Salita delle Battistine

Da Piazza Portello Salita delle Battistine collega con Via Bertani nella zona sovrastante Piazza Corvetto.

La ripida e spettacolare creuza percorsa in discesa sembra catapultare nel centro della città.

Al civ. n. 12 si trova l’ex chiesa e convento di San Giovanni Battista (1744) a cui si deve il nome della strada, oggi sede della scuola primaria Giano Grillo e della secondaria Bertani Ruffini.

Salita delle Battistine ripresa da Via Bertani. Foto di Leti Gagge.

Sulla porta d’ingresso resta traccia delle decorazioni della chiesa in un affresco ottocentesco del pittore lombardo, membro dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, Giacomo Ulisse Borzino.

Al civ. n. 8 la dimora genovese di Nietzsche del cui soggiorno all”interno 6 è sparita la lapide commemorativa sostituita con un’imbarazzante fotocopia nell’androne.

La freccia indica le finestre dell’appartamento di Nietzsche. Foto di Anna Armenise.

Lapide che invece all’interno della scuola Giano Grillo è presente per ricordare che qui nel giugno 1907 il futuro premio Nobel Eugenio Montale conseguì la licenza elementare.

La lapide dedicata a Montale.

Di fronte un tratto delle imponenti mura del ‘500 che fungono da muraglione di contenimento dei giardini di Villetta Di Negro.

La lapide del Marchese (cittadino) Serra.

Sopra una piccola porta murata una targa marmorea, a scanso di equivoci, ne attesta la proprietà e sta ad indicare che lì vi era una deviazione dell’acquedotto richiesta dal C.NO (cittadino così amava qualificarsi in virtù delle nuove idee giacobine il marchese) Serra che proprio nel 1781 aveva acquistato dagli Spinola Palazzo Baldassarre Lomellini in Strada Nuova (oggi Via Garibaldi civico 12).

1781/ C. NO Domenico Serra / N°. 371

In Copertina: Salita delle Battistine vista in direzione Portello. Foto di Leti Gagge.

O Campanon de Päxo

Fin dal Medioevo l’ultimo piano della torre del Palazzo Ducale -O Päxo per i Genovesi- ospitava una cella campanaria.

Diverse campane si sono susseguite nei secoli fino al 1941, quando durante la seconda guerra mondiale, quella presente venne fusa per realizzare dei cannoni.

Ai camalli della Compagnia dei Caravana era riconosciuto il privilegio di far risuonare il Campanon quando si convocavano a Palazzo i nobili per il Gran Consiglio della Repubblica.

La campana più duratura di cui si ha notizia durò quasi 300 anni avendo con il suo suono -si dice- udibile fino a Savona, celebrato la vittoria della Lega Santa sugli Ottomani nella battaglia di Lepanto nel 1571.

Nel 1860 in concomitanza di un altro festeggiamento, quello dell’annessione della Toscana e dell’Emilia (a quel tempo Genova apparteneva ai Savoia), il campanone si ruppe.

Stessa sorte ebbe il sostituto che svolse diligentemente il proprio compito fino al 1925 quando anch’esso venne rimpiazzato:

Calato dalla torre il 3 maggio 1925 per la sua rifusione, il nuovo campanone fu reinstallato il 15 aprile del 1926, con un’imponente cerimonia alla quale partecipò tutta Genova; poi, la domenica del 26 aprile, fece finalmente sentire la sua voce, salutato dal coro festoso di tutte le campane della città“. Testo de A Compagna.

Una voce che inizialmente fu oggetto di numerose lamentele da parte dei genovesi i quali sostenevano avesse un suono sordo e comunque non come quello di una volta.

Costretto così, a rispondere alle critiche, fu il Sig. Boero fonditore, discendente di una dinastia di costruttori di campane che aveva bottega in salita di Mascherona.

L’artigiano, portando ad esempio la campana grossa di San Lorenzo (fusa dal padre) che presentava la stessa distonia e della quale erano ora tutti soddisfatti, spiegava che per ottenere l’armonico effetto sonoro auspicato, il campanone avrebbe dovuto risuonare per un po’ di tempo.

Purtroppo causa la guerra, nell’aprile del 1941 venne demolito e donato alla Patria, perché con il suo bronzo si fondano nuovi cannoni per la nuova vittoria“. Testo de A Compagna.

O Campanon de Paxo. Cartolina celebrativa de “A Compagna” distribuita in occasione dell’evento.

Grazie all’impegno dell’Associazione “A Compagna”, dal cui sito riporto il verbale dell’evento, nel 1980 O Campanon ha ripreso, come nei secoli precedenti, a scandire i principali avvenimenti cittadini.

