Per alcuni opera di Giovanni Gagini, per altri di Pace, in Vico Indoratori n. 2 si può ammirare un sovrapporta con una particolare rappresentazione di S. Giorgio e il drago:
In questo bassorilievo infatti, oltre ai due guerrieri che sorreggono gli scudi abrasi posti a lato, sullo sfondo, si notano elementi e personaggi scolpiti con la stessa raffinatezza dell’Adorazione dei Magi (il Presepe di Via Orefici) e del S. Giorgio di Piazza S. Matteo.
Ma la vera particolarità di questa immagine (non posso affermare con certezza che sia l’unica ma, sicuramente, fra le poche) sta nel fatto che il drago non è, come al solito sdraiato, bensì rampante e immortalato nell’atto di sputare fiamme sul santo.
Il sovrapporta di Piazza S. Matteo invece, certamente concepito da Giovanni Gagini, riprende l’iconografia classica e, visto il suo ottimo stato di conservazione e la sua straordinaria bellezza, si commenta da solo.
Manca si il volto del Cavaliere e, anche qui, gli scudi sono abrasi ma, come nel Presepe, spiccano i dettagli come il pastore che suona la cornamusa e il gregge al pascolo.
I simboli hanno la funzione di sintetizzare valori, ideali e sentimenti condivisi.
L’Inno, anzi “Il Canto degli Italiani” meglio noto come “Fratelli d’Italia”, appartiene a questa dimensione.
Composto e musicato nell’ambito dei movimenti risorgimentali, nell’autunno del 1847 da una coppia di giovani patrioti genovesi, Goffredo Mameli testo e Michele Novaro musica.
Fra i tanti canti del tempo, è stato scelto perché, a differenza di altre liriche, meglio interpretava il “comune sentire”, voglioso di libertà e indipendenza dall’oppressore straniero.
Criticato perché troppo aulico nel testo e superficiale nelle note è, dal 1946, inno ufficiale della neonata Repubblica italiana.
Il 10 dicembre 1847 circa 30000 patrioti si riunirono a Genova per celebrarne l’anniversario della cacciata austriaca.
Fratelli d’Italia
L’Italia s’è desta,
Dell’elmo di Scipio
S’è cinta la testa.
Dov’è la Vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Noi siamo da secoli
Calpesti, derisi,
Perché non siam popolo,
Perché siam divisi.
Raccolgaci un’unica
Bandiera, una speme:
Di fonderci insieme
Già l’ora suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Uniamoci, amiamoci,
l’Unione, e l’amore
Rivelano ai Popoli
Le vie del Signore;
Giuriamo far libero
Il suolo natìo:
Uniti per Dio
Chi vincer ci può?
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Dall’Alpi a Sicilia
Dovunque è Legnano,
Ogn’uom di Ferruccio
Ha il core, ha la mano,
I bimbi d’Italia
Si chiaman Balilla,
Il suon d’ogni squilla
I Vespri suonò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
Son giunchi che piegano
Le spade vendute:
Già l’Aquila d’Austria
Le penne ha perdute.
Il sangue d’Italia,
Il sangue Polacco,
Bevé, col cosacco,
Ma il cor le bruciò.
Stringiamci a coorte
Siam pronti alla morte
L’Italia chiamò.
(Evviva l’Italia
Dal sonno s’è desta
Dell’elmo di Scipio
s’è cinta la testa
Dov’è la vittoria?
Le porga la chioma,
Ché schiava di Roma
Iddio la creò).
In quell’occasione, sul sagrato del Santuario di Nostra di Oregina (da cui prende il nome il quartiere, appunto intitolato alla Madonna Regina della città), davanti ad una moltitudine di patrioti provenienti da ogni angolo della penisola, venne per la prima volta eseguito pubblicamente l’Inno.
Michele Novaro morirà sessantasettenne povero e dimenticato da tutti ma non dai suoi allievi che, riconoscenti al Maestro, raccoglieranno la somma necessaria per edificargli un degno monumento funebre nel Cimitero di Staglieno, vicino a quello dell’amico Giuseppe Mazzini.
Goffredo Mameli invece spirerà nel 1849, a soli ventidue anni, difendendo Roma, dove oggi è ancora sepolto, dall’assalto francese e portando alto il Tricolore perché non cadesse in mano nemica…
“Stringiamoci a coorte,
siam pronti alla morte,
siam pronti alla morte,
l’Italia chiamò, Si!”
Nacque a Genova nello stesso giorno di Giuseppe Mazzini (le coincidenze della vita) del quale diverrà amico fraterno.
A soli venti anni si laureò in legge e collaborò in uno studio notarile.
L’ascesa fu rapida e, in breve tempo, divenne vice presidente del tribunale della Prefettura.
Ma Jacopo era un giovane dagli alti ideali e, profondamente insoddisfatto, si iscrisse alla facoltà di medicina, disciplina nella quale, con l’aiuto di Giacomo Mazzini, padre di Giuseppe, conseguì la laurea a 25 anni.
