La rappresentazione della natività si dipana fra la città e il porto di Genova con figure orientali che rappresentano da sempre la multi etnicità di una città aperta ai commerci e al mondo.
Il presepe in vetrina – come battezzato dai suoi curstori Giulio Sommariva e Simonetta Maione – dei Musei di Strada Nuova è stato allestito a Palazzo Rosso in una scenografica teca, visibile da via Garibaldi.
Le statuine che animano le scene con la Sacra Famiglia, i pastori e i nobili sono in gran parte dovute all’opera di Pasquale Navone che, pur nato dopo la morte del Maestro, si formò alla bottega del Maragliano.
In tutto circa 30 statuine – alcune delle quali provenienti dalle collezioni civiche, in particolare dal Museo Giannettino Luxoro di Nervi – ispirate dalle stampe seicentesche e settecentesche dell’incisore Antonio Giolfi e del pittore fiammingo Cornelis de Wael. Si riconoscono ad esempio Piazza Banchi e ponti Spinola, Reale e Calvi sotto la futura Piazza Caricamento.
Si tratta di figure a manichino in legno con parti visibili scolpite e policromate e rivestite con tessuti pregiati, tra i quali sete finemente ricamate e tele jeans del 700.
Il presepe è illuminato e visibile anche la sera per tutti coloro che si troveranno a transitare in via Garibaldi e resterà aperto fino al 5 febbraio.
Il presepe oggi esposto in occasione delle festività nell’atrio del palazzo della Regione Liguria appartiene in realtà alla parrocchia di San Bartolmeo di Staglieno ed è stato per l’occasione appositamente restaurato.
Si tratta di un tradizionale allestimento ambientato nelle nostre campagne con i bucolici personaggi dell’iconografia classica.
Due in particolare gli elementi tipici che rimandano alla consuetudine sei, settecentesca: il tipico pastorello che indossa i jeans e la presenza dei cavalli al posto dei cammelli nella rappresentazione dei Re Magi.
Le ventuno settecentesche statuine sono attribuite alla mano e alla Bottega di Pasquale Navone, dopo il Maragliano, il principale esponente della scuola genovese.
Il gruppo dei re Magi col loro seguito di fine ‘600 è addirittura di Giambattista Gaggini, detto il Bissone, inisieme al padre Domenico il capostipite del movimento artistico presepiale.
I manichini lignei sono curati nei mimimi dettagli, intarsiati, dipinti e riccamente addobbati come nella migliore tradizione presepiale cittadina.
In copertina: Il Presepe di San Bartolmeo di Staglieno esposto nell’atrio del Palazzo della Regione Liguria. Foto di Ilaria Cavo.
Le statuine, in origine delle marionette, sono state adattate e arricchite con vestiti realizzati intorno al 1980 dal famoso scenografo genovese Lele Luzzati.
Non c’è chiesa nei caruggi – e non solo – che non fornisca preziosa testimonianza di questa tradizione nostrana. Fra i tanti mi preme segnalare e far conoscere in particolare quello orgogliosamente custodito in Santa Maria di Castello, la chiesa cuore storico, artistico e culturale della città vecchia.
Le statuine, in origine delle marionette, costruite a cavall0 fra ‘700 e ‘800, furono trovate in una cassa dai domenicani quando ancora abitavano il convento. Non se ne conosce con certezza la paternità. Probabilmente alcune sono riconducibili alla scuola del Maragliano e dei suoi allievi Pietro Galleano e Agostino Storace, altre la maggioranza, dei suoi continuatori Pasquale Navone e Giovanni Battista Garaventa. Di sicuro sono state adattate e arricchite con vestiti realizzati intorno al 1980 dal famoso scenografo genovese Lele Luzzati.
La commovente settecentesca Deposizione di Gesù nel Sepolcro del Maragliano custodita in San Matteo.
“Io non credo nella resurrezione però non posso nascondere l’emozione che sento di fronte a Cristo e al suo insegnamento. Di fronte a lui e di fronte alla sua storia non provo che rispetto e venerazione.
(Albert Camus)
La Grande Bellezza…
Con lo sviluppo delle attività marittime la famiglia Striggiaporco ottenne nel 1173 dal Vescovo Ugo Della Volta il permesso di erigere una nuova chiesa nel quartiere portuale del Molo. Curioso il fatto che il suo promotore volle intitolarla al santo protettore della rivale Venezia. All’ingresso della chiesa sulla sua tomba i suoi eredi, nel frattempo confluiti nell’albergo dei Salvago, nel ‘500 posero una lapide in ricordo del fondatore.