Molti gli anni di silenzio assoluto sulla torre, fin quando – in occasione del Parlamento del 1979 – ai soci viene comunicato che «semmo in graddo de fâ tornâ in sciä Töre de Päxo o Campanon: unna grande azienda zeneize a l’à zà offerto unna grande quantitae de metallo (rammo, bronzo e latton), mentre o Scindico o l’à daeto a sò adexòn». Il 24 aprile 1980, il nuovo campanone ritorna a suonare per tutti i genovesi.

La cerimonia è ricordata in una lapide sottostante la Torre in cui si legge:

Genova celebra oggi
24 aprile 1980
o Campanon de Päxo
ripristinato nell’antica sede
auspice A Compagna
generosamente
partecipi
il Comune e i Cittadini
.”

La lapide sottostante la Torre. Foto di Leti Gagge.

Era la mattina del 26 aprile 1980 ed era stata appena scoperta in Via Tomaso Reggio la lapide commemorativa; l’allora sede de A COMPAGNA, la Loggia degli Abati del Popolo, rigurgitava di invitati, di autorità, di soci: a un certo momento il console Augusto Cavassa si è rivolto al Sindaco di Genova, Fulvio Cerofolini, dicendogli in genovese: «Scio Scindico, oua ch’emmo faeto trenta, scia dovieiva fa trent’un e completâ l’opera, faxendo issâ a bandëa de Zena in scia Töre». I presenti hanno assentito caldeggiando la proposta e il Sindaco, dopo essersi guardato intorno, quasi a voler chiedere conferma della sincerità e della profondità del nostro desiderio, ha detto semplicemente che sì, che la nostra richiesta era giusta e che avrebbe subito dato disposizioni affinché la bandiera fosse issata sulla Torre di Palazzo Ducale (la Grimaldina). E così, dai primi giorni del mese di maggio di quel lontano 1980, tutti i genovesi possono vedere garrire al vento il vessillo rosso-crociato della Repubblica di San Giorgio“.

Il «Campanon de Päxo», voluto dai Soci, che hanno partecipato con una generosa sottoscrizione, è stato fuso ad Avegno dalla Ditta Enrico Picasso e reca sul bordo il verso di speranza di Edoardo Firpo: «Pe questa taera antica sempre ritorna un mäveggioso giorno».

I testi in corsivo sono estrapolati dal sito Ufficiale de “A Compagna”: www.acompagna.org.

In Copertina: La bandiera di San Giorgio sventola sulla torre Grimaldina di Palazzo Ducale. Foto di Leti Gagge.


Salita di San Gerolamo

Ubicata nel quartiere di Castelletto Salita di San Gerolamo consta di due tratti: il primo quello inferiore che parte da Piazza Portello e sfocia in Piazza Villa, il secondo quello superiore che da quest’ultima attraversa le alture fino alla confluenza fra Salita Accinelli e Salita Emanuele Cavallo.

Qui esisteva la chiesa fondata nel 1405 intitolata al santo a cui è intestata la via.

Salita San Gerolamo. Foto di Leti Gagge.

Nella parte inferiore caratterizzata dalla classica mattonata tipica delle creuze genovesi si può ammirare il ponte canale dell’acquedotto medievale che si dirigeva verso il Castelletto.

Brani originali del Castelletto inglobati nei palazzi.

Nella parte superiore, molto più cementificata (a parte il pezzo finale), sono invece degne di nota un medaglione di Madonna col Bambino e un’antica lastra in pietra nera con un rilievo del trigramna di Cristo.

In Copertina: Salita inferiore di San Gerolamo. Foto di Leti Gagge.

Salita Coccagna

Nel cuore di Ravecca si trova la salita della Coccagna.

Sull’origine del toponimo sono state formulate diverse ipotesi:

secondo alcuni deriverebbe dal nome dell’omonima famiglia che aveva possedimenti in zona; secondo altri dalla tradizione di innalzare alberi della cuccagna durante le feste popolari.

Molto più probabilmente invece la genesi del caruggio sarebbe riconducibile alla voce dialettale cocagna che indica la sommità di un colle.

In effetti Salita della Coccagna rappresenta proprio il punto più in alto del tratto di mura del Barbarossa, detto delle murette, che degrada fino a via Ravasco.

Meritevoli di citazione nel vicolo sono un pregevole Medaglione con Madonna col Bambino, all’angolo con Passo delle Murette una settecentesca edicola sempre di Madonna con Bambino in sconcertante abbandono e, poco più avanti, resti di truogoli in pietra addossati al camminamento di ronda delle mura.

In Copertina: Salita della Coccagna. Foto di Stefano Eloggi.

The Sailors’ Rest

All’inizio di via Buozzi direzione ponente (un tempo via Milano), lasciato sulla sinistra il Palazzo del Principe, si trova l’elegante palazzina di tre piani denominata confidenzialnente dai genovesi “La casa del marinaio”.

