Madonna di Porta Aurea

La Madonna di Porta Aurea, oggi custodita presso il museo di Sant’Agostino, fu realizzata dal celebre scultore Giovanni Antonio Ponsonelli, (Carrara 1654 – Genova 1735).

“La Madonna della Misericordia nella sua originaria collocazione”.

Tale Madonna della Misericordia, vegliava sulla medievale Porta Aurea (XII secolo), detta anche “Porta di Piccapietra“, sita nell’omonima zona del quartiere di Pammatone, demolito nel 1959 nell’ambito della nuova scellerata urbanizzazione.

La Grande Bellezza…

… Quando c’era via Giulia

Quando il barone Andrea Podestà sindaco di Genova non aveva ancora nemmeno immaginato la futura Via XX settembre da lui nel 1892, contro tutto e tutti, fortemente voluta.

Quando la strada che partiva da Porta Pila si chiamava Via della Consolazione dal nome dell’attigua omonima chiesa.

Quando il tratto successivo che iniziava dal ponte monumentale e terminava a piazza San Domenico (odierna De Ferrari) si chiamava ancora Via Giulia.

Costantino moderno martire dei Greci

In Piazza Matteotti sul pilastro di sinistra di accesso al Palazzo Ducale una targa ricorda il tragico gesto di protesta di Costantino Georgakis.

Costui fu un giovane studente greco di geologia che, in opposizione al regime golpista dei colonnelli del suo paese, si cosparse di benzina e diede fuoco.

Costantino morì suicida in risposta estrema oltre che alle minacce e ai ricatti subiti dalla sua famiglia rimasta in Grecia, anche alle persecuzioni delle spie che lo pedinavano continuamente minandone la libertà.

Mentre ardeva, rifiutando i soccorsi, urlava: “Abbasso i tiranni, abbasso i colonnelli fascisti”.

Spirò dopo nove ore di atroce agonia e le sue ultime parole furono: “Viva la Grecia libera!”.

Recita la lapide in ricordo del tragico gesto:

“Al giovane Greco COSTANTINO GEORGAKIS / che à sacrificato i suoi 22 anni / per la Libertà e la Democrazia del suo Paese / Tutti gli uomini Liberi / Rabbrividiscono Davanti al suo Eroico Gesto / La Grecia Libera lo Ricorderà PER SEMPRE / 19 Settembre 1970.

In memoria di Daniel O’Connel

In zona Banchi, in via al Ponte Reale 16r. è affissa una lapide e un medaglione con il ritratto in rilievo del patriota cattolico irlandese Daniel O’Connell morto a Genova nel 1847.

Recita l’epigrafe in sua memoria:

“Danieli Oconnello / vindici. Illi /Ivrivm. Civilivm. Atque. Sacrorvm / Hiberniae. Svae / Qvi. Qvvm. Romam. Iter. Haberet / His. In. Aedibus. Cessi. e. Vita / Idibvs. Maiis. An. M.DCCC.XLVII / Monvmentvm. Pecvnia. Collatit . Factvm / Anno. ab. Ortv. Eivs. C. / M.DCCC.LXXV.

Il bordo dell’ovale reca la firma dello scultore Federico Fabiano.

Sotto la lapide il piccolo medaglione in bronzo ornato di fogliami con inciso il testo:

“A Daniele O’Connell / che in nome di Dio / strenuamente propugnò / la verace Libertà/ Religiosa e Civile / della Sua Patria / nel 50 Anniversario / della Sua Morte / i Cattolici Genovesi / o.d.c.

Veduta al tempo di Napoleone

Il golfo è come sempre solcato dalle navi, i monti attorno sono brulli e disabitati, la Lanterna è al suo posto ma nel 1810 Genova faceva parte a tutti gli effetti dell’Impero napoleonico che durò fino al 1814.

In quell’anno Napoleone soppresse tutti gli ordini monastici e le congregazioni religiose nel dipartimento di Genova, degli Appennini, di Montenotte e delle Alpi Marittime.

L’architetto Andrea Tagliafico fu incaricato di progettare la costruzione, nel luogo dove sorgeva un tempo il convento di San Domenico (odierna piazza De Ferrari) di un nuovo teatro cittadino e riedificò il lazzaretto della Foce.

Nel frattempo in piazza dell’Acquaverde, in ossequio al nuovo regime, venne innalzata un’imponente statua dell’imperatore corso.

Sul promontorio di San Benigno Bonaparte aveva appena fatto erigere un palo del rudimentale telegrafo, strumento che utilizzava per essere informato in anticipo rispetto ai suoi nemici.

Leggenda narra che Napoleone appena giunto a Genova avesse chiesto ai genovesi se i francesi rubassero?

Arguta e spiritosa fu la risposta: “Non tutti i francesi sono ladri, ma Bonaparte sì”.

Ambroise Louis Garneray vista di parte Genova, 1810.

