Un mondo fatto di abbandono, trascuratezza e disamore purtroppo per la propria città.
Capita così che il portale in marmo bianco del civ. n. 8 sia trasandato.
Le colonne doriche e lo stemma abraso, oltre al degrado e alla sporcizia, subiscono l’onta dei gradini consunti e, soprattutto, dell’antistante sede stradale sconnessa con lastre di pietra addirittura divelte.
In Copertina: Il portone del civ. n. 8 di vico Denegri. Foto di Giovanni Cogorno.
Al civ. n. 17 di vico Denegri si trova una delle più antiche osterie di Genova e d’Italia.
Una volta si chiamava Osteria della Colomba ed era una delle più frequentate della zona portuale.
Qui la notte del 3 febbraio 1834 pernottò Giuseppe Garibaldi in procinto di dichiarare, prevista per il giorno dopo, l’insurrezione popolare.
Smascherato il suo proposito riuscì, sfuggendo alla cattura grazie all’aiuto dell’ostessa Caterina Boscovich, a riparare nella natia Nizza in attesa di tempi migliori.
La taverna, come amano chiamarla i suoi avventori abituali, nel secolo scorso per decenni era nota, dal nome del suo istrionico proprietario, come Osteria Picetti.
Per noi ragazzi in quegli anni ’90 era una tappa d’obbligo per ascoltare musica dal vivo e soprattutto sorseggiare il baxeichito.
Il baxeichito è un cocktail a geniale imitazione del celebre mojito cubano dal quale si differenziava per la sostituzione della menta con il basilico.
– 5 cl Rum bianco – 2.5 cl succo di lime – 2 cucchiaini di zucchero di canna – 5/6 foglie di basilico – acqua gasata (o acqua di Seltz o soda).
Scomparso Gigi il 7 dicembre scorso il compito di portare avanti la tradizione dell’Ostaia de’Banchi spetta ai due nuovi timonieri Stefano e Sergio.
“E desgrazie son de lungo pronte comme e töe de ostaie”. Proverbio Genovese.
In Copertina: interno dell’Ostaia. Foto di Armando Farina.
Per raccontare questo semplice piatto sconfino nello spezzino dove gli sgabei costituiscono, sia nella Val di Magra che nella Lunigiana, una pietanza povera e tradizionale.
Gli sgabei sono delle soffici frittelle di pasta di pane lievitata. Si possono gustare al naturale o farcite e/o accompagnate con formaggi e salumi.
Da non confondersi con i panigacci da cui questi ultimi differiscono per il tipo di cottura in appositi testi, secondo i puristi gli sgabei vanno serviti tagliati a striscioline.
Nati come antipasto vengono proposti anche come aperitivo o reinventati, imbottiti di cioccolata o crema pasticcera, come dolce.
Pasta di pane lievitata 500 gr.
Olio extravergine d’oliva
Foglie di salvia (opzionale)
Sale
Impastate la pasta con l’olio. Formatene dei pezzetti grossi come noci e allargateli con le dita creando delle vere e proprie striscioline. Sopra ognuno di essi andate a porre delle foglie di salvia, premendole un poco. Noi vi proponiamo questa versione che prevede la salvia, ma la tradizione rimanda anche a sgabei frittelle di pasta al naturale. A questo punto rimettete a lievitare per circa un’ora. Friggete in olio caldo e salate, successivamente.
In Copertina: Sgabei. Foto e preparazione di Sara Drovandi.
Perinaldo è un grazioso borgo medievale in provincia di Imperia, famoso per aver dato i natali a Gian Domenico Cassini, illustre scienziato (matematico e astronomo), membro dal 1668 dell’Accademia delle Scienze di Francia e Direttore del primo Osservatorio Scientifico di Parigi.
Perinaldo gli ha intitolato il locale Osservatorio scientifico e Genova, dove ha studiato presso il collegio dei Gesuiti, il più prestigioso liceo scientifico cittadino.
Ma Perinaldo si distingue anche per la coltivazione di un particolare tipo di ortaggio assai apprezzato e rinomato per le sue proprietà e caratteristiche:
un carciofo, tenero, senza spine e dal peculiare colore violetto.