In origine l’accesso all’edificio di pietra in stile romanico era rivolto ad ovest e la chiesa si stagliava direttamente sui prolungamenti dei moli aggrappati alla scogliera. All’inizio del XIV sec. ne fu parroco il primo cartografo genovese di cui si abbia notizia, Giacomo da Carignano il quale, oltre ad essere uomo di chiesa e di scienza, fatto al tempo inconsueto, era anche personaggio attento agli affari: nel 1314 infatti venne diffidato dall’Arcivescovo Porchetto Spinola per aver affittato alcuni locali della chiesa ad uso marittimo a privati cosa che, con la successiva benedizione e copertura della Curia romana, continuò impunemente a fare.
L’edificio fu oggetto a lavori di manutenzione nel ‘400 ma fu nel ‘500 che operò le principali trasformazioni venendo inglobato nella più recente, a quel tempo, cinta muraria culminata con l’erezione della poderosa Porta Siberia. Le mura della Marinetta costeggiandola lungo tutto il lato a nord la separarono dal contatto diretto con i moli ai quali rimase collegata, come per mezzo di un materno cordone ombelicale, attraverso la Porta della Marinetta. Fu in questa occasione che l’esposizione della chiesa venne ridisegnata e disposta al contrario. Quello che oggi è l’ingresso un tempo costituiva l’abside. Sul finire del ‘500 e per tutto il ‘600 S. Marco al Molo subì continue modifiche e rifacimenti culminati con la settecentesca versione barocca.
Fino ancora a gran parte dell’800, essendo il Molo la sede delle esecuzioni capitali, S. Marco costituiva l’ultima tappa del macabro corteo che partiva dal Palazzetto Criminale per snodarsi lungo le vie del centro e ricevere qui l’ultima benedizione. A testimonianza di questo spiacevole compito una lapide del 1654 rammenta come il parroco della chiesa si fosse assunto l’onere di celebrare messa in suffragio perpetuo per i condannati ogni sabato e il 2 novembre di ogni anno.
A seguito dei restauri resisi necessari a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale sono stati riscoperti colonne ed archi romanici originali, le tracce dell’antica abside, a conferma di quanto sopra affermato, ovvero che la chiesa avesse un diverso orientamento rispetto a quello attuale e i resti della base ottagonale dell’antica torre demolita nel 1783 perché pericolante. Venne successivamente sostituita con l’attuale campanile a torre.
Il campanile originario della chiesa romanica era in realtà una “torre nolare“, in quanto incorporata nella struttura dell’edificio principale, tipica del romanico primitivo; di forma ottagonale simile a quello della chiesa di S. Donato.
Interessante il piccolo distacco di via del Molo, risalente al 1594, che accoglie il portico medioevale costruito nel 1346 a ridosso di quella che era allora l’abside della chiesa e che era utilizzato per le riunioni della “conestagia” (circoscrizione amministrativa popolare della Genova medioevale, sorta in contrapposizione di quella nobile degli “alberghi“). Ne costituiscono indelebile traccia le arcate, tamponate e le colonne in pietra accorpate nella muratura.
Se l’esterno si presenta quindi anonimo e, ad eccezione di qualche lapide e del celebre leone di Pola, non merita menzione l’interno al contrario, diviso in colonne a lesene bianche e nere, ornate da capitelli cubici, è ricco di sorprese e custodisce opere d’arte di pregevole fattura:
vicino alla parete d’ingresso, ”l’Assunta”, statua lignea, parte di una preziosa cassa processionale, di Anton Maria Maragliano (1736); presso il secondo altare della navata destra, “Madonna e i santi Nazario e Celso”, gruppo marmoreo di Francesco Maria Schiaffino (1735), commissionato dalla prestigiosa e potente corporazione, come indicato da un’iscrizione presso lo stesso altare, degli Stoppieri (maestri calafati).
Tra i dipinti si notano: “Martirio di Santa Barbara”, opera giovanile di Domenico Fiasella (1622), commissionato corporazione detta dei Bombardieri (addetti alla costruzione e all’uso delle artiglierie), i “Santi Agostino e Chiara “di Antonio Giolfi, “Nozze mistiche di Santa Caterina” di Orazio De Ferrari (1630 circa) e “Anime purganti”, dipinto seicentesco attribuito a Giulio Benso.
Nella cappella alla destra del presbiterio infine, un altare in marmo di Daniello Solari (fine del XVII secolo), dedicato alla Madonna del Soccorso raffigurata, racchiusa in una scenografica cornice marmorea, in una tavola di Giovanni Carlone.
