Vico Boccadoro

Subito a sinistra di Porta Soprana si imbocca via Ravecca, la direttrice che collega il piano di S. Andrea con Sarzano.

Qui ogni traversa laterale su ambo i lati costituisce spunto per una storiella, un aneddoto, una curiosità.

È il caso ad esempio di Vico Boccadoro il caruggio che raccorda Ravecca con Vico del Fico.

Misteri della toponomastica il vico fino al 1868 si chiamava allo stesso modo del parallelo vico del Dragone.

L’intitolazione Boccadoro fu adottata in relazione al nome dell’omonima famiglia, estinta ad inizio secolo scorso, a cui lo storico Federico Donaver attribuì delle dimore in zona.

Molto più prosaicamente altri sostengono che l’origine del toponimo rimandi alle arti delle signorine che esercitavano la professione più antica del mondo in una qualche casa chiusa del caruggio.

“Narciso si chinò lentamente verso di lui e fece quello che in tanti anni della loro amicizia non aveva mai fatto, sfiorò con le sue labbra i capelli e la fronte di Boccadoro. Questi si accorse di ciò che accadeva, prima con stupore, poi con commozione “Boccadoro”, gli sussurrò all’orecchio, “perdonami di non averlo saputo dire prima”.

Cit . Da “Narciso e Boccadoro” (1930). Hermann Hesse (1877-1962). Poeta Premio Nobel svizzero/tedesco.

In Copertina: Vico Boccadoro. Foto di Stefano Eloggi.

Piazzetta dei Fregoso

Alle spalle di via del Campo, in quello che un tempo è stato il cuore del secentesco ghetto ebraico, si trovano vico e piazzetta dei Fregoso.

La zona, abbastanza abbandonata e degradata, è ricca di testimonianze del passato: edicole votive, portalini in pietra, archetti e vecchi portoni, sono visibili un pò dappertutto.

Il toponimo del sito trae origine dal nome della nobile famiglia polceverasca.

Costoro, chiamati anche Campofregoso, provenienti da Piacenza agli albori del 200 infatti si stabilirono nella valle lungo il torrente Polcevera (“il fiume che porta le trote”) da loro indicata come “Fregosia”.

Fu un casato molto potente che si suddivise in diversi rami e che diede origine ad un plurisecolare strategico dualismo, legato alle alleanze con Francia e Spagna, con gli Adorno.

I Fregoso raggiunsero il loro apogeo infatti con Domenico Campofregoso che nel 1378 si auto proclamò Doge dopo aver destituito dalla carica il rivale Gabriele Adorno.

Non pago il pugnace Tommaso tolse ai Fieschi il feudo di Roccatagliata e assicurò l’isola di Malta ai Genovesi.

Il fratello Piero non fu da meno poiché anch’egli, nominato poi Doge nel 1393, riprese Cipro agli infedeli restituendola, in cambio della signoria su Famagosta, al legittimo re.

Anche Giacomo, Tommaso, Spinetta, Giano, Ludovico, Pietro, Battista nei decenni successivi ottennero il dogato.

Paolo a metà ‘400 e Federico un secolo dopo furono cardinali e influenti arcivescovi di Genova.

“Il Doge Ottaviano Fregoso,  rappresentato da Lazzaro Tavarone a poppa di una scialuppa insieme al nocchiero Emanuele Cavallo seduto ai suoi piedi e a tre vogatori, prende possesso della Briglia”.

L’esponente più famoso fu senza dubbio Ottaviano che fu Doge dal 1513 al 1515 e poi, per conto della Francia di Francesco I, governatore fino al 1522 quando la città passò, con il famoso Sacco, in mano spagnola. Morì in carcere ad Ischia, probabilmente avvelenato.

A lui si devono i lavori di ampliamento portuali, la costruzione del campanile di San Lorenzo e l’abbattimento della fortezza della Briglia presso la Lanterna.