Trittico di San Pancrazio

Dietro all’altare della chiesa di San Pancrazio recentemente restaurato, si scorge il pezzo forte della chiesa, il cinquecentesco trittico di scuola fiamminga attribuito ad Adrien Isenbrandt.

La pregevole pala descrive la vita del santo attraverso il racconto della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine.

A dichiararlo è l’autore stesso quando sull’anta sinistra raffigura San Pietro con in mano le chiavi del Regno Celeste ed il celebre libro scritto dal vescovo di Genova.

Al tempo delle persecuzioni cristiane del III sec d. C ordinate dall’imperatore Diocleziano, quando venne martirizzato, Pancrazio era poco più di un bambino di quattordici anni.

Al centro della pala il santo è raffigurato, a sottolineare le sue nobili origini, con un falcone.

Diocleziano è prostrato ai suoi piedi, in mezzo Cristo sovrastato dallo Spirito Santo e dal Padre Eterno, con a destra San Giovanni Evangelista con una coppa in mano da cui spunta un mostriciattolo che fugge.

Sullo sfondo la città di Roma dove avvenne il martirio della quale si riconoscono alcuni monumenti. Nell’anta destra San Paolo con la spada – tratto caratteristico -della sua iconografia a conclusione di un’opera veramente straordinaria.

“Dettaglio, splendido e inconsueto, dal “Trittico di San Pancrazio” di Adriaen Isenbrant (Bruges, Belgio l 1510 – 1551).


Particolare è la rappresentazione di San Giovanni con in mano il calice e il draghetto.

Narra infatti il vescovo di Genova nel suo scritto che il sacerdote del tempio di Diana ad Efeso avesse dato da bere una coppa avvelenata al santo per metterlo alla prova visto che due condannati, avendone precedentemente bevuto, erano già morti.

Non solo Giovanni non morì ma resuscitò i due uomini.

Il simpatico draghetto dentro al calice simboleggia dunque, oltre al veleno, Satana e il male.

In copertina: Adriaen Isenbrant (Bruges, Belgio attivo 1510 – 1551). Olio su tavola di rovere, parte centrale 252 x 160 cm, 1520 circa. Chiesa di San Pancrazio, Genova.

Portolano

Rarissima e minuziosa immagine di Genova nel 1489.

Dettaglio tratto dal Portolano di Albino de Canepa, cittadino genovese attivo alla fine del XV sec.

Da ‘n pòrto à l’atro o dexidëio o l’inscia
veie stramesuæ, bon vento a-o viægio,
e mi do mondo perso, onde m’inäio
con ciù me perdo, con ciù me gh’attreuvo.

De quello che son fæto m’invexendo:
de tutto quello che vorriæ conosce.
Fæta ‘na Zena, ‘nn’atra a l’é ch’a speta
d’ëse fondâ inti seunni e ‘nte memöie.

Lascia che a lontanansa a ne s’ingheugge
indòsso, comme craccia de sarmaxo,
no gh’é destin, no ghe saià retorno,
solo a mäveggia de chi se descreuve.

Da un porto all’altro il desiderio gonfia / vele smisurate, buon vento per il viaggio, // ed io, perso nel mondo, me ne incanto, / più mi ci perdo e più mi ci ritrovo. // Mi esalto per ciò di cui sono fatto, / che è tutto ciò che vorrei conoscere. / Fatta una Genova, un’altra aspetta / di essere fondata nei sogni e nelle memorie. // Lascia che la lontananza ci si attacchi / addosso, come crosta salmastra, / non c’è meta, non ci sarà ritorno, / solo la meraviglia di scoprirsi.

Il viaggio diviene, nei versi del Prof. Fiorenzo Toso liberamente ispirati dall’anonimato genovese, condizione esistenziale e significa conoscenza.

Quell’essere “per lo mondo sì desteixi” è occasione, come argutamente osservato dallo stesso esimio linguista, “di esperienze feconde e manifestazione di creatività, attraverso il mito fondativo di infinite città, non importa se reali, immaginate o ricordate”.

Il restauro dello stemma

A meglio identificare la Lanterna con la città, nel 1340 venne dipinto alla sommità della torre inferiore lo stemma del Comune di Genova, opera del pittore Evangelista di Milano.

Il maestoso simbolo misura ben 80 metri quadrati, 10 metri d’altezza dello scudo, per una larghezza nei punti massimi di 8 metri.

In passato lo stemma era già stato “rinfrescato” varie volte, l’ultima delle quali nel 1992, in occasione delle Colombiadi.

Per questo motivo il personale della ditta Formento Restauri, incaricata del ripristino, ha effettuato cinque prelievi di pellicola pittorica e di intonaco in cinque punti diversi.

Dalle relative e puntuali analisi è emerso che nel tempo alcune parti sono state “semplificate”, uniformando le due diverse gradazioni di rosso e le due di giallo-oro in un solo rosso e un solo giallo.