In realtà la corretta traduzione del nome SAILORS’ REST” inciso nel fregio marmoreo delle facciate laterali è “Il riposo dei marinai”.
L’edificio fu costruito nel 1891 dall’architetto scozzese David Barclay Niven (1864-1942) su incarico della British Shipowners Association per la Genoa Harbour Mission ed era destinata all’assistenza religiosa, culturale e pratica agli equipaggi di religione protestante delle navi britanniche, nordiche e scandinave che numerose facevano scalo nel porto di Genova.

Via Milano, oggi Via Buozzi. Il primo edificio sulla sedia è il Sailors’ Rest.

La struttura fu inaugurata nel gennaio dell’anno successivo sotto la supervisione del Reverendo Donald Miller, della chiesa libera di Scozia, con lo scopo di offrire ai naviganti britannici un ritrovo che facesse ricordare la loro madre patria.

Il Reverendo era convinto infatti che i marinai di Sua Maestà frequentando questo angolo di Albione, lontani da bettole, luoghi di perdizione, donne di malaffare e potenziali disdicevoli risse, avrebbero evitato i pericoli delle tentazioni.

L’edificio del Sailor’s Rest lato via Lattanzi. Foto dell’autore.

Il Sailor’s Rest era infatti dotato di camere in cui riposare, sale ricreative dove praticare le attività in stile pub (carte, biliardo, freccette) e bere (con moderazione), e soprattutto, come ricordato sulla scritta del prospetto principale, “SAILOR CHAPEL AND READING ROOM“, una cappella e una sala di lettura.

Oggi la palazzina, recentemente restaurata, è occupata da una farmacia, da una sezione di un sindacato e uno studio medico.

There once was a ship that put to sea
The name of the ship was the Billy of Tea
The winds blew up, her bow dipped down
O blow, my bully boys, blow (huh)

She had not been two weeks from shore
When down on her a right whale bore
The captain called all hands and swore
He’d take that whale in tow (huh)

Soon may the Wellerman come
To bring us sugar and tea and rum (hey)
One day, when the tonguin’ is done
We’ll take our leave and go

Take our leave and go

Before the boat had hit the water
The whale’s tail came up and caught her
All hands to the side harpooned and fought her
When she dived down below (huh)

She had not been two weeks from shore
When down on her a right whale bore
The captain called all hands and swore
He’d take that whale in tow (huh)

Soon may the Wellerman come
To bring us sugar and tea and rum (hey)
One day, when the tonguin’ is done
We’ll take our leave and go

Take our leave and go

C’era una volta una nave che salpò
Il nome della nave era Billy of Tea
I venti si alzarono, la sua prua si abbassò
“Sta soffiando, ragazzacci miei, sta soffiando” (eh)

Lontana due settimane dalla costa
Le si avvicinò una balena nera
Il capitano chiamò tutto l’equipaggio a lavoro giurando che
Avrebbe preso quella balena (eh)

“Presto arriverà il Wellerman (nave che riforniva di provviste)
Per portarci zucchero, tè e rum (ehi)
Un giorno, quando smetteremo di tagliare strisce di grasso (di balena)
Ci congederemo e torneremo

Prima che la barca toccasse l’acqua
La coda della balena si alzò e la presero
Tutto l’equipaggio l’arpionò, lottando contro di lei
Fino a quando lei si reimmerse (eh)

Lontana due settimane dalla costa
Le si avvicinò una balena nera
Il capitano chiamò tutto l’equipaggio a lavoro giurando che
Avrebbe preso quella balena (eh)

Presto arriverà il Wellerman
Per portarci zucchero, tè e rum (ehi)
Un giorno, quando smetteremo di tagliare strisce di grasso di balena
Ci congederemo e torneremo

Ci congederemo e torneremo e torneremo.

Testo e traduzione del riadattamento del sea shanty canto popolare di mare inglese di metà ‘800 “Soon May the wallerman” che racconta della caccia alle balene in Nuova Zelanda

In Copertina: il Sailor’s Rest. Foto dell’autore.

Le Bagasce dei Poeti

Il 20 settembre 1958 l’entrata in vigore della Legge Merlin che chiude le case di tolleranza, sancisce la fine di un’epoca.

A Genova se ne contavano ben 22 e due strutture, la fondazione di Santa Caterina da Genova e l’Istituto delle figlie dell’Addolorata si attivano per ospitare e confortare le prostitute rimaste senza lavoro.

Prima ancora che per i cantautori genovesi, con le bagasce protagoniste nella poetica di De André o del Cielo in una stanza di Paoli, le prostitute furono fonte di ispirazione per i grandi poeti liguri del Novecento.