Fu una figura di grande rilievo nel suo tempo al punto che Baldassarre Castiglione nl suo “Il Cortigiano” lo celebra come modello illuminato per i governanti dell’epoca e persino il Guiccciardini nella sua “Storia d’Italia” ne tesse le lodi:

principe certamente di eccellentissima virtù, e per la giustizia sua e per altre parti notabili, amato tanto in quella Città, quanto può essere amato un principe nelle terre piene di fazioni, e nella quale non era del tutto spenta nella mente degli uomini, la memoria dell’antica libertà”

Caduti in disgrazia ai Fregoso fu impedito di formare un loro proprio albergo autonomo e nel 1528 furono ascritti in quello dei De Fornaro.

Continuarono a far fruttare il loro valore in armi in qualità di capitani e ammiragli prestando servizio per i veneziani, Papa Giulio II e Francia.

Per questo un ramo dei Fregoso fu fregiato della contea di Verona, un ramo si trasferì a Parigi mentre a Genova si estinsero già nel XIX secolo.

In Copertina: Scorcio di Piazza Fregoso con sullo sfondo via del Campo. Foto di Giovanni Cogorno.

Piazza dei Greci

Nelle immediate adiacenze di piazza delle Vigne si trova la piazzetta dei Greci.

Come l’omonimo vicino vico dei
Greci, il toponimo ricorda lo scomparso Oratorio di S. Maria dei
Greci, che era stato edificato dalla comunità greca ortodossa nella prima metà del ‘500.

L’edificio venne demolito nel 1810 in ottemperanza agli editti napoleonici che prevedevano la soppressione degli ordini religiosi.

L’immagine più famosa della piazzetta risale al 1909 e immortala due operai su lunghe scale intenti ad eseguire interventi di pulizia e restauro sul palazzo dove risaltano le insegne della Farmacia Inglese e della fabbrica di cappelli alla moda parigina di V. Moradei.

Foto di Gigi e Carlo Sciutto del 1909.

Particolare di una finestra con paratie lignee e fregio sul portalino usata come bacheca affissioni

La piazza non è né l’unica, né la più antica testimonianza della colonia greca in città:

infatti già nel ‘300 nel quartiere di S. Marco al Molo era registrata una forte presenza di mercanti greci che qui avevano le loro abitazioni e vi gestivano traffici e merci.

Piazza dei Greci. Lo stesso edificio sede della Farmacia Inglese e della Fabbrica di Cappelli Moradei.

Dal nome della zona a loro destinata si deve anche l’intitolazione della Torre dei Greci, il faro che per circa trecento anni ha coadiuvato la Lanterna nel difficile compito di proteggere il porto e difendere la città.

In Copertina: Piazza dei Greci. Foto di Stefano Eloggi.

Piazza di Pellicceria

Protagonista assoluto della piazza è, con i suoi preziosi tesori, il Palazzo Spinola in Pellicceria, oggi Galleria Nazionale.

Nella zona si trovavano numerosi laboratori e botteghe di pellicciai.

Attività la cui presenza è attestata anche dalla toponomastica dei caruggi limitrofi:
Piazza di Pellicceria, Vico di Pellicceria, Vico Superiore di Pellicceria e Vico del Pelo ribadiscono infatti la vocazione artigiana della contrada.

Le pellicce erano un capo talmente pregiato da essere utilizzato anche come oggetto di risarcimento nelle cause perse o come bene testamentario.

In Copertina: Foto di Bruno Evrinetti.

Focaccette e focaccia di patate

Per me la focaccetta di patate è legata al ricordo dei nonni, polceveraschi doc, di mia moglie.

Circa trent’anni fa infatti quando eravamo ancora fidanzati rammento che alla domenica sera sovente mi fermavo ospite a cena nella loro casa sul rio Ciliegio di Trasta.

Indimenticabile il profumo delle focaccette impastate da nonna Luigina il cui invitante aroma si diffondeva nella stanza durante il pasto.

Perché si nelle casa dei nonni non c’erano “squesgi” o formalità si cenava insieme sullo stesso tavolo della cucina, dove poche ore prima si era impastato sulla madia i taglierini per pranzo, accanto alla stufa.

Ho detto focaccette e non focaccia perché a differenza di quest’ultima le prime erano lievitate e fritte singolarmente.