Da tempo immemore i Frati Minori Conventuali dalla vicina Abbazia di S. Giuliano, si ritirarono in un luogo “… magis idoneum et plus ab ecclesia matrice distantem…” più distante dal mare, dal chiasso e dai pericoli della spiaggia. Chiusa fra gli ulivi che le facevano da barrieraesisteva una piccola chiesa intitolata a S. Michele, sorella di quella che, ancora nel 1346 quando venne abbattuta per l’ampliamento delle mura trecentesche, con lo stesso titolo, si trovava nei pressi dell’attuale S. Stefano in città.
Fu la nobile famiglia Cebà Grimaldi quella che, fra il 1100 e il 1400, si adoperòpiù di ogni altra con cospicue donazioni per la manutenzione e gli abbellimentidell’edificio: nel 1316 contribuì all’erezione del Convento e nel 1323 alla costruzione, sul sito della precedente, di una nuova chiesa. Nel 1334 al titolo di S. Michele i Fratisostituirono, per acclamazione popolare, quello del fondatore del loro Ordine, S. Francesco d’Assisi.
Nel 1544 incorporò il titolo parrocchiale dell’antichissima chiesa dei S.S. Nazario e Celso che, aggrappata agli scogli aveva subito, causa le forti mareggiate, gravi danni, tali da renderne sconsigliabile il ripristino. Chiesa dei S.S. Nazario e Celso e S. Francesco d’Albaro è a tutt’oggi l’intestazione completa della parrocchia. Nel ‘600 anche la famiglia Giustiniani partecipò ai restauri dell’edificio e, per questo, nel 1843 un suo illustre esponente, Sua Eminenza il Cardinale Alessandro Giustiniani, ebbe il privilegio di esservi sepolto. Il sepolcro marmoreo in cui riposa nella cappella del S. Cuore è mirabile lavoro di Carlo Rubatto.
A cavallo fra ‘600 e ‘700 S. Francesco d’Albaro ottenne l’autonomia rispetto alla sede principale dei francescani a Genova, quella di S. Francesco in Castelletto.
Nel 1810 durante l’epoca della dominazione napoleonica e della soppressione degli ordini minori, i Frati furono costretti ad abbandonare il Convento rientrandone in possesso solo nel 1817, dopo l’indigesto ma, per loro salvifico passaggio al Regno di Sardegna dei Savoia.
Pregevole testimonianza della sua origine medievale è il duecentesco Portale in bell’arco acuto con sottili colonnine che reggono l’architrave, con al centro un affresco della Madonna in mezzo a due Monaci del XIV sec. A ricordo della sua primitiva intestazione rimane tuttavia un grazioso bassorilievo dell’arcangelo Michele in marmo.
Al suo interno le opere di maggior rilievo sono isecenteschi affreschi di G. B. Carlone raffiguranti il “ S. Francesco in Gloria” e il ”Sacrificio di Abramo”. Di non minore importanza sono tuttavia le decorazioni settecentesche di abside coro e transetto, del Galeotti e altri affreschi secenteschi di Giovanni Andrea Ansaldo che nobilitano l’Altare della Crocifissione.
S’incontrano poi un gruppo ligneo del Maragliano rappresentante il Battesimo di Gesù , un “S. Francesco che contempla Gesù e Maria” di Domenico Fiasella, una Crocifissione lignea del savonese Antonio Brilla, scultore ottocentesco e un’altra del Maragliano custodita nel corridoio della parrocchia. Per gli appassionati di musica sacra, di particolare interesse è l’organo ottocentesco opera di artigiani bolognesi che sostituì il precedente irrecuperabile strumento settecentesco.
Le sorprese non finiscono qui perché nel refettorio sono conservate “Una cena di Emmaus” di Stefano Magnasco padre del più celebre Alessandro e un bozzetto dell’”Ultima Cena” di Luca Cambiaso. Nel corridoio che porta dalla sacrestia all’archivio “La Crocifissione” di Pier Francesco Sacchi, pittore lombardo di rinomata fama. Questi, pavese di nascita ma albarino d’adozione, morì di peste nel 1528 nella sua Albaro, mentre Genova, provata dal “Sacco” subito quell’anno, inneggiava la ritrovata libertà grazie ad Andrea Doria. Nel corridoio del convento è esposto anche “S. Carlo” una tela del Procaccino.
Infine, nella Sacrestia si conserva un pregevole “Riposo durante la fuga in Egitto” di Francesco Campora, settecentesco poco noto, ma valente maestro della scuola genovese del suo tempo.
