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Storia di leoni minacciosi e…
Non da meno fu quella con Venezia che perdurò molto più a lungo sia sui mari che nelle sale del potere delle più importanti Corti europee, al fine di assicurarsi il monopolio dei commerci con la Terra santa e soprattutto con l’Oriente.
A ricordarci questa acrimonia la Superba è disseminata di minacciosi e fieri leoni di S. Marco, prezioso bottino di epiche battaglie navali:
Ben tre leoni dal 1262 sono posti sulla facciata, lato Sottoripa, provenienti dal Palazzo del Pantocratore, sede del Doge veneziano a Costantinopoli.
Un altro, datato 1380 proveniente da Pola, è incastonato all’esterno della Parrocchia di S. Marco al Molo, a pochi passi da Porta Siberia.
L’ultimo, anch’esso del 1380, trofeo originario di Trieste, occupata durante la guerra di Chioggia, adorna il prospetto del Palazzo Giustiniani sito nell’omonima Piazza.
Infine, datati 1830, opera dello scultore Carlo Rubatto, una coppia di maestosi leoni protegge l’accesso alla Cattedrale. Hanno l’aspetto docile e remissivo, gli occhi tristi, probabilmente così voluti dall’artista per sottolineare la mai tollerata sottomissione ai Savoia.
Non hanno nulla a che vedere con le vicende inerenti Venezia ma, a me piace immaginare, che siano stati sottomessi e domati dalla Superba….
Il figlio del leone…
discendente di Ercole…
“Per il tuo regno sarei disposto a sacrificare ogni mio soldato… io invece, per ogni mio uomo, sarei pronto a sacrificare me stesso…”
Queste le parole pronunciate da Leonida, re di Sparta in risposta alle minacce di Serse, imperatore di Persia.
Nel 480 a.C., in piene Olimpiadi, duecentomila persiani sono pronti ad invadere la Grecia.
I re ellenici, occupati nei giochi, non danno grande peso alla minaccia.
Solo Leonida, interpellato l’oracolo di Delfi, parte con i suoi trecento opliti e circa altri duemila confederati alla volta delle Termopili (agosto 480 a.C.) dove attende lo sbarco nemico.
Serse, confidando nella propria superiorità numerica, intima al re spartano la resa e di cedere le armi.
Questi, come tramandato da Erodoto, risponde “Vieni a prenderle”… Stermina oltre ventimila uomini, dando prova del coraggio e dell’organizzazione spartana.
Il secondo giorno, sconfigge gli “Immortali” il corpo scelto dell’imperatore.
Serse allora propone al re di arrendersi in cambio del titolo di Satrapo (governatore) di tutta la Grecia.
Ancora una volta Leonida risponde “sono un uomo libero e come tale morirò”.
Il terzo giorno, un pastore del luogo, rivela al re persiano l’esistenza di un altro passaggio, utile all’accerchiamento dei nemici.
Accortosi di ciò, il quarto giorno, Leonida ordina la ritirata dei soldati alleati e rimane con i suoi trecento opliti, la Guardia scelta.
Muore sul campo, protetto fino all’ultimo dai suoi soldati, pronti a morire, come il loro re, da uomini liberi.
Il suo sacrificio permette ai Greci di confederarsi e di sconfiggere a Salamina (settembre 480 a.C.) prima e, definitivamente a Platea (agosto 479 a.C.) poi, il pericolo persiano.
Grazie al coraggio e al sacrificio di Leonida siamo rimasti occidentali!
Cosa c’entra tutto ciò con la nostra storia?
Apparentemente niente… in realtà molto… quanti Leonida sono presenti nel nostro passato; ne cito solo alcuni:
I Liguri tutti che si batterono oltre un secolo contro la sottomissione a Roma, Il Senato di fronte all’aggressione del Re Sole nel 1684, il Balilla, il Carbone e il Popolo intero durante la rivolta del 1746 e la cacciata austriaca, i Fratelli Ruffini della Giovine Italia e l’apostolo Mazzini durante il Risorgimento, la Guardia Civica nei giorni del Sacco del La Marmora, i Partigiani della Seconda Guerra Mondiale…
Storia di rivalità familiari…
Le funzioni che vi si celebravano erano frequentate da tutte le famiglie del quartiere.