La focaccia invece era un grande impasto unico cotto nel forno dal quale ricavare le singole porzioni da servire al posto del pane. Soffici le focaccette, morbida e alta la focaccia.

Io preferivo, seppure il gusto fosse simile, quest’ultima versione più leggera perché facilitava la convivialità dello stare insieme e la condivisione.

E così nonno Valle mentre aspettava la sua fetta riempiva i bicchieri, quei gotti spessi da osteria, di croatina quel vino rosso rubino dal gusto sincero dal cui vitigno si ricava anche la più nobile bonarda.

Focaccia di patate. Foto e preparazione dell’autore.

Le focaccette e la focaccia di patate erano accompagnate a formaggi e affettati ma il modo in cui preferivo gustarle era con la mostardella, il salume tipico della zona.

Mostardella così cruda, tagliata come un qualsiasi salame o, più spesso cotta a fette spesse direttamente sulla ciappa della stufa a legna, da sola o in aggiunta alle uova appena colte dal pollaio.

Cibi semplici e rustici della tradizione che come les madeleines della zia di Proust nella sua “À la recherche du temps perdu”, si legano indissolubilmente ai ricordi più profondi ed hanno la capacità di suscitare le emozioni più intime.

Ricetta Focaccette:

  • 500 gr farina Manitoba
  • 200 gr patate
  • 1 cubetto di lievito di birra
  • 150 gr latte tiepido
  • 100 gr acqua tiepida
  • 3 cucchiai di olio evo
  • 2 cucchiaini di zucchero
  • 2 cucchiaini di sale fino
  • Olio per friggere mono seme

Ricetta Focaccia:

  • 300 gr. di farina di grano duro
  • 200 gr. di farina tipo 00
  • 200 gr. di patate
  • 300 ml. di acqua
  • 50 gr. di olio evo
  • 15 gr. di sale
  • 12 gr. di lievito di birra fresco o 3,5 gr. di lievito per preparazioni salate.

Vico Colalanza

Vico Colalanza è un antico caruggio che si trova nel cuore della città vecchia.

Il suggestivo vico deve l’origine del suo toponimo al nome dell’omonima famiglia legata agli Spinola che qui nel Medioevo aveva i propri possedimenti.

Situato tra le Vigne e San Luca a pochi metri della Galleria Nazionale, frequentata dai turisti, di Palazzo Spinola in Pellicceria, il vicolo versa nel totale degrado: spaccio, prostituzione e liti sono purtroppo all’ordine del giorno.

Recentemente infatti è balzato ai nefasti onori della cronaca proprio per via di un barbaro omicidio avvenuto la notte tra l’uno e il due novembre nei pressi dell’archivolto De Franchi all’incrocio con Vico Mele e Vico del Pomino.

Qui un cittadino di origine peruviana reo di aver alzato il tono alto della voce durante una discussione, è stato trafitto – come in pieno Medioevo – da una micidiale freccia di balestra scagliata dal suo assassino.

“Non te l’hanno insegnato
che le frecce dei vigliacchi son sempre spuntate?”
(Omero, Iliade)

Purtroppo l’eccezione conferma la regola si ma il grande cantore greco ha avuto torto.

Mala tempora currunt!

In Copertina: Vico Colalanza. Foto di Stefano Eloggi.

S. Orsola

Il caruggio di S. Orsola è tutto quel che rimane in ricordo di un antico oratorio sito nelle vicinanze intitolato ai santi Gregorio e Orsola.

L’edificio religioso che si trovava in Piazza Leccavela fu demolito nel 1810 in seguito alla soppressione degli ordini religiosi sancita dagli editti napoleonici.

Al suo posto, circa quarant’anni più tardi, vennero installati dei lavatoi pubblici che restarono in uso fino al dopoguerra.

Purtroppo, come uso comune, i muri sono imbrattati dai soliti, più che graffiti artists, ignoranti.

In Copertina: Vico S. Orsola. Foto di Stefano Eloggi.

Il Portale di Santa Zita

Le chiese di Santa Zita, di Borgo Incrociati e di Santa Croce in origine erano il luogo di culto della comunità lucchese a Genova.

