“U vin giancu de Cônâ”…

Nell’anno 218 a.C., durante la Seconda Guerra PunicaGenova alleata di Roma, subì l’imprevisto e violento attacco di Magone, fratello minore dei più celebri condottieri cartaginesi Asdrubale e Annibale. Distrusse, devastò e saccheggiò la città che, parole sue: “non meritava di essere risparmiata perché priva di una buona vigna” (il nostro vino gli era parso infatti aceto). Probabilmente – dico io -non aveva avuto occasione di assaggiare il bianco di Coronata altrimenti non avrebbe potuto pronunciare tale nefasta sentenza e Genova si sarebbe salvata.

Sulle alture di Cornigliano si erge infatti la collina di Coronata il cui nome deriverebbe da “columnata”, le colonne che erano impiantate nei terreni a confine, o a supporto della vigna stessa. Eh si di vigna stiamo parlando perché per noi genovesi Coronata è sinonimo dell’omonimo vino bianco che da secoli viene prodotto in Val Polcevera nei comuni di Morego, Sestri Ponente, Fegino, Borzoli e, appunto, Coronata.

Oggi, dopo essere stato per anni quasi introvabile, se non nelle cantine di qualche contadino che ne produceva per il fabbisogno familiare, grazie all’intraprendenza di alcune piccole aziende agricole locali (quella di Cognata su tutte che ha ottenuto anche diversi riconoscimenti a livello nazionale) sta vivendo una sorta di rinascita.

Nella galleria dei miei ricordi il profumo fruttato di questo vino mi riporta indietro nel tempo ai primi anni ’90 quando ragazzo, insieme ad altri coetanei, fui ospite ad una cena di un caro amico: ad un certo punto il papà del padrone di casa presentò in tavola una casareccia bottiglia di vetro verde spesso con tappo di sughero artigianale e disse: “Questo è il vero bianco di Coronata… non se ne trova tanto facilmente … assaggiate e ditemi…”. La bottiglia ancora perlata di frigo fu un successo sorprendente e il nostro Trimalcione dovette dare fondo alle scorte della cantina per accompagnare il nostro pantagruelico pasto a base di pesce amorevolmente preparato dalla padrona di casa.

Non so se il mio giudizio sia influenzato dal piacevole ricordo di quella spensierata serata fra amici ma, quel profumo e aroma non li ho mai dimenticati, un po’ come  il sapore delle madeleines della zia per Proust nel suo celeberrimo “À la recherche du temps perdu”.

Il Papà del mio amico era giardiniere del Comune ed era entrato in possesso di una vera partita di Coronata regalatagli da un contadino del luogo che intendeva così sdebitarsi per un intervento da questi effettuato nella sua vigna, per risistemare alcuni viticci.

Il Val Polcevera Coronata si produce con le uve dei vitigni Bianchetta Genovese,Vermentino e Albarola da soli o congiuntamente per almeno il 60%; possono inoltre essere utilizzate le uve dei vitigni Pigato, Rollo e Bosco per un massimo del 40%. Deve avere una gradazione alcolica non inferiore a 11 gradi. Va consumato entro un anno dalla vendemmia e va servito ad una temperatura tra i 10 e gli 11 gradi.

“Il Bianco di Coronata etichetta Cognata”.

Il Coronata ha un colore tonico, non slavato, e al naso ha una fragranza intensa, con note di frutta bianca un po’ macerata. Nell’assaggio colpisce subito la vena salata intensa, affilata, e un sottile amaro finale, così delicato da risultare in definitiva elegante.

La caratteristica più tipica del bianco di Coronata è il suo sentore di zolfo che qualcuno sostiene fosse generato dalle abbondanti dosi di verderame utilizzate nelle vigne mentre altri, vogliono che lo zolfo provenisse dai fumi delle vicine acciaierie. “U vin giancu de Cônâ” si accompagna al pesce in  generale al “ciupin” – la zuppa di pesce ligure – alle acciughe all’ammiraglia, ai totani e cavoli ripieni in particolare e, secondo alcuni, può essere una valida alternativa alla Bonarda (vino rosso) per il classico abbinamento fave e salame di S. Olcese.

