In Piazza Matteotti sul pilastro di sinistra di accesso al Palazzo Ducale una targa ricorda il tragico gesto di protesta di Costantino Georgakis.
Costui fu un giovane studente greco di geologia che, in opposizione al regime golpista dei colonnelli del suo paese, si cosparse di benzina e diede fuoco.
Costantino morì suicida in risposta estrema oltre che alle minacce e ai ricatti subiti dalla sua famiglia rimasta in Grecia, anche alle persecuzioni delle spie che lo pedinavano continuamente minandone la libertà.
Mentre ardeva, rifiutando i soccorsi, urlava: “Abbasso i tiranni, abbasso i colonnelli fascisti”.
Spirò dopo nove ore di atroce agonia e le sue ultime parole furono: “Viva la Grecia libera!”.
Recita la lapide in ricordo del tragico gesto:
“Al giovane Greco COSTANTINO GEORGAKIS / che à sacrificato i suoi 22 anni / per la Libertà e la Democrazia del suo Paese / Tutti gli uomini Liberi / Rabbrividiscono Davanti al suo Eroico Gesto / La Grecia Libera lo Ricorderà PER SEMPRE / 19 Settembre 1970.
La versione originale della sala di Palazzo Ducale in cui si riunivano i 400 nobili che decidevano dei destini della Repubblica è andata distrutta dopo il furioso incendio avvenuto nel 1777. In quell’occasione si persero gli affreschi di Marcantonio Franceschini e del Solimena, e le opere di Tommaso Aldobrandini. Sfarzosamente riedificata in un tripudio di stucchi e arredi neoclassici su progetto del Cantoni viene decorata nelle lunette con “la Battaglia della Meloria” del David e con “Leonardo Montaldo libera Jacopo da Lusignano re di Cipro” del Tagliafichi. La decorazione della volta invece venne affidata al Tiepolo che la affrescò con le “Glorie della Famiglia GiustinianI”. Nel 1875 l’opera del pittore veneziano venne sostituita con “l’allegoria del Commercio dei Liguri”, arte in cui i nostri avi da sempre avevano dimostrato di eccellere, di Giuseppe Isola.
Sullo sfondo del salone dove un tempo si trovava il trono del Doge si possono ancora ammirare le due splendide statue della Giustizia e della Fortezza scolpite rispettivamente da Nicolò Traverso e Francesco Maria Ravaschio.
Il quinto è il Re saraceno Abu-Yahya Muhammad che nel 1208 governava l’isola di Maiorca. Da questo avamposto infastidiva i commerci dei catalani che chiesero l’intervento del Re d’Aragona Giacomo I. Le forze spagnole congiunte nel 1230 tornarono così in possesso della città di Palma. Temendo che i Genovesi, visto i precedenti accordi (in passato avevano stipulato con il saraceno favorevoli patti commerciali), avessero interesse ad intervenire in favore di costui, gli spagnoli contattarono Il Papa in persona perché chiedesse loro di mantenersi neutrali. In questo modo le Baleari sarebbero tornate sotto l’influenza cristiana e i Genovesi ne avrebbero tratto comunque beneficio. Infatti Giacomo I, per premiare il mancato intervento delle galee di San Giorgio, concesse nel 1233 ai Genovesi analoghi privilegi commerciali e daziari, nonchè il terreno per la costruzione di un fondaco e la costituzione nelle principali città marittime spagnole di consolati che tutelassero gli interessi della Dominante.
Il sesto è il Principe Enrico d’Aragona, fratello del Re Alfonso d’Aragona e di Giovanni, delle cui vicende ho già raccontato a proposito del Duca di Sessa, catturato anch’egli durante la battaglia di Ponza del 1435. Come il fratello Sovrano sbarcò a Savona e non a Genova ma, probabilmente vista l’incredibile risonanza che ebbero i fatti, Genova volle lo stesso, rappresentandolo, gloriarsene per l’eternità.
Il settimo è Alberto Morosini l’ammiraglio veneziano a cui i Pisani nel 1284 affidarono il comando della loro flotta e il titolo di Podestà nell’epico e decisivo scontro della Meloria. Il valente condottiero dei pisani verrà sconfitto dall’abilità dei due comandanti genovesi, Oberto Spinola e Benedetto Zaccaria che lo condurranno in catene insieme ad altri 9000 prigionieri in quella che, da allora, si chiamerà Campo Pisano. Dopo tredici lunghi anni di prigionia il Morosini farà ritorno nella sua natia Venezia dove trascorrerà il resto dei suoi giorni.