Salivano voci e voci canti di fanciulli e di lussuria per i ritorti vichi dentro dell’ombra ardente, al colle, al colle. A l’ombra dei lampioni verdi di bianche colossali prostitute sognavano sogni vaghi nella luce bizzarra al vento. Il mare nel vento mesceva il suo sale che il vento mescolava e levava nell’odor lussurioso dei vichi, e la bianca notte mediterranea scherzava colle forme delle femmine tra i tentativi bizzarri della fiamma di svellersi dal cavo dei lampioni…

Avanti come una mostruosa ferita profondava una via. Ai lati dell’angolo delle porte, bianche cariatidi di un cielo artificiale sognavano il viso appoggiato alla palma. Ella aveva la pura linea imperiale del profilo e del collo vestita di splendore opalino. Con rapido gesto di giovinezza imperiale traeva la veste leggera sulle sue spalle alle mosse e la sua finestra scintillava in attesa finché dolcemente gli scuri si chiedessero su di una duplice ombra”…

“… A te aggrappata d’intorno/ La febbre de la vita / pristina: e per i vichi lubrici di fanali il canto/ Instornellato de le prostitute / E dal fondi il vento del mar senza posa”.

Così scriveva nei suoi Canti Orfici (1914), Dino Campana (1885-1932).

Caruggi e bagasce. Foto di Gigi Tagliapietra.

Emozioni riprese anche da Camillo Sbarbaro (1888-1967) che racconta le sue sensazioni all’uscita di un bordello:

Esco dalla lussuria/ M’incammino/ pei lastrici sonori nella notte./ Non ho rimorso e turbamento. Sono/ Solo tranquillo immensamente./ Pure qualche cosa è cambiato in me, qualcosa fuori di me/ Che la città mi pare/ sia fatta immensamente vasta e vuota,/ una città di pietra che nessuno/ abiti, dove la Necessità/ sola conduca i carri e suoni l’ore…”.

Lirica tratta dalla raccolta Pianissimo del 1914.

Caproni (1912-1990) invece è meno intimista e, in merito alla lussuriosa vocazione genovese, va dritto al punto:

Genova che non mi lascia/ Mia fidanzata bagascia. [..] Genova di mio fratello/ Cattedrale. Bordello./ Genova di violino/ di topo di casino./ […] Genova di Sottoripa/ Emporio. Sesso. Stipa./ Genova di Porta Soprana. /d’angelo e di puttana./ […] Fenova di Raibetta/ Di Gatta Mora. Infetta”.

Versi liberamente tratti da Litania (1956) di G. Caproni.

Sempre Caproni nel 1967 traduce invece i versi di un poeta francese André Frenaud (1943-1982) che nella sua “Il silenzio di Genova” scrive:

“[…] e ancora in giro per gli angusti carrugi, /le prostitute poliglotte le belle poppe/ che sanno la lingua d’ognuno./ tutta la gente che inganna la vita nei quartieri bassi,/ quella che sfida, quella che tace ugualmente ostinata,/ i palazzi con gli alti portoni chiusi, le alberature,/ le gru stagliate, se si sale si vedono,/ e, più in alto, il mare”.

Fonti: Canti Orfici, Dino Campana, Milano 1989; Poesie, Giorgio Caproni, Milano 1976; Poesia e Prosa, Camillo Sbarbaro, Milano 1979.

In Copertina: l’inequivocabile batacchio del portone del civ. n. 5 Palazzo Ivrea noto anche come Squarciafico di Piazza Invrea. Un tempo ospitava un lussuoso bordello, oggi un facoltoso studio notarile.

Che storia il Genoa Cricket and Football Club!

Nel 1893 via Palestro era una signorile strada costruita poco più di una decina di anni prima nel cuore del nuovo centro finanziario cittadino.

La sera di Giovedì 7 settembre il portone del civ. n.10 era aperto per il continuo passaggio di eleganti signori. Una tipica tiepida sera di fine estate, rinfrescata da una leggera brezza marina.

Alla spicciolata arrivarono: Charles De Grave Sells, S. Green, G. Blake, W. Riley, D.G Fawcus, Sandys, E. De Thierry, Johnathan Summerhill, senior e junior, e soprattutto Charles Alfred Payton, console generale di Sua Maestà la Regina a Genova e futuro baronetto dell’impero britannico.

Si accomodarono sfilati mantelli, soprabiti e tube all’interno n. 4, sede del consolato britannico a Genova.

Dall’ora insolita si capiva che non si trattava di una riunione di lavoro, bensì dell’ufficializzazione – nero su bianco – del circolo sportivo che da quasi 2 anni operava nella Superba al fine di svagare i sudditi britannici.