Insomma S. Francesco che sia in chiesa, nella sacrestia, nel convento o nel refettorio, in ogni angolo manifesta la sua opulenta devozione.
Prima di percorrere Vico Sotto le Murette ed ammirare i brani delle antiche mura del Barbarossa, allo sbocco con la scalinata che scende verso le Mura della Marina, si troval’oratorio di S. Antonio della Marina.
Venne costruito nei primi anni del XV sec e, causa il bombardamento del 1684 del Re Sole, ricostruito nel XVII sec. Con l’occupazione francese e relativa soppressione napoleonica degli ordini religiosi, fu adibito a stalla. Nel 1828 venne recuperato e restaurato su progetto dell’architetto Carlo Barabino che lo rivisitò in chiave neoclassica.
L’esterno risulta piuttosto anonimo e la facciata sembra sbirciare timida il mare. Dal punto di vista storico, tuttavia, è interessante l’edicola posta a lato del portone con Sant’Antonio e Madonna con Bambino del 1637, sulla cui mensola sono scolpite le chiavi della città a simboleggiare il fatto che da quell’anno la Madonna è la Regina di Genova. Sotto di essa la dicitura un tempo affissa sulle porte della cinta muraria secentesca: “Posuerunt me custodem” (mi misero a protezione).
Ancora più sotto la commovente e relativamente recente lapide che recita:
Su tutte il celeberrimo Cristo Morodelle Fucine del Bissoni del 1639 ritenuto il primo esempio di grande crocifisso processionale ligure. Scolpito inlegno di giuggiolo tinto al naturale con fregi in tartaruga e fogliame d’oro. Il gonnellino insieme agli altri orpelli d’argento e i diamanti con cui era decorata la scritta “INRI” sono stati depredati dalle truppe napoleoniche.
Non da meno sono poi il Cristo Bianco, datato 1710, opera del Maragliano e la strepitosa tardo settecentesca cassa processionale con San Giacomo Maggiore che abbatte i Mori di Pasquale Navone, proveniente anch’esso dalla Confraternita delle Fucine.
Vi sono poi affreschi ottocenteschi di Giuseppe Passano e soprattutto quelli cinquecenteschi di Luca Cambiaso, tele di Orazio Cambiaso e di altri artisti minori della scuola genovese che si sono impegnati nel raccontare gli episodi salienti della vita del santo.
Di pregevole fattura infine l’altare ottocentesco con le tre relative statue frutto del talento di Ignazio Peschiera.
L’oratorio inoltre, fatto singolare e curioso, avendone ereditato il titolo dalla vicina dismessa chiesa, è sede della parrocchia di S. Salvatore, il cui sconsacrato edificio ospita l’aula magna della facoltà di architettura.
“Ebony and Ivory live together in perfect harmony” cantavano in duetto Paul Mc Cartney e Stevie Wonder… e se nel mondo questa resta ancora un’utopia irrealizzata, il “ Cristo Moro” equello “ Bianco”, nell’oratorio di S. Antonio della Marina, convivono in perfetta armonia.
Nasce a Genova nel 1664 il più grande scultore del suo tempo. Entra giovanissimo, in qualità di apprendista, nella bottega dello zio Gio Batta iniziando a copiare le opere del Bissone.
A soli ventiquattro anni il Maragliano possiede già una bottega tutta sua sita in Via Giulia (attuale Via XX Settembre) e diviene maestro indiscusso delle sculture lignee.
La sua scuola produrrà casse processionali, crocifissi, sculture sacre in tutta la Liguria ma la sua fama varcherà i confini della Repubblica esaudendo commesse per diverse città spagnole, Cadice e Siviglia in particolare.
Grande amico del pittore Domenico Piola che aveva il suo studio nella poco distante Salita San Leonardo, incontra e apprezza il concittadino Filippo Parodi e il marsigliese Pierre Puget, anch’essi scultori di prim’ordine.
Come il Piola nella pittura e il Parodi nel marmo, Anton Maria rivoluziona l’arte del legno anticipando gli stilemi del Barocco genovese.
Fra le innumerevoli opere, quelle forse più care e note ai genovesi, sono le statuine del presepe e la celeberrima Pietà, entrambe custodite nel Santuario della Madonnetta.
Dopo oltre cinquant’anni di arte sacra portata ai massimi livelli Maragliano, di ritorno da uno dei suoi frequenti viaggi in Spagna, nel 1739 si spegne nella sua Genova. A raccoglierne la preziosa eredità artistica, oltre ai discepoli della sua bottega Agostino Storace e Pietro Galleano, sarà l’allievo di quest’ultimo Pasquale Navone, il vero continuatore della feconda tradizione scultorea genovese.