Si prepara in insalata, abbinato a carni o selvaggina, protagonista di frittatine, al forno con parmigiano e funghi o in semplici frittelle con aglio e prezzemolo.
Ma a mio modesto parere il modo in cui le sue qualità vengono valorizzate al meglio è gustato crudo in pinzimonio o in carpaccio.
Si narra che che ad importare questo carciofo sia stato un generale francese dell’esercito napoleonico, secondo alcuni addirittura Napoleone stesso in persona.
Costui durante la campagna d’Italia nel 1796 scoprì, ospite di una nobile famiglia di Perinaldo, che i carciofi “violet” della vicina Provenza erano sconosciuti e decise quindi di donarne alcune piantine agli abitanti del borgo in modo che potessero coltivarlo.
Così complice il clima favorevole il carciofo provenzale ha trovato a Perinaldo il suo ambiente ideale.
Non è un caso quindi che in lingua genovese, dal francese artichaut, il carciofo venga chiamato articiòcca.
In Copertina: il carciofo di Perinaldo. Foto degli Allevatori e Aziende agricole di Perinaldo.
Nel vecchio sestiere del Molo si trova il caruggio di vico Palla sede dell’omonima celebre osteria particolarmente apprezzata per il suo gustoso stoccafisso, nonché tempio della cucina tradizionale.
Un locale storico di cui si ha già notizia a partire dal ‘600 quando fra i suoi avventori -si racconta- ci fosse anche il pittore fiammingo Anton Van Dyck, abituale cliente durante il suo soggiorno genovese fra il 1621 e il 1628.
L’origine del toponimo del vico rimanda al tempo in cui qui si riunivano i giocatori di pallone prima e dopo le competizioni sportive.
Nel catasto del 1798 il caruggio è infatti registrato come Strada della Palla.
Il gioco del pallone praticato derivava dalla tipologia cinquecentesca detta “del bracciale” toscana, a sua volta evoluzione della duecentesca pallacorda.
A fine ‘800 la disciplina del bracciale si divise in due specialità: quella nuova del pallone piccolo o piemontese, diventata in seguito “pallone elastico” poi pallapugno, e quella tradizionale del pallone grosso o toscano che per tre secoli fu il gioco più praticato in tutta la Penisola.
A Genova dalla versione toscana si passò quindi a quella piemontese.
I giocatori indossavano un bracciale di legno (di solito noce) lungo 17 cm. con un’impugnatura all’interno e numerose punte trapezoidali all’esterno leggermente spuntate, per imprimere maggior velocità alla sfera.
Il pallone utilizzato era di pelle di manzo e aveva le dimensioni di circa 12 cm. di diametro e 340 gr. di peso.
Il campo di gioco misurava mediamente 80 metri in lunghezza e 16 metri in larghezza e poteva essere affiancato dal muro di ribattuta, alto intorno ai 16–18 metri.
A Genova il terreno principale si trovava nei pressi dell’Acquasola (più o meno all’altezza dell’odierna Via Santi Giacomo e Filippo), ma si ha notizia anche di combattute partite disputate nella zona di Albaro davanti alla chiesa di Santa Maria del Prato.
Le squadre erano composte da tre giocatori ciascuna (battitore, spalla e terzino) e il campo limitato nella parte opposta a quella del pubblico da un muro.
Al battitore spettava il compito d’iniziare il gioco con la battuta della palla che gli veniva lanciata con perfetto tempismo dal mandarino: quest’ultimo, in passato, veniva spesso reclutato tra i migliori giocatori bocce della città; la sua abilità consisteva infatti, oltreché nella suddetta scelta di tempo, anche nella precisione con la quale doveva lanciare la palla nel supposto punto d’impatto con il bracciale.
L’incontro si svolgeva nel modo seguente: battuta la palla e commesso il primo errore, la squadra che si aggiudicava il primo scambio conquistava i primi 15 punti ai quali si aggiungevano, sempre nel caso di vittoria, altri 15 punti, poi 10 e infine 10. Il punteggio veniva, pertanto, così conteggiato: 15 – 30 – 40 – 50 ma in origine era 15 – 30 – 45 – 60. Aggiudicandosi il cinquantesimo punto la squadra vittoriosa conquistava un gioco.