Anche da quella dei Sauli, mercanti originari di Sori che, da tempo, vi si erano stabiliti e che avevano fatto fortuna, in particolare, con il commercio del sale.
A causa di un ritardo ad una cerimonia solenne, questi vennero invitati a costruirsi una chiesa, per fare “il comodo loro”.
Bandinello Sauli decise allora, nel 1481, di stanziare un apposito fondo presso il Banco di S. Giorgio per finanziare l’impresa.
I lavori iniziarono però solo molti anni dopo, nel 1522, e gli eredi commissionarono il progetto ad un giovane emergente architetto perugino, Galeazzo Alessi.
Costui prese a modello le imponenti forme del Bramante e di Michelangelo, adottate per S. Pietro, in Roma.
Quando il perugino abbandonò Genova, mantenne la direzione dei lavori, appoggiandosi ad un gruppo di architetti locali, capitanati da Bernardo Cantone.
La cupola venne terminata solo nel 1603 quando l’Alessi era morto già da trent’anni.
I principali lavori si dipanarono nell’arco di oltre un secolo.
Nacque da ciò il modo di dire, per indicare qualcosa di interminabile, “E’ come la fabbrica di Carignano”.
Fra il 1718 e il 1724 Domenico Sauli fece costruire, per facilitare l’affluenza da Sarzano e migliorarne l’impatto scenografico, il monumentale Ponte di Carignano.
Nel ‘800 fu poi Carlo Barabino a completare gli esterni nelle forme attuali.
La Basilica intitolata ai Santi Fabiano, Sebastiano e all’Assunta è tuttora chiesa gentilizia dei Marchesi Negrotto, Cambiaso, Giustiniani.
Al suo interno sono conservate sculture di pregio di Filippo Parodi e di Pierre Puget, oltre ad importanti tele di Domenico Piola, Luca Cambiaso, Guercino e Procaccini.
Ancora oggi, se passate in zona, noterete, per non venire meno al detto, lavori sempre in corso.
In Copertina: uno scorcio della Basilica dell’Assunta vista da via Santa Maria in Via Lata.
Storia di una leggenda… di un affronto…
I nobili Roberto di Fiandra e Goffredo di Buglione si imbarcarono sulla nave genovese “Pomella” diretti in pellegrinaggio a Gerusalemme.
Da qui, secondo la leggenda, la decisione di riportare la Città Santa sotto l’influenza occidentale.
In realtà fu la Chiesa orientale a sollevare il problema musulmano e a sollecitare l’intervento del mondo occidentale.
I due condottieri giurarono vendetta e, sotto il loro comando, si costituì l’esercito che, per due anni, senza successo, avrebbe tentato l’impresa.
Ci vollero però Guglielmo Embriaco e suo fratello Primo, alla testa di due galee genovesi, per compiere in meno di due mesi e con duecento uomini, quello che gli altri non erano riusciti a portare a termine in due anni con diecimila soldati.
Conquistata Gerusalemme dall’Embriaco, suo fratello Primo fu nominato Governatore, Balduino di Fiandra, fratello di Buglione, eletto re.
Per sua disposizione, a perenne ricordo del determinante apporto genovese, venne inciso a lettere d’oro sulla trave superiore del Santo Sepolcro il monito “Praepotens Januensium presidium” (Presidio della potenza genovese).
Statua di Goffredo di Buglione sul posto Royale o Koningsplein (quadrato reale) a Bruxelles, Belgio.
Storia dell’altra lapide…
“Finora l’Africa è stata devastata dalle armi della mia gente,
poi parte dell’Asia e tutta la Spagna.
Conquistai Almeria e Tortosa pure sottomisi,
la prima sette anni, … la seconda cinque anni fa.
Io, Genova, ho terminato ieri questa cinta di Mura
nell’undicesimo centenario e nel quindicesimo anno dopo l’almo parto della Venerabile Vergine.”
Omaggio alla gloriosa conquista di Almeria e Tortosa, allora in mano ai Mori e, dai genovesi consegnata ai Conti di Barcellona… ma questa è un’altra storia…
Storia del matrimonio medievale genovese…
“Se una donna prende marito, lo prende secondo l’uso e la consuetudine di questa terra, cioè secondo l’antifatto e la tercia.”