Nasceva così in un ambiente pregno di tabacco avvolto in un’atmosfera satura del fumo delle pipe, tra un bicchiere di scotch e un sorso di Gin, il Genoa Cricket and Athletic Club.

Sopra un semplice quaderno contabile rilegato in tela e cartone una chiara e lineare calligrafia certificava l’accaduto:

The club was formed 7th September 1893. Patron il console di Sua Maestà Britannica Charles Alfred Payton; President: Charles De Grave Sells. Vice president: Johnathan Summerhill senior”.

Seguono lo honorary secretary and treasurer Sandys, e il Committee and Management; poi la list of Members che comprende 30 iscritti tutti anglosassoni. Versano una quota associativa di 10 lire ciascuno.

Pochi giorni dopo spedirono un assegno da 28 sterline a Londra con il quale acquistarono gli attrezzi per il cricket (cricket things).

Tutto ciò è giunto a noi grazie a Gianni Brera, appassionato giornalista di football e tifoso del Genoa. Il prezioso documento, il più antico attestato di una fondazione di una squadra di calcio in Italia, dopo essere stato rinvenuto nella biblioteca dello scrittore, è custodito oggi dalla Fondazione Genoa presso l’omonimo museo nel Porto Antico.

Il campo da gioco del cricket era situato a Bolzaneto e George Dorner Fawcus era il capitano sia del Cricket che dei footballers.

Tutti i membri ricevettero dalla società il rules, (copia del regolamento) e l’autorizzazione a contattare i comandanti delle navi britanniche in porto onde organizzare partite con gli equipaggi.

I primi incontri annotati avvenero proprio nel settembre 1893 contro i marinai del Hydaspes e del Cathay. Vennero fatte cucire delle reti dietro alle porte di cricket (purchase string to make cricket net with) per recuperare la palla cosa che nel football in Italia avverrà solo nel 1904.

Testimonianze tuttora visibili della numerosa comunità britannica e di quegli anni pioneristici in città sono la palazzina del marinaio, il Sailor’s Rest fondato per togliere dalle osterie e dai luoghi di perdizione i marinai inglesi e la neogotica chiesa anglicana nella vicina Piazza Marsala n. 3.

La svolta sarà 3 anni dopo quando al club si iscriverà un medico assunto per curare i marinai inglesi sulle carboniere. Il suo nome è Spensley, James Richardson Spensley.

La prima formazione del Genoa campione d’Italia: Baird, De Galleani, Ghigliotti, Pasteur, Spensley, Ghiglione, Le Pelley, Bertollo, Dapples, Bocciardo, Leaver. Genoa-International di Torino 2-1 . Reti Spensley (G), Bosio (I), Leaver dts.

Il Dottore era un poliedrico personaggio dai molteplici interessi: parlava correntemente tre lingue, conosceva sanscrito e greco antico, studiava le religioni orientali, scriveva per il Daily Mail, seguiva il pugilato, spendeva parte del suo tempo e dei suoi introiti per il sostentamento dei trovatelli.

Nel 1910 avrebbe fondato presso la Basilica delle Vigne la prima sezione scoutistica italiana. Oltre a ciò era anche arbitro, portiere e, all’occorrenza, giocatore di movimento.

Lo scatto più celebre di James Spensley che lo ritrae fra i pali.

Così nel 1897 iniziò ad organizzare il Club di football sul modello di quelli della sua madrepatria. Intensificò l’arruolamento di equipaggi e persino di operai delle Ferriere Bruzzo per giocare più partite possibile.

I primi incontri si disputarono a Sampierdarena, sulla piazza d’armi del Campasso (adiacente odierna via Walter Fillak), sui terreni di proprietà di due industriali scozzesi: John Wilson e Alexander McLaren. Si giocava, all’uso inglese, il sabato e il punto di ritrovo era la locale trattoria Gina.

Nell’assemblea del 10 aprile di quell’anno Spensley riuscì a far passare la sua mozione per l’ingresso nel club di soci italiani. Inizialmente l’allargamento fu stabilito in massimo 50 membri ma visto l’inaspettato successo fu presto reso illimitato.

Il campo del Campasso era ormai insufficiente per le esigenze della squadra e il Genoa si trasferì, lungo le rive del torrente Bisagno, nel nuovo campo di Ponte Carrega all’interno degli spazi utilizzati dalla Società Ginnastica Cristoforo Colombo, come pista velocipedistica.

Ricostruzione del campo di Ponte Carrega presso il Museo del Genoa.

Nel 1907 ancora un trasloco, stavolta presso il campo di S. Gottardo nell’omonima frazione sempre lungo il Bisagno, la cui struttura, destinata poi dal Comune all’impianto di un gasometro, si rivelerà presto di capienza inadeguata per ospitare i numerosi tifosi del Grifone.