E se non è dato sapere se Magone l’avesse assaggiato e se gli fosse piaciuto o meno certamente Stendhal ne era rimasto più che soddisfatto a tal punto da citarlo nel suo famoso “Viaggio in Italia”.

“Grande è la fortuna di colui che possiede una buona bottiglia, un buon libro e un buon amico”. Cit Molière.

Bomba su bomba…

Fin dai tempi remoti innumerevoli sono state le volte in cui Genova è stata distrutta, umiliata, offesa:

penso ai Cartaginesi guidati da Magone che nel 205 a.C. la rasero al suolo, ai Saraceni nel 935 d.C. che ne violarono il litorale, per non parlare di francesi, spagnoli, austriaci, inglesi e Savoia.

"Il bombardamento del 1684 illustrato da Jan Karel Donatus".
“Il bombardamento del 1684 illustrato da Jan Karel Donatus”.

Il terribile sacco di Genova ad opera degli spagnoli nel 1522 ma senza dubbio alcuno l’aggressione ordita nel 1684 da Luigi XIV re Sole entra di diritto fra le più terribili. Non da meno fu l’assedio austro inglese del 1800 ricordato per l’eroica e strenua resistenza portata avanti dalla città comandata dal generale nizzardo Massena.

Che dire poi del vergognoso eccidio del 1849 perpetrato dai bersaglieri del generale La Marmora per conto dei Savoia?

In tempi più recenti durante la seconda guerra mondiale i bombardamenti degli alleati provocarono circa 9000 vittime civili oltre a danni incalcolabili agli impianti industriali e al patrimonio artistico della città.

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“I resti del complesso conventuale di S. Silvestro in Sarzano dopo i raid del 1942. Genova colpita al cuore”.

Genova come recita l’antico motto “flangar non flectar” mi spezzerò ma non mi piegherò che si può anche leggere al contrario “Flectar non flangar” mi piegherò ma non mi spezzerò, si è sempre orgogliosamente rialzata.

Le prime avvisaglie si ebbero il 11 e 13  giugno 1940,  cioè nei giorni immediatamente successivi all’entrata in guerra dell’Italia quando Inghilterra e Francia iniziarono i primi attacchi aerei. Ma il 14 giugno di quell’anno fu la data che rimase impressa nella memoria dei genovesi poiché  i Francesi intentarono addirittura un’azione navale contro Savona e Genova. L’operazione ebbe esito di poco conto ma scalfì non poco l’umore della popolazione e il morale dell’esercito, proiettati subito nello scontro, senza neanche aver avuto il tempo di realizzare la gravità della situazione.

Nel periodo compreso fra il 1941 e il 1945 gli storici hanno calcolato che i bombardamenti distrussero o danneggiarono gravemente 16000 edifici in tutta l’area comunale.

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“La chiesa di S. Stefano dopo il bombardamento dell’8 agosto 1943”.

La Superba dovette subire ben 86 incursioni aeree volte non solo a colpire le industrie e il porto ma anche il centro abitato con l’intenzione di terrorizzare la popolazione.

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“La zona atterrata di S. Donato in cui si staglia eroico il suo campanile”.

Il 9 febbraio 1941 le navi inglesi provenienti da Gibilterra attuarono “l’operazione Grog” entrando, di sorpresa, senza incontrare alcuna resistenza nel golfo di Genova seminando morte e distruzione. Dalle 8:15, così raccontano le cronache del tempo, fino alle 9:45 i britannici scaricarono sulla Superba 273 proiettili di grosso e 782 di piccolo calibro. Circa 300 tonnellate di bombe provocarono 141 morti, 227 feriti e 2500 senzatetto, oltre 250 gli edifici distrutti, quattro navi ancorate in porto affondate e le acciaierie dell’Ansaldo danneggiate gravemente. In quest’occasione venne colpita anche la Cattedrale dove però l’ordigno non esplose. Via XX settembre, la civica biblioteca Berio, il centro storico e le colline, le zone maggiormente colpite.

