“Non lontano da Genova, sulla cima dell’Appennino, si vede già il mare. Fra i verdi cocuzzoli delle montagne compaiono i flutti azzurri, e le navi che si scorgono qua e là sembrano voler salire sui monti a vele spiegate. Se però si gode questa vista al crepuscolo, quando gli ultimi raggi di sole iniziano il loro mirabile gioco con le prime ombre della sera e tutti i colori e tutte le forme si intrecciano nebulosamente, allora par d’essere veramente in una fiaba, la carrozza scende stridendo, le immagini più dolci e sonnecchianti nell’anima vengono bruscamente scosse e tornano ad appisolarsi, e infine si sogna d’essere a Genova”.
All’esterno del palazzo di Piazza dell’Agnello n. 6 noto come Pallavicino Richeri è affissa una lapide che ricorda erroneamente come l’edificio sia stato di proprietà di Lanfranco Cicala.
Erroneamente perché gli storici hanno individuato con certezza in piazza delle Scuole Pie la casa natale dell’eclettico letterato genovese.
Lanfranco Cicala – infatti – recita la lapide fu un: “console, legista e poeta” vissuto nel XIII secolo.
Nome non poteva essere più azzeccato visto che – nomen omen – proprio come la cicala, Lanfranco il trovatore cantava i suoi versi.
I Cicala si stabilirono a Genova nel 942 – questo è sicuro – provenienti dalla Germania ma le loro vicende risultano piuttosto contorte: alcuni rami si sono infatti sviluppati non solo in città ma anche nelle due riviere, a Lerici e a Ventimiglia.
L’origine del casato si fa comunque risalire a Pompeo valoroso soldato – appunto di Ventimiglia – che, mentre affrontava i pisani, ebbe il capo ricoperto da uno sciame di cicale frinenti.
Alla vista di tale insolita scena i nemici s’impaurirono e Pompeo – da allora divenuto Pompeo Cicala – trionfò.
Per via di questo curioso aneddoto sullo stemma nobiliare del casato fino al 1432 compariva dunque il rumoroso insetto.
L’arma venne successivamente sostituita con l’aquila d’argento in campo rosso, insegna conferita dal re di Polonia a Gio-Batta Cicala per meriti militari. Questi si era infatti distinto sul campo sconfiggendo i Tartari per conto del sovrano di Varsavia.
Oltre a Pompeo fra i numerosi membri di questa illustre schiatta che generò ammiragli, cardinali, generali e senatori, due personaggi meritano particolare menzione; Guglielmo che nel 1198 fu fra i capitani che portarono a Genova le ceneri di San Giovanni Battista; Scipione marinaio vissuto a metà del ‘500 e divenuto Gran Visir, le cui gesta ispirarono il brano “Sinán Capudán Pasciá” di Fabrizio De Andre’.
Vico dei Migliorini deve il toponimo dall’omonima famiglia nativa di Manesseno che qui dimorava nel medioevo.
In origine il caruggio proseguiva dritto e si raccordava con piazzetta Garibaldi e via David Chiossone.
Nel XVII sec. venne interrotto per la costruzione di palazzo Gerolamo Pallavicini al quale si accede da via XXV aprile al n. 12 e di cui diviene pertinenza.
Sopra il cancello una piccola lapide recita:
“Accesso al pozzo pubblico / a Givdizio degli Edili / Come da Atto 17. Ebre 1827. / Notaro Antonio Gaetano Gazzo.
L’edificio noto come il palazzo dei Giganti in via XX settembre fu costruito nel 1896 dall’architetto Carbone e dall’ingegner Fuselli.
Tratto distintivo dell’edificio è costituito dalle otto statue di enormi telamoni o Atlanteani che fungono da colonne, tenendo la cornice sulle spalle.
I giganti sembrano davvero reggere con forza e fermezza il peso dell’edificio mentre i loro muscoli esprimono tensione e i volti non tradiscono fatica.
Autore di tale maestosa meraviglia è stato lo scultore Vincenzo Michelangelo “Michele” Sansebastiano.
Il Palazzo dei Giganti, oltre che per la bellezza delle sue decorazioni e architetture, è anche ricordato per essere stato il primo edificio a Genova costruito con cemento armato.
La Grande Bellezza…
In copertina una delle quattro coppie di giganti. Foto di Bruno Evrinetti.
La Madonna di Porta Aurea, oggi custodita presso il museo di Sant’Agostino, fu realizzata dal celebre scultore Giovanni Antonio Ponsonelli, (Carrara 1654 – Genova 1735).
Tale Madonna della Misericordia, vegliava sulla medievale Porta Aurea (XII secolo), detta anche “Porta di Piccapietra“, sita nell’omonima zona del quartiere di Pammatone, demolito nel 1959 nell’ambito della nuova scellerata urbanizzazione.
Quando il barone Andrea Podestà sindaco di Genova non aveva ancora nemmeno immaginato la futura Via XX settembre da lui nel 1892, contro tutto e tutti, fortemente voluta.
Quando la strada che partiva da Porta Pila si chiamava Via della Consolazione dal nome dell’attigua omonima chiesa.
Quando il tratto successivo che iniziava dal ponte monumentale e terminava a piazza San Domenico (odierna De Ferrari) si chiamava ancora Via Giulia.