Poi, finalmente nel 1911, grazie all’intervento del Marchese Emanuele Piantelli socio del Club, il Genoa avrà la sua casa definitiva nel campo “O Campo do Zena” di via del Piano, nel quartiere di Marassi, dal 1933 intitolato al capitano eroe di guerra Luigi Ferraris.

Curiosa anche l’evoluzione dei colori delle maglie: l’abbigliamento originario era derivato dal gioco del cricket e comprendeva, come testimoniato dalla foto del primo campionato vinto nel 1898, una camicia bianca, i pantaloni al ginocchio neri e calze nere. Già a partire dall’anno successivo, la squadra cambierà maglia, indossandone una a righe verticali bianche e blu. Sarà solo tre anni più tardi che il Genoa adotterà la tradizionale maglia a quarti rossoblù, con il rosso granata a sinistra e il blu scuro a destra. La scelta dei colori fu presa in seguito ad una proposta di tre soci del club, i genovesi Paolo Rossi e Giovanni Bocciardo, e lo svizzero Edoardo Pasteur dopo la morte della Regina Vittoria avvenuta nel 1901.

“Quando il Genoa già praticava il football gli altri si accorgevano di avere i piedi quando gli dolevano”.

Cit. Gianni Brera (1919-1992) scrittore giornalista sportivo.

Fonti: Storia insolita di Genova di A. Padovano Roma 2008.

Società Ginnastica Ligure C Colombo. Quarant’anni di Storia sociale. Genova 1905.

Caro Vecchio Balordo di Gianni Brera e Giovanni Calzia. Genova 2005.

Genoa Amore Mio di Gianni Brera e Franco Tomati. Genova 1992.

genoacfc.it sito ufficiale del Genoa CFC 1893.

In Copertina: l’atto di fondazione del Genoa.

Piazzetta Barisone

Nei pressi di Via delle Grazie si trova piazzetta Barisone sui cui palazzi sono ancora presenti arcate in cornici di pietra, archetti e tracce residue di una loggia del XIII secolo.

L’origine del toponimo rimanda alla schiatta dei Barisone il cui capostipite, secondo alcuni storici, sarebbe appunto un tal Barisone di Arborea un Principe Sardo, che tolse la Sardegna ai Saraceni.

Barisone sostenuto poi dai Genovesi, nel 1164 fu incoronato da Federico I (Barbarossa) a Pavia Re di Sardegna previo il versamento di quattromila marchi anticipati dai genovesi che in quell’occasione avevano anche ottenuto favorevoli clausole commerciali ai danni dei rivali pisani.

In realtà non regnò mai sull’isola perché non riuscì a garantire, complice anche il voltafaccia del Barbarossa a vantaggio dei pisani, né le vantaggiose condizioni promesse, né a restituire l’ingente prestito ai genovesi.

Fu imprigionato a Genova per otto lunghi anni prima che i suoi concittadini riuscissero a saldare l’oneroso debito nel frattempo aggravato da cospicui interessi.

Quando finalmente gli fu permesso di rimpatriare non riuscì più a ristabilire la precedente situazione di potere perché Pisa e Genova avevano trovato nuovi accordi sulla ripartizione dei Giudicati dell’isola.

Altri storici ritengono invece questa solo una suggestiva tesi che non proverebbe la paternità del cognome.

Di Barisone, Barisione, Barigione infatti già in quel secolo nei documenti antichi genovesi se ne trovano parecchi: soprattutto avvocati, notai e uomini di legge che si tramandavano la professione di padre in figlio, ma si distinsero anche in ambito religioso come prelati di spicco.

Anche sul significato etimologico del nome non vi è accordo; secondo alcuni è una derivazione dall’ ebraico Bar=figlio e Sion=Gerusalemme e, dunque di origine ebraica; per altri invece dal sassone Bar=Orso e Son=Figlio e perciò Figlio dell’ Orso, di matrice nordica.

In Copertina: Piazzetta Barisone. Foto di Stefano Eloggi.

Le lettere genovesi di Oscar.

Vagavo nel verde eremo dello Scoglietto/ le arance sui rami pendoli ardevano/ splendenti lampade d’oro, ad umiliare il giorno;/ spauriti uccelli fuggenti in rapido frullar d’ali/ mutavano in neve i petali dei fiori; ai miei piedi/ stendevansi pallidi i narcisi simili a lune d’argento/ e le arcuate onde che striavan la baia color di zaffiro/ ridevano nel sole e la vita sembrava dolcissima./ Fuori squillò il canto di un giovane chierico: / Gesù, il figlio di Maria è stato ucciso, / venite a coprire di fiori il suo Sepolcro. / Dio! Dio! l’incanto di quelle dilette ore pagane / aveva sommerso ogni ricordo dell’amara tua passione, la Croce, la Corona, i Soldati, la Lancia”.

