Passando sotto l’ormai millenaria Porta di S. Fede o deiVacca o Sottana che dir si voglia alzando lo sguardo si notano sulle colonne di recupero dei curiosi volatili appollaiati sui capitelli.
Non si tratta di rapaci qualunque bensì di aquile simbolo araldico del casato dei sovrani del Sacro Romano Impero degli Hohenstaufen.
Costoro, a partire da metà del 1100 fino a metà del secolo successivo, prima con Federico Barbarossa poi con suo nipote Federico II, tentarono invano di conquistare la Superba.
A eterno memento le aquile sono poste in segno di sottomissione a reggere la Porta della città.
In cima alla tortuosa salita di Via Luccoli in una nicchia sotto il muro di contenimento di Piazza Fontane Marose ci si imbatte nella secentesca fontanella marmorea.
La fontana parzialmente protetta da una cancellata in ferro è caratterizzata da un mascherone a testa di medusa che riversa l’acqua nel suo catino a forma di conchiglia.
Motivo, quest’ultimo, ripetuto anche nel timpano in alto.
Sembra il classico paesaggio esotico di una cartolina caraibica o di una baia brasiliana ed invece è un tramonto invernale sulla spiaggia di Priaruggia.
“E quando tramonta il sol Una canzone d’amor Da Baja a Salvador Oh Maria, per te canterò…”
Genova è una sirena sdraiata sulla riva, è un Faro che illumina dove il sole non arriva. Genova è l’ardesia dei suoi tetti, è il volo di un gabbiano quando meno te lo aspetti. Genova, protetta dal monte, è il mare sempre all’orizzonte.
“Intanto, più che chiese le direi bui gusci marini (conchiglie che sembrano a volte fossilizzate) ed entrare in una di tali chiese di dure pietre grige annerite dai fumi portuali e industriali (in San Donato, in San Giovanni in Prè, per tacer di tutte le altre, arci famose), sempre mi è parso un poco entrare in una sorta di murice, ingrandimento di quelli, ruvidi d’incrostazioni calcaree e saline, che i ragazzi raccattano sul litorale, e accostano all’orecchi per sentire il rumore del mare.
L’intera Genova, nel suo insieme, è città doppia: bifronte come il Giano che ne sormonta lo stemma o ne vigila le aiuole e i giardini.
… e ancora…
“È un diffuso e impalpabile rumor di mare, quello che senti o ti par di sentire tra le navate nere di secoli e di semi tenebra, ch’è anche, per chi abbia orecchio esercitato ad intenderlo, sommesso brusio di traffici e di lucri: di cantieri in opera lungo i due corni della città, nonché di gravi sirene mercantili, le quali da navi che vengono e vanno, e sempre profonde come bassi d’organo, specie di notte fanno vibrare le invetriate, quando placatosi il concerto delle gru, dei magli e delle perforatrici, odi più chiaro l’ansito della risacca, la cui rotolante ghiaia dà anch’essa il suono e l’idea, nella doppia caligine di quelle chiese, d’un fosforico rotolio di zecchini.
“C’è qualcosa di diverso qui da altri luoghi, cosa sarà mai? Forse “lo spiro salino che straripa dai moli”? Ti viene in mente questo verso perché lo “spiro salino” è sicuramente il maestrale o un vento simile: libeccio, mistral, scirocco, comunque un vento del Mediterraneo, e dunque siamo in un paese del Sud, e nei paesi del Sud, con questi venti, ci sono anche i panni alla finestra, lenzuola che schioccano al vento come bandiere. Venti nostri, panni nostri. […]
Sono partito da Sottoripa, punto cardinale di una città che serba intatto il suo mistero. Che forse la farebbe pensare avara, perché è guardinga, non si concede, non si fida. Ma chi la pensa avara non ha capito la sua generosità: è città medaglia d’oro della Resistenza.