L’ottavo è il Re di Cipro Giacomo I che venne catturato e imprigionato dai nostri avi per dieci lunghi anni. I Genovesi infatti, invitati dagli aragonesi che ne avevano chiesto l’intervento per vendicare la morte di Pietro I, nel 1373 occuparono l’isola. I nobili del luogo elessero Re Giacomo I, figlio del fratello di Pietro I, per contrastare l’ingerenza genovese. Una parte di ciprioti parteggiò invece per l’altro nipote Pietro II. I genovesi, ottenuta Famagosta, portarono a Genova come garanzia Giacomo I. Verrà incarcerato insieme alla moglie nelle segrete della Lanterna dove la suasposa darà alla luce diversi figli, fra i quali Giano e Ugo, il primo futuro Re, il secondo Arcivescovo venturo di Nicosia. Alla morte di Pietro II, rimasto senza eredi, i ciprioti designeranno Giacomo I suo legittimo successore. I Genovesi, in cambio di un congruo riscatto, della conferma della sovranità su Famagosta e di rinnovati privilegi commerciali, ne acconsentiranno la liberazione.
Nelle nicchie sopra il cornicione della settecentesca facciata del Palazzo Ducale, disegnata dall’architetto Cantoni, sono presenti otto singolari sculture. Si tratta di otto statue realizzate (1777) dall’artista Giacomo Maria da Bissone che immortalano, incatenati e sottomessi alla Repubblica, otto grandi nemici di Genova. Da sinistra a destra sono lì posti ad eterna ed imperitura gloria della Superba:
La prima figura, partendo da sinistra, è quella del pirata Mujaid, meglio noto con il nome italianizzato Musetto. Costui, a cavallo dell’anno mille comandava una numerosa e pericolosa flotta di predoni che aveva la sua base alle Baleari e che non mancava di procurar fastidi e devastazioni lungo le coste, fino ad occupare, ai danni dei pisani, la Sardegna. Nel 1016 il predone addirittura rase al suolo la città di Luni costringendo il Papa Benedetto VIII, genovesi e pisani ad allearsi per far fronte al comune nemico. Nonostante il pirata fosse stato sconfitto e costretto alla ritirata da Luni, tornò all’assalto con una flotta rinnovata, questa volta della Sardegna. Nello scontro contro le due Repubbliche ebbe la peggio e i genovesi ne ottennero la testa issata su un palo, a mo’ di trofeo.
Il secondo è Giacomo da Marsano, Duca di Sessa un personaggio legato alla corte aragonese che venne fatto prigioniero dai genovesi, insieme al Re Alfonso d’Aragona e a molti nobili e principi ispanici, nella battaglia di Ponza del 1435. A seguito di questo scontro i genovesi, condotti dall’ammiraglio Biagio Assereto, catturarono 5000 prigionieri fra i quali, appunto, Re Alfonso e due dei suoi fratelli Enrico e Giovanni e numerosi altri nobili, compreso il Duca di Sessa. La loro madre Eleonora, al solo pensiero dei suoi tre figli in mano dei genovesi, morì dal dolore. In realtà il Re e gran parte del suo seguito, causa gli imperscrutabili intrecci del potere, per ordine dei Visconti di Milano, al servizio dei quali erano i nostri marinai, vennero rilasciati a Savona e non misero mai piede in città. Giacomo da Marsano fu tra coloro ai quali toccò la triste esperienza della permanenza a Genova. La sua figura simboleggia la vittoria sugli aragonesi (la vicenda è narrata nel racconto “Storia di due grandi ammiragli).
Il terzo è il corsaro Dragut che fece la sua fortuna navigando prima al servizio e poi divenendone il successore, di Khayr Al Din, il famigerato ammiraglio degli Ottomani, a tutti noto come il Barbarossa. Le gesta del corsaro che per anni aveva funestato il litorale tirrenico terminano con la cattura avvenuta per mano di Giannettino, nipote di Andrea, in una baia della Corsica dove aveva cercato rifugio braccato dalle galee di S. Giorgio. Andrea Doria lo fece incatenare quattro lunghi anni al remo della sua ammiraglia prima di venderlo come schiavo, dietro lauto compenso, proprio a quel Barbarossa del quale sarebbe divenuto successore. Per molti non fu una scelta felice quella dell’Ammiraglio genovese poiché Dragut divenne “la spada vendicatrice dell’Islam” funestando per circa un ventennio il “mare nostrum”. In realtà, secondo alcune fonti, durante la sua prigionia consumata in parte nella Torre Grimaldina, in parte nelle sfarzose stanze della Casa del Principe, il corsaro venne trattato con tutti i riguardi riscuotendo, a detta delle male lingue, grande consenso presso le nobildonne del palazzo. A mio modesto e personale parere invece l’ammiraglio, liberandolo, si era assicurato il lavoro per gli anni a venire. I due erano profumatamente pagati dai rispettivi stati (Spagna e Impero Ottomano) per combattersi a vicenda e la scomparsa di uno dei due avrebbe significato la parola fine sui loro affari.Dragut morì in uno scontro presso Malta nel 1565 quando una scheggia lo colpì alla testa e pose fine alla sua inimitabile carriera. Per rispetto o scherno, questo non so, Andrea chiamò con il nome del pirata il suo gatto di casa.