Fu in questo periodo che, insieme al fratello Giovanni, aderì alla Carboneria e iniziò a frequentare l’armatore Raffaele Rubattino e il poeta Gian Carlo Di Negro.
Anima della Giovine Italia si distinse sia nel ruolo di medico al Pammatone che di cospiratore nei salotti cittadini.
Scoperto dalla Polizia Sabauda, grazie a due delatori, il progetto insurrezionale di Genova di cui fu a capo, la notte del 13 maggio 1833, Jacopo venne arrestato e condotto nel carcere della Torre Grimaldina.
Qui, interrogato al fine di rivelare il nome dei suoi compagni d’avventura, subì un mese di violenze d’ogni sorta sulle quali, per decenza e rispetto, non mi dilungo.
La mattina del 19 giugno venne trovato morto suicida con la gola recisa con una lama che si era procurato tramite un carceriere.
Sulla parete della sua cella è ancora oggi leggibile, scritta con il sangue del patriota e impressa nell’eternità, la frase: “Ecco la risposta: lascio la vendetta ai miei fratelli!”
Nella Torre Grimaldina, in onore del Grande Genovese, a riconoscimento del suo estremo sacrificio, è stata posta una lapide che recita: “Consacrò queste carceri il sangue di Jacopo Ruffini
mortovi per la fede italiana -1833”
In Piazza Campetto al Civ 2, oggi sede di un grande magazzino, si trova il Palazzo Casareto De Mari, meglio noto come del Melograno.
Commissionato dalla famiglia Imperiale all’architetto Bartolomeo Bianco nel 1586 è passato nei secoli nelle mani dei Sauli prima, dei De Mari poi e, dei Casareto infine.
Al suo interno possiamo ammirare, fra le tante opere d’arte in esso custodite, un Pregadio di Bernardo Schiaffino e una statua di Ercole di Filippo Parodi, oltre ad affreschi, purtroppo in gran parte andati perduti, di Domenico Piola.
Intorno all’etimo di questa dimora patrizia sono sorte nei secoli diverse leggende:
La prima narra l’episodio secondo il quale un De Mari avrebbe vinto il palazzo al gioco puntando tutti i suoi averi proprio sulla carta del melograno.
La seconda invece, più intrigante, racconta di un seme di melograno trasportato, quattrocento anni fa, da un vento di tramontana e germogliato sul timpano del portale del palazzo.
La pianta ha superato indenne guerre, rivolte e bombardamenti…
e, ancora oggi, fiorisce e gode di ottima salute.
Per noi Genovesi è intoccabile anche perché la sua sopravvivenza è legata ad una profezia che ha vaticinato, con la scomparsa del melograno, la fine della Superba.
Come testimonia il toponimo stesso di S. Maria delle Vigne, la zona, anticamente, era adibita alla coltivazione della vite.
Era usanza diffusa infatti conservarne tralci sulle terrazze come prova del benessere familiare.
Se si eccettua il quartiere del Carmine
l’ultima vite rimasta nel centro storico è quella che si arrampica in Piazza dei Leccavela, vicino ai SS. Cosma e Damiano.
La Piazza prende il nome dalla prestigiosa famiglia di marittimi Genovesi, il cui simbolo araldico raffigurava tre vele triangolari, che in quel tempo qui, avevano le loro dimore.
a chi non poteva muoversi da bordo, il cadraio al riparo sotto la sua tendina, serviva una fumante scodella di minestrone genovese…
quando il Porto brulicava di navi da ogni angolo del mondo e questo antico mestiere non era ancora scomparso…
li zenoexi, e per lo mondo si destexi, che und’eli van o stan, un’atra Zenoa ge fan”.
Trad: “I Genovesi sono così numerosi e sparsi per il mondo che ovunque vadano o risiedano, creano un’altra Genova.”
Cit poeta anonimo genovese del tredicesimo secolo…
Ovunque ci sia terra o uno scoglio in mezzo al mare la Croce di San Giorgio vedrai sventolare…
benefattori nostrani… di tre ospedali… anzi quattro… di due palazzi… un museo… tre moli… di duecentododici appartamenti…
Già il marchese Raffaele De Ferrari, Duca di Galliera e Principe di Lucedio si era distinto per aver fondato le case operaie (tre casermoni in Via Venezia e Lagaccio, duocentododici appartamenti in tutto), per aver dato impulso all’Accademia Ligustica di belle arti e, soprattutto, per aver contribuito in maniera determinante (20 milioni di lire, una cifra impronunciabile per l’epoca) alle opere di ammodernamento del porto, resesi necessarie per rimanere competitivi (fra le altre i moli Galliera, Giano e Lucedio). Così la moglie, la Duchessa Maria Brignole Sale, rimasta vedova nel 1876, non volle essere da meno donando alla città la dimora di sua proprietà il celebre Palazzo Rosso e lasciando in eredità anche il Palazzo Bianco, al fine di costituire l’embrione del polo museale di Strada Nuova, oggi Via Garibaldi.
