Il teatro progettato da Carlo Barabino venne inaugurato il 7 aprile 1828. Per l’occasione venne eseguita dinnanzi al re di Sardegna Carlo Felice e alla regina Maria Cristina una particolare versione del “Bianca e Fernando” di Vincenzo Bellini. Gravemente danneggiato durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale e dopo innumerevoli vicissitudini è stato ricostruito e riaperto al pubblico il 18 ottobre 1991.
“Ci sono tre teatri in città, a parte uno vecchio che viene aperto raramente. Il più importante – il Carlo Felice: il teatro dell’opera di Genova – è uno splendido, comodo e bel teatro” annotava Charles Dickens.
“La sera dovevo andare a teatro, nella via principale, l’unica che Genova possiede; si trattava di un grosso edificio pubblico, perciò avrei dovuto trovarlo facilmente, ma non fu così; i palazzi stavano a fianco a fianco uno più splendido dell’altro, ma infine un maestoso Apollo di marmo, candido come la neve contro il cielo azzurro, mi indicò il luogo” raccontava Hans Christian Andersen.
La statua equestre di Garibaldi scolpita da Augusto Rivalta e quella del Genio dell’Armonia (confusa con Apollo da Andersen) di Giuseppe II Gaggini anche di notte – è il caso di dirlo – sono ancora all’opera.
Al civ. 37r. di Sottoripa si può ammirare la settecentesca Madonna del Rosario, un’edicola in marmo con medaglione ovale dipinto su lastra di ardesia. I colori della Vergine che regge in braccio il bambino sono ancora discretamente conservati. Tre delle quattro teste di cherubini alati che ornavano la cornice sono state rubate un paio di decenni fa. Ne rimane solo una a triste presidio.
Terra e mare stavano litigando per stabilire i rispettivi confini. Mentre i venti cominciavano a soffiare impetuosi e la terra a vibrare ostile, il mare già esibiva i muscoli delle sue onde.
Lo scontro sembrava ormai inevitabile. Ma quando i monti si alzarono in piedi minacciosi e videro adagiata nella baia Zena “la Bella”, la neve si sciolse dall’emozione e così ebbe fine ogni tensione.
Nei pressi di Salita Santa Caterina ci si imbatte nella graziosa Piazza della Rovere intitolata all’omonima illustre famiglia che diede alla Repubblica un doge, Francesco Maria nel biennio 1765 – 1767 e al mondo due Papi: il cardinale Francesco, passato alla storia con il nome di (dal 1471 al 1484) Sisto IV e il cardinal Giuliano, (dal 1501 al 1513) con quello di Giulio II.
Qui, al civ. n. 1, s’incontra la secentesca edicola della Madonna della Misericordia. Contrariamente alla maggior parte delle edicole del tempo, sfarzose espressioni del Barocchetto genovese, questa si fa notare per la sua fattura semplice ed elegante. Il tempietto squadrato in marmi policromi infatti raccoglie la statuetta della Vergine in una poco profonda nicchia a volta senza fronzoli.
Sul prospetto del Palazzo Spinola dei Marmi, sul lato all’angolo con Via dei Parmigiani, è incastonata la secentesca edicola della Madonna col Bambino. Si tratta di una raffinata edicola con tempietto in marmi policromi e colonne ioniche con capitelli vari. All’interno del timpano curvo è contenuta la testa di un cherubino alato mentre sul trave è presente un cartiglio muto. La base del tempietto è costruita su una mensola con due teste di cherubini che si sporgono ai lati e con al centro, di nuovo, un cartiglio muto. Protagonista della scena è la Madonna con in braccio il Bambinello benedicente con il globo in mano.
Vico dei Parmigiani deve il suo nome ad una loggia, oggi scomparsa, dedicata un tempo ai cittadini di Parma che vi effettuavano i propri commerci, in particolare di formaggi.
Il campanile medievale di S. Stefano un tempo era parte della precedente chiesa longobarda di San Michele e prima ancora una torre militare del presidio arimannico cittadino.
“È un diffuso e impalpabile rumor di mare, quello che senti o ti par di sentire tra le navate nere di secoli e di semitenebra, ch’è anche, per chi abbia orecchio esercitato ad intenderlo, sommesso brusio di traffici e di lucri: di cantieri in opera lungo i due corni della città, nonchè di gravi sirene mercantili, le quali da navi che vengono e vanno, e sempre profonde come bassi d’organo, specie di notte fanno vibrare le invetriate, quando placatosi il concerto delle gru, dei magli e delle perforatrici, odi più chiaro l’ansito della risacca, la cui rotolante ghiaia dà anch’essa il suono e l’idea, nella doppia caligine di quelle chiese, d’un fosforico rotolio di zecchini….
… Intanto, più che chiese le direi bui gusci marini (conchiglie che sembrano a volte fossilizzate) ed entrare in una di tali chiese di dure pietre grige annerite dai fumi portuali e industriali (in San Donato, in San Giovanni in Prè, per tacer di tutte le altre, arci famose), sempre mi è parso un poco entrare in una sorta di murice, ingrandimento di quelli, ruvidi d’incrostazioni calcaree e saline, che i ragazzi raccattano sul litorale, e accostano all’orecchi per sentire il rumore del mare”.
Ex Voto: San Zorzo: “Genova austera, vibrante, ampia! Luogo unico dai trecento ripiani a terrazza sul mare, ornata di parchi stupendi! Genova, dove i tramways sono gli ascensori! Le strade ed i quartieri, sovrapposti, si aggrovigliano, si superano, si ricongiungono, si dividono ancora … Città a sorpresa!, il cui uso insinua un’astuta saggezza: una scalinata, un àndito, un archivolto, una passerella, una galleria conducono in pochi minuti ad un palazzo, ad una piazza alla quale non si sarebbe giunti che in un’ora, seguendo le strade”. Così annotava nel secolo scorso il romanziere francese Valery Larbaud (1881 – 1957).
“Ho chiesto dov’è la strada per la fiera della Maddalena.
Ho chiesto qual’è la strada per la fiera della Maddalena.
Lontano i musicanti si sentivano a malapena.
Nei giorni che ogni momento era la diga di un fiume in piena…”
Cit. La Fiera della Maddalena di Max Manfredi.
“Ci sono soltanto due religioni vere: una che adora e riconosce senza alcuna forma il sacro che abita in noi e intorno a noi e un’altra che lo riconosce e l’adora nella forma più bella. Tutto ciò che vi è in mezzo è idolatria”.
La suggestiva piazza sita nei dintorni della Maddalena deve il proprio nome alla famiglia Lavagna, originaria appunto, della località rivierasca di levante. Qui Filippo da Lavagna nel 1469 fu uno dei primi artigiani italiani ad impiantare un tipografia.
Le prime luci della sera non fanno fatica ad insinuarsi tra gli stretti caruggi e gli ombrelloni chiusi del locale della piazza si apprestano a tramutarsi in singolari fantasmi.