Nell’antico quartiere medievale di Borgo Pila fino al 1278 infatti, per volere dei mercanti e tessitori toscani, si trovava il tempio intitolato al Volto Santo, simulacro assai venerato a Lucca.

Dopo tale data la chiesa venne dedicata alla martire loro concittadina Zita e diventò punto di riferimento per gli abitanti della zona del Bisagno.

Nel ‘400 poi l’edificio fu gravemente danneggiato da una piena del fiume e, demolito, successivamente ricostruito.

Alla fine del’800 la chiesa, di dimensioni insufficienti per accogliere i fedeli, venne ancora atterrata.

Così nel 1893, grazie alla donazione di un terreno adiacente da parte della Duchessa di Galliera, in quella che a quel tempo era via Minerva, oggi Corso Buenos Aires, venne riedificata nelle attuali forme neo rinascimentali in stile fiorentino.

Della chiesa quattrocentesca rimangono una statua della Madonna di Città, una tela di Valerio Castello con il Miracolo di santa Zita e il portale della vecchia chiesa.

Quest’ultimo è stato collocato nella parte posteriore della chiesa lato via Santa Zita: sul suo architrave reca tre statue (un Crocifisso con ai lati la Madonna e san Giovanni Battista), provenienti da un altare scomparso; sono tutte e tre opera del maestro Giovanni Antonio Paracca (XVI secolo), noto anche come il Valsoldo.

In Copertina: il Portale originario di Santa Zita. Foto dell’autore.

Vico superiore di Santa Sabina.

La zona di Santa Sabina prende il nome dall’antichissima chiesa dei santi Vittore e Sabina fondata nel VI secolo.

Nella piazza infatti sorgeva l’omonima chiesa sconsacrata nel 1931 e poi demolita nel 1939 per fare spazio ad un cinema.

Al posto di quest’ultimo, anch’esso abbattuto, una moderna quanto orripilante (visto il contesto) costruzione di vetro e cemento sede di una filiale della banca Carige.

In Vico superiore di Santa Sabina rimane una malinconica edicola votiva vuota.

La semplice nicchia in stucco infatti è priva sia della statua della Vergine che del relativo cartiglio.

Il tempietto è incorniciato da volute a riccioli con quattro teste di cherubini alati.

In Copertina: Vico superiore di Santa Sabina. Foto di Alessandra Illiberi Anna Stella.

Vico Albardieri

Vico Alabardieri prende il nome dalla presenza in loco nel Medioevo di un acquartieramento di tale corpo militare.

Nel basso medioevo i labardê erano uomini d’arme al servizio della Repubblica di Genova e il loro quartiere era infatti nel sestiere del Molo, in vico Alabardieri, tra vico Vegetti e via Mascherona.

Gli alabardieri erano dunque soldati così chiamati per via della particolare arma di cui erano dotati.

Costoro infatti si distinguevano per il singolare tipo di lancia a due punte, una dritta e una ricurva, con su un lato un’affilata scure.

A utilizzare l’alabarda per primi furono nel ‘400 i fanti mercenari svizzeri.

Nei secoli successivi l’esercito degli alabardieri divenne il caratteristico corpo delle guardie di palazzo.

Tuttora l’alabarda, oltre che essere impiegata come accessorio delle uniformi da parata o durante le sfilate storiche, è l’arma distintiva delle guardie svizzere del Papa.

Guarda caso fu un papa genovese Giulio II, al secolo Giuliano Della Rovere (Albisola 1443-Roma 1513) ideatore dei Musei Vaticani, ad introdurre per primo gli alabardieri svizzeri nel suo territorio.

Il 22 gennaio 1506 infatti, un gruppo di 150 mercenari elvetici al comando del capitano Kaspar von Silenen, del Canton d’Uri, attraversando porta del Popolo entrò nello Stato Pontificio per servire papa Giulio II.

A Genova ancora nel ‘700 un manipolo costituito da sei, otto alabardieri aveva il compito di scortare il Pretore, nello svolgimento delle sue mansioni durante gli spostamenti in città e di custodia nella sua abitazione.

In Copertina: Vico Alabardieri. Foto di Stefano Eloggi.