Il gioco ammetteva, oltreché la risposta a volo, anche quella dopo un solo rimbalzo.
I punti si facevano:
se il pallone oltrepassava di volo il limite del campo avversario ma entro certi limiti segnalati da paletti: in tal caso si realizzava la volata;
se il pallone, sorpassata la metà del campo, non era raccolto dall’avversario;
se l’avversario mandava il pallone fuori dai lati maggiori;
se l’avversario non mandava il pallone oltre la propria metà campo.
Per due giochi consecutivi la battuta spettava alla stessa squadra. Quattro giochi formavano un trampolino. L’intero incontro era costituito da tre trampolini per un totale di dodici giochi. La vittoria spettava alla squadra che totalizzava il maggior numero di giochi nei tre trampolini.
Nel XVIII secolo tale sport era cosi popolare, da essere oggetto di scommesse, causa di frequenti disordini pubblici e inesauribile fonte di risentite lamentele per i disagi arrecati.
Fonte delle notizie storiche sul gioco del Pallone tratte dal vol. n. 6 della Storia di Genova di Aldo Padovano.
Fonte delle regole:
Antonio Scaino, Trattato del giuoco della palla, Venezia, 1555.
Edmondo De Amicis. Gli azzurri e i rossi, Torino, 1897.
In Copertina: Vico Palla. Sullo sfondo le gru del porto e le Mur della Malapaga. Foto di Giovanni Cogorno.
Quest’ultimo caruggio prende il nome dalla presenza in loco nel ‘800 di alcune ditte di Corrieri la cui attività era funzionale ai traffici commerciali della città. Ancor prima nel Medioevo il vicolo era invece noto come il caruggio dei Rumentari.
Qui infatti aveva sede la congregazione di coloro i quali si occupavano della raccolta della spazzatura, rumenta in genovese.
Il termine “rumenta” deriva dall’evoluzione dal latino classico “fragmenta” a quello tardo “ramenta” fino al medievale “rumenta” tuttora in uso nella nostra lingua.
I primi Rumentari furono all’inizio dell’anno Mille dei fratiquestuanti che ritiravano gratuitamente dalle botteghe ferro, segatura, lana, trucioli, stracci, cordame e persino escrementi umani, al fine poi di poterli rivendere.
Successivamente i Padri del Comune, per far fronte all’aumento delle richieste dovute all’incremento della popolazione, iniziarono a reclutare dei Rumentari laici affinché pulissero le strade e ritirassero addirittura la spazzatura a domicilio.
Fu così che per facilitare il lavoro degli addetti agli angoli delle strade vennero apposte delle targhe in marmo contenenti le disposizioni da osservare in materia di pulizia.
Ad esempio nel 1447 il regolamento in vigore recitava:
“Ciascuna persona dimorante in Genova e suburbi, almeno ogni settimana debba et in realtà faccia spazzare e togliere rumenta et varia dinnanzi alla sua casa fino alla metà del vicolo e faccia trasportare la rumenta e i gettiti (le cose gettate dalle finestre) in posto tale che non sia di nocumento al porto, sotto pena di soldi 5 di multa“.
I Genovesi, antesignani della moderna raccolta differenziata, erano si rispettosi delle acque portuali e del pubblico decoro, ma anche, preoccupati dalle multe, attenti alle palanche.
Per questo motivo iniziarono a nascondere la rumenta nelle case disabitate dei dintorni costringendo il Comune nel ‘500, per contrastare questa cattiva abitudine, a farle murare.
In Copertina: Vico dei Corrieri. Foto di Alessandro Dore.
Nel cuore della zona della Maddalena si sviluppa un dedalo di caruggi un tempo brulicanti di attività commerciali.
È questo il caso, ad esempio, di vico dei Droghieri sede una volta delle botteghe di spezie, droghe e coloniali.
Qui infatti non v’era mercanzia che non vi si potesse trovare: dall’aneto, al cinnamono, dal cardamomo al cumino, dalla curcuma alla liquirizia, da tutte le varietà di pepe possibili e immaginabili, allo zafferano, dal caffè al cacao e così si potrebbe continuare l’elenco “ad libitum”.