L’antifatto è un istituto giuridico per cui, a fronte della dote portata dalla moglie, il marito costituisce sui propri beni un fondo a garanzia della stessa e commisurato alla sua entità.
La tercia deriva invece dall’usanza germanica del “morghincap”, un donativo maritale alla sposa, considerato come un compenso per le attività svolte dalla moglie.
Al tempo dei Longobardi questo emolumento ammontava ad un quarto dei beni del marito, poi aumentato ad un terzo, presso i Franchi. Di qui il nome tercia.
La tercia inoltre concedeva alla donna un diritto, per l’epoca, rivoluzionario, per cui il marito non poteva disporre della moglie, senza consenso della stessa.
Nel 1143 i Consoli abolirono questo diritto, scontentando non poco le mogli, che ne ottennero la sostituzione, con un compenso comunque non superiore alle 100 lire genovesi.
Per ovviare a questa novità le Grandi Casate nobiliari stipularono, con appositi atti notarili, dei veri e propri contratti prematrimoniali e matrimoniali.
“… Questa è la città dei re”…
Il vostro paese pareva un soggiorno celeste così son dipinti gli Elisi.
Quale spettacolo dalla parte del mare!
Torri che sembrano minacciare il firmamento, poggi coperti di ulivi e melaranci, case marmoree in su le rupi, e deliziosi recessi in tra gli scogli, ove l’arte vincea la natura, e alla cui vista... i naviganti sospendeano il movimento dei remi, tutti intenti a riguardare.
Ma chi veniva da terra, meravigliando, vedeva uomini e donne regalmente vestiti, e fino tra boschi e montagne delizie incognite nelle corti reali.
All’ingresso della città vostra, pareva mettere piede nel tempio della Felicità e di lei si preferiva ciò che fu detto anticamente di Roma:
questa è la città dei Re.”
Dichiarazione d’amore datata 1352 scritta da Francesco Petrarca ai genovesi per esortarli a riappacificarsi con i veneziani con i quali, ormai da tempo, erano ai ferri corti.
Epistola anteriore di sei anni rispetto alla celebre definizione di Superba (“Vedrai una città regale… Superba…) ma non meno pregna di rispetto e ammirazione.
Storia di coraggio e orgoglio…
“Il Signor maggiore”, cominciò a tradurre l’ufficiale, “vi fa sapere che proponendo questo incontro ha inteso riconoscere in voi dei veri soldati, coraggiosi e leali ma lealtà e coraggio non bastano per sostenere una lotta che è assai dura e col prossimo inverno diverrà ancora più dura… Vi rendete conto?
Scarseggeranno i viveri… mancheranno i medicinali… non potranno rifornirvi di munizioni: troppo impari è la vostra lotta…”
Il maggiore aveva parlato intercalando lunghe pause, con un tono di voce che voleva sembrare paterno, come se fosse preoccupato della nostra situazione; e ora, per riprendere il discorso, attendeva che Attilio dicesse qualcosa ma Attilio non levava lo sguardo severo dall’interprete; si stabilì così un lungo silenzio, finché il maggiore finì per impazientirsi e con un tono più deciso, senza interrompersi riprese:
“L’Alto Comando mi ha incaricato di dirvi che se consegnerete le armi garantirà la vita per voi tutti, ufficiali e soldati: una garanzia scritta, con la firma dell’Alto Comando tedesco, in questo modo potrete rivedere le vostre famiglie, ritornarvene a casa.
Nessuno oserebbe più molestarvi con tale garanzia…”
Ma Attilio, scandendo ogni parola, l’interruppe e rivolgendosi all’ufficiale disse:
“Riferisca che le armi noi le abbiamo tolte a voi altri, fascisti e tedeschi e le abbiamo tolte per servircene: se le rivolete abbiate il coraggio di venirvele a prendere.”
Il maggiore allora rosso in volto, con rabbia si rivolse al traduttore, e quegli subito si accinse a tradurre:
“L’Alto Comando farà arrivare in Trebbia dei Mongoli, un’intera divisione di mongoli proveniente dall’Ossola.