La nobildonna finanziò anche la costruzione dell’ospedale San Raffaele di Coronata, quello di San Filippo (intitolato al terzogenito) presso San Bartolomeo degli Armeni e infine il S. Andrea (in nome del secondogenito scomparso prematuramente) sorto sul preesistente monastero delle Clarisse, presso le Mura di Santa Chiara, a tutti noto come il Galliera.
I lavori iniziati nel 1878 terminarono giusto in tempo, dieci anni dopo, prima della scomparsa della Duchessa.
Gli ospedali di San Filippo e S. Andrea comunemente identificati con il nome generico di Galliera, costituiscono ancora oggi il secondo ricovero cittadino.
Ma le opere della nobildonna non si fermarono qui perché a Meudon, vicino Parigi, istituì un orfanotrofio e un dormitorio per anziani, tuttora perfettamente attivi.
I palazzi parigini della Casata sono tra i più prestigiosi che si possano ammirare: le Palais Galliera ospita il Museo della moda mentre l’Hôtel Matignon è la sede del primo ministro francese.
Per questo Genova ha dedicato a questi due straordinari benefattori ospedali, musei, statue e moli, oltre che dal 1877, la principale Piazza cittadina.
Nel quartiere di Portoria, nella zona di Piccapietra sorgeva, fin dal ‘400, il più antico ospedale cittadino (se si eccettuano quelli collegati alle Crociate) del Medioevo, l’ospedale di Pammatone.
Proprio in uno dei luoghi dove un tempo (Pamathlon significa palestra) si esercitavano i gloriosi Balestrieri della Repubblica (l‘altro era il Vastato presso la Nunziata), il notaio Bartolomeo Bosco acquistò alcuni immobili ed eresse il ricovero, prima quello femminile, poi quello maschile.
In pochi decenni, anche grazie ad altri lasciti, la struttura s’ingrandì fino a diventare il principale ospedale cittadino e ad inglobare, ad inizio ‘500 il Ridotto degli infermi, che poi sarebbe diventato l’ospedale degli Incurabili di Ettore Vernazza, fra i primi esempi in Europa di assistenza a pazienti cronici, dove fra l’altro, prestò la sua opera S. Caterina Fieschi Adorno.
Nel ‘700 l’edificio, grazie al contributo dei marchesi Pallavicini, venne ingrandito (venne demolita anche la confinante abitazione presso l’Olivella di Domenico Colombo, padre dell’ammiraglio) e arricchito del porticato che, tuttora, risulta inglobato nel moderno Palazzo di Giustizia.
Nel luogo esatto, proprio davanti a Pammatone dove avvenne l’episodio del mortaio del 5 dicembre 1746 venne posta, in ricordo della celebre rivolta, la statua del Balilla.
L’ospedale continuò la sua attività fino ad inizio ‘900 quando la struttura di San Martino ne raccolse l’eredità come testimonia la maggior parte delle statue dei suoi benefattori, sparse lungo i viali del nuovo nosocomio.
Dopo essere stata sede della Facoltà di Economia e Commercio Pammatone fu gravemente danneggiato durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Nel quadro della risistemazione della zona di Piccapietra fu definitivamente demolito a cavallo degli anni ’60 e ’70.
In suo ricordo rimangono, all’interno del moderno Palazzo di Giustizia lo scalone di accesso, il colonnato e alcune statue di benefattori.
Fuori Perasso, oggi come allora, è pronto a scagliare il suo sasso… “Che l’inse”.
In Copertina: Dipinto del XVII secolo del pittore fiammingo Cornelis de Wael raffigurante la “festa del Perdono” ambientata negli spazi dell’Ospedale di Pammatone. Genova, Musei di Strada Nuova – Palazzo Bianco
… di un Vescovo pignolo… di sciamadde… insomma di fugassa…
La focaccia viene citata per la prima volta intorno all’anno mille anche se, probabilmente, già da tempo era un alimento diffuso della cucina genovese.
“A pestun cua sa”, così si chiamava il composto farinaceo mischiato con il “sa pesta”, nel corso dei secoli sempre più divenne il cibo dei genovesi, al punto che persino i matrimoni venivano scanditi in chiesa dal crocchiare della focaccia, offerta dagli sposi. Nel ‘500 fu il Vescovo Matteo Rivarola, indispettito dal fatto che distraesse l’attenzione dei fedeli, a proibirla, pena la scomunica.
Nel frattempo Genova prima e il Banco di San Giorgio poi, avevano acquisito il monopolio del sale.
I grandi magazzini del porto franco non bastavano più a contenere l’indispensabile minerale così iniziarono a proliferare le Sciamadde (“fiammate”) dove, appunto, oltre a preparare farinate e torte salate, si poteva cuocere e vendere anche la fugassa (sale sul fuoco).