Il quarto è Niccolò Pisani, ammiraglio dei veneziani, durante la terza guerra contro i leoni di San Marco. Nella battaglia avvenuta nel 1354 presso l’isola di Sapienza, nel Mare Adriatico, subì una incredibile sconfitta ad opera di Pagano Doria che, seppur in forze numericamente inferiori, inflisse al collega veneziano una lezione di tattica. Quattromila veneziani tinsero di rosso le acque della baia, le navi superstiti furono condotte a Genova come bottino di guerra, il Pisani imprigionato.
Alla notizia della disfatta il doge veneziano Andrea Dandolo morì di crepacuore.
Verrà liberato l’anno seguente a seguito della pace firmata fra le due Repubbliche e tornerà in laguna fino alla fine dei suoi giorni.
Nel 1607 i Serenissimi Collegi al fine di disciplinare la discutibile condotta di molti nobili, rei di non comportarsi in maniera conforme al loro status, introducono la legge di “biglietti di calice”.
Il piccolo consiglio si riunisce così una volta al mese per giudicare ed eventualmente esiliare i patrizi ritenuti colpevoli. Si stabilisce di aprire delle buche nei muri perimetrali dei cortili di palazzo Ducale e di disporre, durante le riunioni del Collegi, dei calici in cui i cittadini avrebbero potuto consegnare in modo anonimo le proprie rimostranze.
I biglietti di calice erano così chiamati per via della forma dei recipienti che venivano utilizzati per contenerli. Fra gli argomenti si trovava un po’ di tutto: consigli, suggerimenti, proposte, ma anche lamentele, delazioni e mugugni insomma una sorta di prototipo di cassetta delle idee.
Fatta la legge trovato l’inganno infatti, se da un lato questo tipo di denuncia anonima permise ai Supremi Sindacatori di intervenire con risolutezza nelle situazioni più scabrose, dall’altro, molto più spesso, le fitte relazioni e i legami di potere fra le famiglie ne attenuarono la funzione punitiva.
In origine la torre trecentesca, come anche il sottostante palazzo, apparteneva alla famiglia Fieschi. Accorpata al Palazzo Ducale è collegata da un arco al Palazzetto Criminale adibito ai malfattori comuni.
La torre era invece destinata ai prigionieri politici o comunque di riguardo. Nelle sue celle (una di queste “la Grimalda” dà il nome alla costruzione) furono rinchiusi personaggi straordinari:
Il Doge Paolo Da Novi, ribelle contro l’occupazione francese, poi decapitato; il pirata saraceno Dragut, il luogotenente del Barbarossa catturato dal Principe Doria; i cospiratori contro la Repubblica come Vacchero e Raggio; il violinista Paganini, il musicista più famoso del suo tempo, reo di aver molestato una minore; artisti come il Mulier, detto “Il Tempesta”, celebre per le sue tele marittime, accusato, ingiustamente, di uxoricidio; altri pittori che, durante la loro reclusione, hanno decorato i loro alloggi come Sinibaldo Scorsa, Domenico Fiasella, Luciano Borzone e Andrea Ansaldo.
Il mio pensiero però va a Jacopo Ruffini, compagno di Mazzini che, torturato e violentato, piuttosto che tradire i suoi ideali ed elencare i nomi dei membri della Giovine italia, ha preferito il suicidio.
Subito mi accarezza la mente la struggente “Preghiera in gennaio” di De André, dedicata all’amico Tenco.
Con il sangue delle vene recise ha scritto sul muro della cella: “la risposta?… la vendetta dei miei fratelli”.
… ha origine agli inizi del ‘300 e nasce per omaggiare il Podestà prima, il Capitano poi e infine il Doge.
Consiste in un corteo che partiva dalla zona di Porta Romana (Borgo Incrociati) dove l’ Abate del Popolo uscente lasciava a quello entrante la carica e i problemi simboleggiati da nastri bianco rossi (i colori di S. Giorgio) con i quali si adornava un grosso ceppo di alloro (il Confeugo).
L’Abate ora si recava in processione a Palazzo Ducale, dove scambiati i saluti e i doni di rito con il Doge, partecipava insieme all’Arcivescovo al banchetto.
Il Confeugo veniva poi acceso e spento con una brocca di zucchero, vino e confetti.
La fumata che ne conseguiva, a seconda che fosse dritta o storta, veniva interpretata positivamente o meno in relazione ai problemi da risolvere (i nastrini rossi).
La popolazione si contendeva i resti perché, si diceva, avessero proprietà magiche e portassero fortuna.
Questo, spesso causava risse e disordine pubblico, quindi venne stabilito di bruciare più ceppi per distribuirlo equamente a tutti.
La cerimonia natalizia genovese venne abolita dai francesi nel ‘500 e da Napoleone nell’ 800… ma sempre ripristinata.
Oggi il Sindaco e il Priore della Compagna rappresentano Doge e Abate.
Oltre al valore culturale e storico il Confeugo simboleggia l’unione della città in tutte le sue componenti:
Il Doge, il governo borghese o aristocratico e mercantile (a seconda dei contesti) l’Abate, il Popolo artigiano, contadino e operaio, infine l’Arcivescovo, silenzioso e onnipresente, il potere ecclesiastico.