In quelle valli non hanno risparmiato nessuno, neppure le donne, neppure i bambini, sono delle bestie, lo sapevate questo?
E dunque anche qui non risparmieranno nessuno, e la responsabilità di questi orrori….”
Ma Attilio già gli aveva voltato le spalle, e mentre quei due, interdetti, lo guardavano allontanarsi, senza affrettarsi, raggiunse il posto di blocco.
Mi disse poi che a interrompere così bruscamente il colloquio l’aveva spinto soprattutto il fatto che un italiano, senza vergognarsi, si prestasse a tradurre le ignobili minacce del tedesco.
Questo racconto, a mio parere, è di una potenza disarmante, come pochi altri, esprime l’orgoglio di quei ragazzi.
Inoltre, in questo frangente, per la prima volta l’Alto Comando riconosce ai Partigiani lo “status” di esercito regolare.
Circa un anno dopo sarà l’Alto Comando tedesco, nella persona del Generale Meinhold, a firmare, presso Villa Migone quella stessa resa che avrebbe voluto imporre ai genovesi in quella circostanza.
I Mongoli scateneranno si l’inferno e si macchieranno dei crimini promessi ma verranno sconfitti.
Infine quel “… abbiate il coraggio di venirvele a prendere”, volente o nolente rievoca in tutta la sua fierezza il ” Molon labe’” (venite a prenderle), di Leonida ai Persiani presso le Termopili.
“In località Fascia in provincia di Genova al confine tra la Val Trebbia e la Val Borbera si trova il monumento in foto dedicato ad Aldo Gastaldi (Bisagno) e Aurelio Ferrandi (Scrivia) e alle loro rispettive brigate”.
“Oh my God”…
Le sue prime parole osservando la città dal mare furono di stupore “Oh my God!”
Il primo alloggio fu Villa Bagnarello, nota come “la prigione rosa” posta “in una delle località più splendide che si possano immaginare.
Lo stupendo golfo di Genova e del Mediterraneo turchino cupo si stendono vicinissimi…”.
Dopo tre mesi, trasferitosi nella centrale Villa delle Peschiere così annotava l’evento:
“Non c’è in Italia, dicono, e io confermo, un’abitazione più piacevole del Palazzo delle Peschiere… tutta Genova giace laggiù in bella confusione con le numerose chiese, monasteri, conventi che sembrano additare il cielo, glorioso di sole, con gli svelti campanili…
E potrò mai dimenticare le vie dei Palazzi, la Strada Nuova e la Strada Balbi!
O l’aspetto dell’una quando la vidi per la prima volta, sotto il più fulgido e il più intensamente turchino dei cieli estivi, che le sue due file raccostate di dimore immense, riducevano ad una striscia preziosissima di luce, restringendosi gradatamente, e contrastante con l’ombra grave di sotto…
Bottegucce d’ogni specie, come vermi parassiti di una grande carcassa, si stringono addosso al Palazzo del Governo, all’antico Palazzo del Senato e ad ogni altro grande edifizio…
In alcune delle vie più strette le botteghe sono tutte di negozianti dello stesso genere: c’è una Via di Orefici e un Borgo di Librai, ma anche là dove nessuno è mai potuto penetrare in carrozza, ci sono antichi palazzi imponenti, celati da mura tetre e quasi nascosti ai raggi del sole.”
A Genova Dickens completò “La vita di Martin Chuzzlewit”, scrisse i celebri Racconti di Natale e iniziò “Picture from Italy”.
Il racconto “The Chimes” sugli spiritelli delle campane è ispirato dal suono disarmonico e snervante dei campananili genovesi.
Terminato il soggiorno lo scrittore inglese partì a malincuore e promise che sarebbe, prima o poi, ritornato.
Dickens mantenne la parola e tornò altre volte, l’ultima delle quali, nel 1853, ospite a Palazzo Rosso, dove rimase per quasi un altro anno.
Innamorato perso della Superba così annotava:”… e io cominciavo di già a pensare che quando fosse giunto il momento di lì, ad un anno, di chiudere il lungo periodo di vacanze e ritornare in Inghilterra, mi sarei staccato da Genova tutt’altro che allegramente.
Sembra che vi sia sempre qualcosa da scoprirvi.”