocavano a rincorrersi, scherzavano con le onde, gareggiavano con i gabbiani e, come discoli troppo vivaci, non davano mai tregua.
Un giorno Mediterraneo, stanco dei loro capricci, andò lontano in cerca di quiete e trovò riparo in un golfo sconosciuto dove, come una perla incastonata nella roccia, sorgeva la bella Genova.
Non appena l’onda spumeggiò lungo il Mandraccio, sotto il colle di Sarzano, rimase ammirato dallo spettacolo che gli si parò davanti: mura maestose aggrappate ad imponenti montagne, campanili e torri che si arrampicavano gli uni alle altre, caruggi stretti e misteriosi e poi un porto brulicante di navi e di marinai affaccendati, colori nitidi e profumi inebrianti, persino il sole sbirciava curioso.
Mediterraneo non si era ancora ripreso dall’emozione quando giunsero i venti che lo avevano, dopo averlo cercato dappertutto, finalmente scovato. Anche gli otto fratelli, per un attimo, rimasero sbalorditi e si placarono, la bellezza di Genova, li aveva ammutoliti.
Ma subito Tramontana salì sulle montagne, prese la rincorsa, e si tuffò in mare schizzando Mezzogiorno che, alterato si scatenò da sud in una lotta veemente con il fratello. Accorsero Ponente e Levante per dividerli ma vennero allontanati, ciascuno verso la Riviera che da loro prende il nome. Anche Libeccio e Scirocco, dal caldo temperamento, iniziarono a soffiare forte contrastati dai freddi Maestrale e Grecale, nel frattempo, giunti da nord.
Eolo stesso non avrebbe saputo come fare per ripristinare l’ordine!
Così Il mare, preoccupato che le bufere, scuotessero la sua bella Genova la avvolse in un tenero e protettivo abbraccio. Da allora i due innamorati non si sono più separati, dal loro amore è nato Ligure e i venti, placati, si sono spartiti le stagioni.
Ancora oggi, ogni sera, Genova arrossisce all’appassionato tramonto che Mediterraneo inscena per la sua sposa, la signora del mare.
In copertina: tramonto sul Porto di Genova. Foto di Stefano Eloggi.
Collocato al centro della Piazza di Sarzano alla confluenza con Via Ravecca, il pozzo eretto nel 1583 ad opera di Bartolomeo Bianco (celebre architetto operante in Via Aurea), un tempo si trovava davanti alla vicina chiesa di San Salvatore.
Nel ‘800 fu il Resasco (storico ideatore del cimitero monumentale di Staglieno) a spostarlo, insieme al busto, nella posizione attuale.
Il busto di Giano Bifronte infatti è attribuito alla perizia della famiglia Della Porta, noti scultori lombardi che l’avevano concepito per la fontana dei Vacchero, in Via del Campo.
L’originale, approdato dopo varie traslazioni, in cima al pozzo è custodito nel Museo Civico di Sant’Agostino, quello esposto è una fedele copia.
Già nel ‘300 la zona era utilizzata per la lavorazione delle sartie e del cordame navale, attività che necessitavano di molta acqua.
Per questo la Piazza era dotata di due cisterne utili anche, in caso di assedio, a garantire l’autonomia della città; una era posta sotto l’attuale chiesa di S. Salvatore l’altra, appunto, in corrispondenza del tempio di Giano.
Il Dio bifronte ha triplice origine orientale, greca e romana e simboleggia i nobili natali rivendicati dalla Dominante prima, Superba, poi.
Una faccia rivolta al mare, una ai monti, due facce speculari come il seno di Giano primitivo approdo della Genova medievale, che stringe a se il mare in un materno e rassicurante abbraccio.
In Copertina: il Pozzo di Sarzano. Foto di Stefano Eloggi.