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“La lapide che ricorda le vittime della tragedia della galleria delle Grazie”.

Legata sempre ai bombardamenti è la tragedia che si verificò nella galleria delle Grazie presso Porta Soprana dove, la notte fra il 23 e il 24 ottobre 1942, 354 genovesi morirono calpestati dalla ressa di persone che, terrorizzate, cercavano di entrare nel rifugio.

L’anno seguente l’8 agosto 1943 è il teatro Carlo Felice ad essere distrutto in compagnia delle chiese di S. Stefano, Consolazione e S. Siro. Ben 169 le tonnellate sganciate su Genova, 100 morti e circa 13000 senza dimora. In quel nefasto autunno la città subì altri 6 bombardamenti causa di 1250 case abbattute.

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“Recco in macerie”.

Fu in questo periodo che la riviera di Levante perse uno dei suoi borghi più affascinanti; per via della posizione strategica del suo ponte ferroviario Recco, in seguito a 27 incursioni aeree fra 10 novembre del ’43 e l’agosto del’44, venne rasa al suolo.

In quell’anno anche Genova venne oltraggiata da 51 devastanti blitz culminati con il crollo, il 10 ottobre del ’44, della galleria di S. Benigno, causato da un fulmine che fece brillare delle cariche esplosive le quali, a loro volta, innescarono lo scoppio di un treno carico di munizioni, ricoverato nella galleria. Sotto i detriti del promontorio perirono 2000 persone.

Nel 1945 a gennaio i bombardamenti furono undici, a febbraio quattro e in marzo tre. Se ne contarono ancora sette anche in aprile quando, finalmente, Genova suonò la diana dell’insurrezione restituendo la libertà ai suoi cittadini.

Storia di un saccheggio…

e di un modo di dire che è divenuto proverbiale…
Nell’anno 205 a.C., durante la Seconda Guerra Punica, Genova alleata di Roma, subisce l’imprevisto e violento attacco di Magone, fratello minore dei più celebri condottieri cartaginesi Asdrubale e Annibale.
Il Generale, come ci racconta lo storico Tito Livio, parte dalle Baleari e si presenta nel Golfo di Genova al comando di trenta navi in assetto da guerra, un numero imprecisato di imbarcazioni varie, dodicimila fanti e duemila cavalieri.

"Seconda guerra punica, scontro navale".
“Seconda guerra punica, scontro navale”.
“Busto di Magone”.

Distrugge, devasta e saccheggia la città che, parole sue: “non merita di essere risparmiata perché priva di una buona vigna” (il nostro vino gli era parso infatti aceto).

Il bottino viene trasportato fra le mura della fedele alleata Savona (forse da qui inizia la millenaria rivalità).

Roma riconoscente per il suo sacrificio nel 203 a.C. contribuirà alla ricostruzione di quella che diventerà la Signora del Mare, inviando mezzi e uomini al comando del Console Spurio Lucrezio.
Da qui, ancora oggi, nell’immaginario dei genovesi e non solo, avere il magone, cioè quel doloroso groppo alla gola, ricorda la paura e l’ansia provate in quella funesta circostanza.

In realtà l’idea dell’identificazione di tale sentimento con il nome del condottiero cartaginese è suggestiva quanto fantasiosa.

Secondo i linguisti infatti il termine magone deriverebbe dal vocabolo germanico “mago” che significa stomaco e, per estensione, disgusto, dispiacere, diffuso in gran parte dell’Italia settentrionale.

Di qui il verbo amagonâse a significare provare disgusto e dispiacere.