Oscar Wilde (1854-1900).

Sonetto genovese composto nel periodo pasquale dal poeta irlandese durante il suo primo soggiorno in città. Villa dello Scoglietto è chiaramente Villa Di Negro Rosazza e la chiesa da cui sentì “squillare il canto” è la vicina San Vincenzo De Paoli.

In viaggio verso la Grecia fece scalo a Genova alla fine del marzo del 1877 in compagnia dei suoi insegnanti: “Arrivammo dapprima a Genova, che è una bellissima città con palazzi di marmo affacciati sul mare, e poi a Ravenna…”. Nel suo diario Oscar annota anche una visita a Palazzo Rosso dove rimane affascinato dal San Sebastiano di Guido Reni.

Le strade del poeta e di Genova si intrecciano ancora nel 1898 quando morì la moglie Constance che da tempo si era trasferita a Nervi nella speranza di guarire dalla sua inferma salute. Le sue spoglie riposano nel Cimitero Monumentale di Staglieno.

Nel 1899 Oscar è ancora a Genova per visitare la tomba della moglie. Scrive infatti in proposito:

Venni a Genova per visitare la tomba di Constance. Vi è una Croce di marmo molto graziosa sulla quale è avviluppata in bella forma una scura pianta d’edera. Il cimitero è un giardino ai piedi di belle colline che si innalzano verso le montagne che circondano Genova. È stato tragico vedere il suo nome scolpito su una tomba-il suo soprannome – solo Constance Mary, figlia di Horace Lloyd , Q.C. e un verso delle Rivelazioni. Le ho portato alcuni fiori. Ero emotivamente molto colpito – e mi resi conto dell’inutilità di tutti i rimpianti”. Lettera a Robert Ross 1 marzo 1899.

Tomba di Constance Lloyd sulla cui Intestazione il nome di O. Wilde verrà scolpito solo negli anni Venti del ‘900.

Wilde sarà stato pure scosso dalla perdita della moglie ma non perse tempo per consolarsi:

Durante il mio viaggio mi fermai a Genova, dove incontrai un bellissimo giovane attore, un fiorentino, che ho amato selvaggiamente. Ha lo strano mome di Didaco. Aveva l’aspetto di Romeo, senza la tristezza di Romeo: un volto cesellato, per una grande storia d’amore. Abbiamo passato insieme tre giorni…”

Lettera a Reginald Turner 20 marzo 1899.

… e pochi giorni dopo all’amico “intimo” Robert scrive ancora:

Parto domani mattina per Genova – Albergo di Firenze (attuale via Gramsci) – una piccola locanda lungo il porto, piuttosto malfamé, ma economica… la temperatura è molto alta, direi quasi estiva: sono sicuro che il mio soggiorno in Italia sarà delizioso. Perché non vieni a Genova per tre settimane? Non ti vedo mai… A Genova spero di trovare ad attendermi un giovanotto di nome Edoardo Rolla, un marittimo. È biondo, ed è sempre vestito di blu scuro. Gli ho scritto…

Lettera a Robert Ross, 1 aprile 1899.

D’altra parte Oscar Wilde non fece mai segreto della sua infedele bisessualità.

“Il segreto per rimanere giovani sta nell’avere una sregolata passione per il piacere”. Oscar Wilde.

Scambio epistolare tratto da Genova nella storia della Letteratura inglese. Veglione F. Genova 1937.

In Copertina: Oscar Wilde, Constance Lloyd, e il primogenito Cyril.

Le Virtù genovesi del Giambologna.

Nel 1579 il nobile Luca Grimaldi decide di commissionare i lavori per l’edificazione dell’omonima cappella di famiglia del Crocifisso nella chiesa di San Francesco di Castelletto.

Il prescelto a lavorare accanto alla tomba di Simone Boccanegra e al monumento di Margherita di Brabante è un noto artista fiammingo attivo già a Roma ed attualmente occupato nella Firenze medicea.

La Forza.
La Fede.
La Speranza.

Il suo nome è Jean Boulogne (1529-1608), italianizzato Giambologna e presta servizio presso il granducato di Toscana.

Così Luca, illustre membro del Maggior e Minor Consiglio e futuro doge di Genova nel 1605, scrive una lettera al granduca Francesco I in cui, come già aveva fatto la città di Lucca, ne chiede il prestito.

La Temperanza.

Serenissimo Signor,

si bisogneria in questa città dell’industria et della presenza di Gio. Bologna scultore et architetto di Vostra Altezza per qualche pochi giorni, et perché sappiamo per esperienza quanto la sia inclinata a favoritici, non habbiamo voluto manchare di significarglielo, et però la preghiamo a farci gratia di far licenza al detto Gio. che possi venire qua per quindici giorni, non dovendoli essere molto di scomodo poscia che come s’intende ha da venire a Luca (Lucca), et noi sentendone molto obbligo l’aggiorneremo a l’altri, et le bacciamo le mani.