Sulle alture del Monte Galletto si staglia il settecentesco Santuario della Madonnetta.
Il solo ufficialmente riconosciuto dalla Repubblica con tanto di autentica dogale.
È un altro di quei luoghi speciali che Genova sa regalare ai suoi amanti, ricco di opere d’arte e curiosità.
Disposto su quattro livelli di continui sali e scendi per ricordare ai fedeli che, come Gesù è sceso in terra per salvare gli uomini, così costoro devono salire a lui per purificarsi.
Ti accoglie con un meraviglioso sagrato in rissoeu, uno dei meglio conservati in città.
Al suo interno la statua in alabastro della Madonnetta, una versione di quella, più celebre, di Trapani, venerata in tutto il Mediterraneo.
È una rappresentazione unica perché il Bambinello non guarda in avanti ma si rivolge alla Madre e le stringe il pugno… come a dire “Proteggili”.
Il vestito che fascia Gesù è lo stesso che avvolge la Madonna a sottolineare che sono una cosa sola.
Infine l’ampio
drappeggio dell’abito, più grande del necessario, sta ad indicare che c’è posto e protezione per tutti.
Incastonate nelle pareti della chiesa ottagonale (l’otto nella simbologia cristiana rappresenta la Resurrezione) sono presenti circa venticinquemila reliquie di santi, provenienti dalle prime catacombe romane.
La volta della cripta è affrescata dal Guidobono e molti dei maggiori artisti del ‘700 genovese hanno lasciato qui la propria impronta.
Impossibile non ricordare il Bissone con la Statua della Madonna Regina e le statuine del presepe nella scena della Natività.
O il Maragliano con uno dei suoi celebri crocifissi e con la continuazione del famoso presepe che da lui prende il nome.
In realtà oltre al Maragliano e al Bissone, le circa cento statuine che lo compongono sono frutto di oltre un secolo di tradizione della scuola genovese e dei suoi eredi. Dai maestri Navone e Pedevilla al tirolese De Scopt.
Molte altre sarebbero le cose da raccontare… buona scusa per una visita… un’ultima però va rammentata:
La Pietà del Maragliano, osservata in solitudine, commuove per tragicità espressa.
In particolare gli occhi azzurri della Madonna sono così vivi e lucenti che sembrano implorare noi uomini di non bestemmiare mai più suo Figlio.
La Madonnetta val ben una Messa!
A Genova con questo termine si indicano le confraternite, di derivazione provenzale, presenti in città fin dal tredicesimo secolo.
I loro membri, vestiti con tuniche a sacco e cappucci, percorrevano i quartieri della Superba in occasione di particolari feste religiose, recitando preghiere e canti sacri.
Col passare dei secoli dalle semplici tuniche si passò a vestiari sfarzosi facendo a gara quanto a ricchezza dei paramenti.
Nel ‘700 le Confraternite erano venti, quattro per ogni quartiere e le loro processioni erano seguitissime e oggetto di contesa (un po’ come il palio di Siena).
I protagonisti erano i “Brassezei” che reggevano crocifissi alti più di cinque metri e pesanti oltre cento chili, appoggiandosi sul crocco (astuccio di cuoio legato in vita), al ritmo e a tempo di musica.
Le Confraternite più ammirate e prestigiose erano intitolate a
i Santi Giacomo e Leonardo, San Giacomo delle Fucine e a S. Antonio Abate della Marina.
Queste gareggiavano ogni anno per primeggiare, quanto a originalità, sfarzo e opulenza degli apparati, sulle altre.
Grande rilievo avevano le casse processionali, raffiguranti i personaggi a grandezza naturale, il cui principale artefice fu, manco a dirlo, il Maragliano.
Questi perfezionò l’arte del Navone e del Bissone traslando sulle proprie opere i concetti e le scene dei pittori in voga nel suo tempo (molta influenza su di lui ebbe l’amicizia con il Piola).
La più nota, conservata in S. Antonio abate della Marina, S. Giacomo che sconfigge i Mori, del Bissone, è di una bellezza sconcertante.
Causa i frequenti disordini pubblici e le violente risse, in epoca napoleonica, le Confraternite vennero abolite.
Ma negli ultimi decenni, vuoi come segno di devozione, vuoi come manifestazione folcloristico culturale, hanno ripreso grande popolarità nella nostra tradizione.