Gli operai artisti di Formento non solo sono riusciti a replicare le sfumature della tinteggiatura originale, ma si sono attivati anche per far riaffiorare alcune iscrizioni fino ad oggi diventate illeggibili o quasi.

Il tutto, naturalmente, si è svolto sotto gli attenti controlli della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Genova e le province di Imperia, La Spezia e Savona con i sopralluoghi del dottor Franco Boggero e dell’architetto Francesca Passano.

Formento Restauri ha impegnato, nelle varie fasi, da due a quattro persone simultaneamente “in quota”, tra cui una restauratrice professionista, naturalmente qualificata per questa acrobatica tecnica di lavoro.

L’ottimo risultato è sotto gli occhi di tutti.

21 sett 2019

La cripta più antica

Nella versione attuale il santuario delle Grazie, causa i bombardamenti della seconda guerra mondiale, si presenta in maniera anonima abbellito nell’antistante piazzetta dalla statua del Padre Santo (1963) di Guido Galletti.

Il tempio venne eretto nelle forme originarie nel XI sec. e fu intitolato alla Madonna delle Grazie per volere dei marinai. Costoro infatti, data la vicinanza al mare, lo elessero a loro santuario e meta delle loro suppliche.

Nel ‘500 l’edificio venne quasi completamente ricostruito. Solo il campanile, a bifore, resta orgoglioso testimone della primitiva struttura.

In realtà il sito posto sulla scogliera del Mandraccio è antichissimo. Secondo alcune fonti risalirebbe addirittura al V sec. d. C, dedicato ai santi Nazario e Celso, e sarebbe stato costruito, come la vicina ex cattedrale di S. Maria di Castello, per ordine del re longobardo Ariperto.

“Interni della cripta”. Foto di Anna Rosa Basile.

Negli anni ’50 del secolo scorso durante i lavori di ristrutturazione della sottostante cisterna gli operai fecero un inaspettato ritrovamento.

All’altezza dell’odierna Via Quadrio, al livello di quella che un tempo era la spiaggia, scoprirono una piccola cripta di origine romanica che, secondo le fonti, sarebbe il più antico tempio cristiano cittadino.

Qui secondo la tradizione sarebbero approdati i due santi martiri e vi avrebbero celebrato la prima messa iniziando l’evangelizzazione della nostra regione.

La cripta è visitabile ogni venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18 grazie al prezioso contributo dei volontari di S. Maria di Castello.

In copertina foto della cripta di Anna Rosa Basile.

Le lattughe ripiene

La zuppa di lattughe ripiene (leitughe pinn-e) costituisce un emblematico esempio dell’ingegnosa capacità della cucina ligure di amalgamare con sapiente armonia gusti ed elementi poveri in modo assolutamente gustoso e saporito.

Le foglie imbottite con un ripieno di magro vengono arrotolate con cura a mo’ di involtino, per poi essere lessate nel brodo di carne per una decina di minuti.
Dall’imbottitura – invece – in ossequio ai giorni di magro imposti dal calendario liturgico, la carne viene bandita.

Le lattughe ripiene possono essere cucinate anche in una versione alternativa che prevede la cottura anziché in brodo in un soffritto arricchito di abbondante salsa al pomodoro.

“Versione al pomodoro”. Foto e preparazione di Giuliana e Bruno Bocciardo.

«…Oh leituga, cibbo inscipido, dimme un pò comme ti pèu diventa gustosa e sapida, e ciù bonn-a che i ravieu, se ùnn-a man sapiente e pratica a manipola o to pin, c’ùn bon broddo, un sugo saturo d’elementi sopraffìn? Benché Zena a te rivendiche, ti è d’origine divinn-a, comme a manna ai tempi biblici, comme a torta pasqualinn-a, e o segno coi so discepoli o te deve avei mangiòu, benché i testi e e sacre cronache non ne n’aggian mai parlóu…».

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“Ricetta tratta da La cuciniera genovese, con sottotitolo La Vera Maniera di cucinare alla genovese, di G.B Ratto del 1863”. L’immagine della foto è ovviamente una recente ristampa.


(«…Oh lattuga, cibo insipido, dimmi un po’ come puoi diventare gustosa e sapida e migliorare dei ravioli, se una mano sapiente e pratica manipola il tuo ripieno, con un buon brodo, un sugo saturo d’elementi sopraffini? Benché Genova ti rivendichi, sei d’origine divina, come la manna nei tempi biblici, come la torta Pasqualina, e il Signore coi suoi discepoli deve averti mangiato, benché i testi e le sacre cronache non ce n’abbiano mai parlato… »).
Niccolò Bacigalupo (1837-1904) poeta e drammaturgo genovese.

Inni Civili. Costûmanze zeneixi ne-e grandi solennitae da Gëxa
(Usanze genovesi nelle grandi solennità della Chiesa).

In copertina foto di Giuliano e Bruna Boccardo.