In Piazza Matteotti sul pilastro di sinistra di accesso al Palazzo Ducale una targa ricorda il tragico gesto di protesta di Costantino Georgakis.
Costui fu un giovane studente greco di geologia che, in opposizione al regime golpista dei colonnelli del suo paese, si cosparse di benzina e diede fuoco.
Costantino morì suicida in risposta estrema oltre che alle minacce e ai ricatti subiti dalla sua famiglia rimasta in Grecia, anche alle persecuzioni delle spie che lo pedinavano continuamente minandone la libertà.
Mentre ardeva, rifiutando i soccorsi, urlava: “Abbasso i tiranni, abbasso i colonnelli fascisti”.
Spirò dopo nove ore di atroce agonia e le sue ultime parole furono: “Viva la Grecia libera!”.
Recita la lapide in ricordo del tragico gesto:
“Al giovane Greco COSTANTINO GEORGAKIS / che à sacrificato i suoi 22 anni / per la Libertà e la Democrazia del suo Paese / Tutti gli uomini Liberi / Rabbrividiscono Davanti al suo Eroico Gesto / La Grecia Libera lo Ricorderà PER SEMPRE / 19 Settembre 1970.
In zona Banchi, in via al Ponte Reale 16r. è affissa una lapide e un medaglione con il ritratto in rilievo del patriota cattolico irlandese Daniel O’Connell morto a Genova nel 1847.
Recita l’epigrafe in sua memoria:
“Danieli Oconnello / vindici. Illi /Ivrivm. Civilivm. Atque. Sacrorvm / Hiberniae. Svae / Qvi. Qvvm. Romam. Iter. Haberet / His. In. Aedibus. Cessi. e. Vita / Idibvs. Maiis. An. M.DCCC.XLVII / Monvmentvm. Pecvnia. Collatit . Factvm / Anno. ab. Ortv. Eivs. C. / M.DCCC.LXXV.
Il bordo dell’ovale reca la firma dello scultore Federico Fabiano.
Sotto la lapide il piccolo medaglione in bronzo ornato di fogliami con inciso il testo:
“A Daniele O’Connell / che in nome di Dio / strenuamente propugnò / la verace Libertà/ Religiosa e Civile / della Sua Patria / nel 50 Anniversario / della Sua Morte / i Cattolici Genovesi / o.d.c.
Il golfo è come sempre solcato dalle navi, i monti attorno sono brulli e disabitati, la Lanterna è al suo posto ma nel 1810 Genova faceva parte a tutti gli effetti dell’Impero napoleonico che durò fino al 1814.
In quell’anno Napoleone soppresse tutti gli ordini monastici e le congregazioni religiose nel dipartimento di Genova, degli Appennini, di Montenotte e delle Alpi Marittime.
Nel frattempo in piazza dell’Acquaverde, in ossequio al nuovo regime, venne innalzata un’imponente statua dell’imperatore corso.
Sul promontorio di San Benigno Bonaparte aveva appena fatto erigere un palo del rudimentale telegrafo, strumento che utilizzava per essere informato in anticipo rispetto ai suoi nemici.
Leggenda narra che Napoleone appena giunto a Genova avesse chiesto ai genovesi se i francesi rubassero?
Arguta e spiritosa fu la risposta: “Non tutti i francesi sono ladri, ma Bonaparte sì”.
Ambroise Louis Garneray vista di parte Genova, 1810.
Dietro all’altare della chiesa di San Pancrazio recentemente restaurato, si scorge il pezzo forte della chiesa, il cinquecentesco trittico di scuola fiamminga attribuito ad Adrien Isenbrandt.
A dichiararlo è l’autore stesso quando sull’anta sinistra raffigura San Pietro con in mano le chiavi del Regno Celeste ed il celebre libro scritto dal vescovo di Genova.
Al tempo delle persecuzioni cristiane del III sec d. C ordinate dall’imperatore Diocleziano, quando venne martirizzato, Pancrazio era poco più di un bambino di quattordici anni.
Al centro della pala il santo è raffigurato, a sottolineare le sue nobili origini, con un falcone.
Diocleziano è prostrato ai suoi piedi, in mezzo Cristo sovrastato dallo Spirito Santo e dal Padre Eterno, con a destra San Giovanni Evangelista con una coppa in mano da cui spunta un mostriciattolo che fugge.
Sullo sfondo la città di Roma dove avvenne il martirio della quale si riconoscono alcuni monumenti. Nell’anta destra San Paolo con la spada – tratto caratteristico -della sua iconografia a conclusione di un’opera veramente straordinaria.
Particolare è la rappresentazione di San Giovanni con in mano il calice e il draghetto.
Narra infatti il vescovo di Genova nel suo scritto che il sacerdote del tempio di Diana ad Efeso avesse dato da bere una coppa avvelenata al santo per metterlo alla prova visto che due condannati, avendone precedentemente bevuto, erano già morti.
Non solo Giovanni non morì ma resuscitò i due uomini.
Il simpatico draghetto dentro al calice simboleggia dunque, oltre al veleno, Satana e il male.
In copertina: Adriaen Isenbrant (Bruges, Belgio attivo 1510 – 1551). Olio su tavola di rovere, parte centrale 252 x 160 cm, 1520 circa. Chiesa di San Pancrazio, Genova.