Tra i prodotti ad uso non alimentare, oltre all’incenso e alle varie essenze profumate, immancabile era l’indaco necessario per colorare i tessuti di jeans.
Un suggestivo tripudio di colori, profumi e aromi degno di un bazar orientale.
Quando mi trovo nella sede delle mie vacanze estive a Deiva Marina (Sp) è d’obbligo una tappa in Lunigiana per gustare i panigacci, un piatto che ben si presta alla convivialità a tavola.
I panigacci infatti sono tipici della Lunigiana e del levante ligure dove prendono il nome di Panigazzi. Sono originari delle località di Podenzana (Ms) in Toscana e di Bolano (Sp), in Liguria.
Sono realizzati con acqua, farina e sale e si preparano mescolando gli ingredienti fino a ottenere una pastella fluida. Tale pastella viene quindi versata nei testi, precedentemente lasciati arroventare su di un fuoco vivace, tipicamente in un falò o in un forno a legna.
Quando sono roventi al calor bianco, vengono estratti dal forno e fatti raffreddare un poco poi viene fatta una pila di testi, in modo tale che stando nel mezzo la pastella si cuocia sui due lati.
I panigazzi così cuociono in pochi minuti a temperature molto alte e non necessitano di lievitazione.
Una volta “smontata” la pila si servono in cestini di vimini accompagnati con salumi e formaggi cremosi.
In Liguria i testi di terracotta e mica (minerale resistente al calore) vengono fabbricati da tempo immemore ad Iscioli, una piccola frazione del comune di Ne. Nonostante la loro produzione sia un’ arte che va lentamente scomparendo, si possono ancora trovare nelle botteghe e nei consorzi agrari dell’entroterra di Chiavari.
Durante la seconda guerra mondiale, quando i tedeschi distrussero un ponte che collegava il comune di Podenzana con il resto della regione, gli abitanti del borgo sopravvissero mangiando panigacci fatti con farina di ghiande e castagne.
Oggi costituiscono la principale pietanza proposta nei menù delle trattorie del territorio.
In Copertina: I Panigacci. Foto tratta dalla Bottega del Panigaccio. Podenzana (Ms).
Il Bagnùn de Ancioe (Bagnùn di Acciughe) è il piatto tipico di Riva Trigoso, borgo marinaro, frazione della, con le sue celebri baie, più nota Sestri Levante.
Si tratta di una zuppa a base di acciughe, pomodoro, gallette del marinaio e olio.
Quelle stesse gallette del marinaio un po’ pane e un po’ biscotto ingrediente insostituibile di un altro capolavoro della cucina ligure, il Cappon Magro.
Il Bagnùn nasce a bordo delle lampare e dei leudi quando già nel ‘800, essendo l’acciuga la regina del pescato, i marinai lo cuocevano sui fornelli a carbone.
Da 1960 al Bagnùn viene dedicata un’apposita sagra estiva il penultimo fine settimana luglio.
In quest’occasione la zuppa offerta gratis, pena interminabili code smaltite con zelo dai volontari, attira migliaia di visitatori.
Il Bagnùn si può comunque gustare, pescato permettendo, tutto l’anno nelle trattorie del borgo e dei paesi limitrofi.
Se passate nel Golfo del Tigullio, merita, non perdetevelo. Un piatto sincero e verace della nostra tradizione.
sale q.b Preparazione Pulire bene e sviscerare le acciughe. Tritare le verdure (escluso il basilico) e soffriggerle in padella nell’olio, fino a ché imbiondiscono. Eliminare l’aglio. Unire i pomodori anch’essi tritati, regolando di sale e cuocendo per una decina di minuti. Aggiungere le acciughe e cuocere, senza mai scuotere il tegame, un’altra decina di minuti, col vino bianco, a fuoco moderato. Impiattare il Bagnùn nelle fondine, sopra le gallette, bagnate prima nel vino bianco e precedentemente strofinate con aglio.
Ricetta dal sito Il Tigullio.
In Copertina: Il Bagnùn. Foto di Ambrogio Razzini.