Di Genova xx di Aprile 1579. A’ servigi di VA (Vostra Altezza).

Circa un mese dopo giunse la cortese risposta del duca:

Eccellentissimo,

Giouan Bologna, mio scultore et architetto, ha tra mano alcune cose mie, le quali però doverà aver finito tra pochi giorni, et allora per compiacerne l’Eccellenze Vostre, con il mio solito desiderio di gratificarle, et far loro servitio dovunque io possa, gli concederò il venir da loro, et il servire per quindici giorni, che poi è necessario che torni stando l’opera sua del continuo impiegata in miei lavori et occorrenze:con questo m’offero et raccomando ben di cuore all’EccellenzeVostre e desidero loro ogni prosperità.

Da Firenze allì 26 di Maggio 1579. Per servir VV Eccellenze. El Gran Duca di Toscana”.

La Giustizia.

Come si legge in una seconda lettera Giamnologna arrivò finalmente nella Superba il giugno successivo accompagnato da una richiesta di raccomandazione di tipo legale del duca stesso per un amico dell’artista. Insieme a lui, fra i collaboratori, è presente anche un altro grande scultore che opererà più tardi nel 1584 sempre per conto del Grimaldi, il francese Pierre de Francqueville (1548-1615), italianizzato Pietro Francavilla, realizzando le statue di Giove e Giano a Palazzo Bianco.

Illustrissimi et Eccellentissimi Signori,

Maestro Gio. Bologna se ne viene per servire l’eccellenze Vostre conforme al loro desiderio per quei quindici giorni, et oltre a quello che farebbe per se stesso, tiene anche comandamento da me di servire con ogni attentione, et diligentia maggiore, et mi prometto che le habbino a restar satisfatte, dell’operato e della vita sua. Egli ha seco un Baldassarre Mornile Fiammingo suo compatriota che desidererebbe, in una sua causa costà, giustizia sommaria , et espedita, però lo raccomando strettamente all’Eccellenze Vostre, et voglio saper loro grado molto accetto d’ogni favore, et giusto aiuto, che gli farannom porgere per la sua speditione, et raccomandandomi nella benevolentia loro con molto affetto, le desidero ogni felicità.

Da Fiorenza el di x di giugno 1579. Per servir VV Eccellenze. El Gran Duca di Toscana“.

Il soggiorno genovese del Giambologna evidentemente durò ben oltre i quindici giorni pattuiti visto che lo scultore, preoccupato, chiese al Grimaldi di inviare al granduca una lettera al fine di giustificarne il ritardo:

Serenissimo Signor,

Gio. Bologna scultore di cui li giorni passati V.A ci fece gratia venne et ha sodisfatto benissimo a quello che si desiderava, ma sopravenendo il bisogno dell’industria et giudicio suo sopra certe cappelle che si fabbricano, si è trattenuto un poco più di quello che si credeva; ancora che l’opera ricercarla per qualche tempo di più la sua presenza per certi adornamenti o figure di bronzo che qui bisognano, hora egli se ne ritorna; et però ringratiando V. Altezza del favore, la preghiamo ad havere per scusato il suddetto Gio. del tempo trascorso, et insieme concedergli che possi comandare o dare ordine a quelle figure o adornamenti di bronzo che si hanno a fare per compimento delle cappelle, e con questo fine si raccomandiamo all’Al. V. et le preghiamo felicità.

Di Genova a 27 di luglio 1579

La Carità.

Il motivo del ritardo è dunque lo studio di sei statue (realizzate poi a Firenze) ritenute oggi, a buon diritto, fra i capolavori assoluti della scultura manieristica del tardo ‘500: la Fede, la Speranza, la Carità, la Giustizia, la Forza e la Prudenza che, demolita la chiesa di Castelletto, sono oggi visibili nell’aula magna del palazzo dell’Università di Genova in via Balbi n. 5.

Oltre alle sei sculture delle Virtù cardinali e teologali il Giambologna ha lasciato anche sette bassorilievi in cui sono incise altrettante scene della Passione di Cristo. Anch’essi, visto il poco tempo in cui rimase a Genova, furono eseguiti successivamente a Firenze su committenza stavolta della famiglia Balbi.

Il tanto desiderato Giambologna a Genova non ha deluso le attese.

Foto tratte dal sito Progetto Storia dell’Arte.

In Copertina: Aula Magna del Palazzo dell’Università di Genova, Via Balbi n. 5.

Testi delle epistole tratte da “Giovanni Bologna a Genova”. Neri. A. Genova 1886.