Il Presepe nel bosco incantato

Viganego è un piccolo borgo della Val Lentro che nel territorio di Bargagli risale i monti lungo una strada che si stacca dalla statale 45.

Qui grazie allo straordinario impegno di un gruppo di volontari della locale Confraternita di San Bartolomeo è possibile godere delle meraviglie dello spettacolare presepe allestito nel bosco.

Il suo ideatore fu Mino Tondo che, circa 16 anni fa, con l’aiuto di alcuni amici lo realizzò con strutture in pietra proprio nello spazio verde attiguo all’oratorio di San Bartolomeo e alla chiesa di San Siro.

Tipico casolare con fienile e legnaia.
Sbirciando da una finestra una vecchina è intenta a cucire.
Scene di vita quotidiana.
La Locanda
L’Osteria.

Così lungo il percorso si dipanano le varie scene: pescatori sui colorati gozzi intenti a raccogliere le reti in un placido lago sovrastato sa un ponte ad arco sopra la cascata; sotto un’altra cascata ecco la ruota di un mulino attivarsi per macinare grano, granoturco e castagne; non può poi mancare il frantoio con i contadini che vi portano ceste colme di olive. Le immagini, più di ogni altro commento, parlano da sole,

Il borgo di pescatori sul lago.
Il Frantoio.
Botteghe di artigiani.
I Re Magi attraversano il ponte.
La Natività.

Case, fienili, fontane, stalle, locanda, botteghe e laboratori artigiani, pascoli e paesaggi rocciosi sono magistralmente riprodotti in un naturale connubio tra pietra e legno.

Come nel caso dello scenografico ponte che attraversa le rocce sopra l’acqua che scende da una cascata e conduce i tre Re Magi verso la capanna della Natività, al di là di un pascolo di greggi.
Il presepe è stato aperto al pubblico per la prima volta sedici anni fa, ma oggi l’ideatore e costruttore di questo affascinante e originale scenario non c’è più, scomparso nel 2009. Si chiamava Cosimo, per tutti Mino, Tondo appassionato cultore della storia dei presepi e geniale artefice di tutte le costruzioni in pietra di quello di Viganego.

Accanto alle sue magnifiche casette avrebbe voluto realizzare anche un campanile, ovviamente in pietra, per le antiche campane di San Siro perché la chiesa parrocchiale ricostruita non ha campanile. Mino Tondo purtroppo non ha fatto in tempo a mettere in pratica il suo ultimo sogno, però ha regalato al presepe un altro tocco di magica suggestione con l’affascinante castello merlato a tre torri, curatissimo in ogni dettaglio, compreso l’interno con la grande tavola pronta per il castellano e allietata dai musici.

La sala da pranzo del Castello
Dettaglio della tavola imbandita con i musici.

Le statuine invece, essendo di varia provenienza e di recente fattura, non hanno particolare rilevanza.

Insomma il Presepe di Viganego merita assolutamente una visita!

Testo liberamente interpretato dal testo di Roberto Gazzo della Confraternita di San Bartolomeo di Viganego.

Vico Largo

Vico Largo è uno dei numerosi caruggi che fungono da collegamento tra via Prè e via Gramsci.

Curiosamente per tutto il Medioevo e fino al 1868 i vico Largo in città erano due.

Per non confonderli l’altro che si trovava nella zona delle Grazie fu ribattezzato nell’odierno Vico delle Camelie.

Probabilmente l’origine del toponimo rimanda al fatto che, rispetto agli altri caruggi della contrada, vico Largo è appunto un pò più grande e a quel tempo carrabile.

Qui, oltre ai muri scrostati, sono visibili resti di archetti, una bifora del XV sec e due piccole settecentesche edicole marmoree: di Madonna con il bambino la prima e di Madonna della Misericordia la seconda.

In Copertina: Vico Largo.

Vico di Santa Fede

Nel quartiere di Prè vico di Santa Fede prende il nome dall’omonima chiesa che un tempo, punto di assistenza dei pellegrini in partenza per la Terrasanta, era orientata verso il lato della vicina Piazzetta di Metelino.

Alzando gli occhi si nota ancora il campanile della ex chiesa inglobato nel corpo degli circostanti edifici adibiti ad aule universitarie.

Particolarmente suggestivo è l’angusto passaggio di un varco laterale da non confondersi con la vicina omonima porta di Santa Fede.

In Copertina: Vico di S. Fede. Foto di Stefano Eloggi

Piazza Inferiore del Roso

Da via Prè addentrandosi in quel reticolo di caruggi che collegano con via Balbi si incontrano luoghi sconosciuti ai più.

Causa la nomea non proprio edificante della zona sono pochi infatti quelli che vi si addentrano non privi di un qualche timore.

Sopra la nicchia vuota dell’edicola votiva vuota una lapide certifica la proprietà e l’utilizzo del pozzo.

Eppure si tratta di un dedalo antichissimo ricco di tracce del passato, purtroppo mal conservato, in cui le edicole votive sono scomparse o rovinate.

Pietre di sbrecciati muri tardo medievali con arcate in laterizio spuntano dai prospetto dei palazzi del ‘600.

Il restauro della piazza avvenuto circa una decina di anni fa, se da un lato ha reso più vivibile il luogo, dall’altro non ha saputo tramandarne l’anima.

Al centro della piazza, al posto dello scomparso pozzo, una bella pianta verde infonde tuttavia speranza creando un legame con il passato.

Sia la via che la piazza del Roso infatti devono il nome alla forma latino arcaica per indicare il giunco.

Non tutti gli esperti però concordano con questa spiegazione: secondo alcuni storici invece il toponimo deriverebbe dalla macerazione delle corteccia di quercia ad utilizzo della concia delle pelli, secondo altri dalla denominazione di una località detta del Roso nei pressi di Fontanegli.

In Copertina: Piazza Inferiore del Roso. Foto di Stefano Eloggi.

Vico dell’Argento

Tra Via lomellini a via cairoli si trovavano gli antichi laboratori di oreficeria. Ne sono inequivocabile testimonianza ancora oggi i toponimi di vico dell’Argento e della vicina Salita dell’Oro.

Qui, presso la trattoria Gaia, è possibile gustare i piatti della cucina genovese sotto le volte e i mattoni a vista di un palazzo storico o, se preferite, a cielo aperto nel caruggio stesso.

Orgogliosa sventola la Croce di San Giorgio a ricordarci il nostro glorioso passato.

In Copertina: Vico dell’Argento. Foto di Maurizio Romeo.

Il Canestrello prezioso quanto una moneta

Fra i dolci di pasticceria secca il canestrello nella nostra regione è senza dubbio fra i più apprezzati.

Diverse località se ne contendono la paternità anche se il canestrello più famoso è quello di Torriglia in Val Trebbia dove ogni anno a giugno se ne celebra la festa.

Qui infatti i proprietari del Bar Caffè di Torriglia nel 1820 contribuirono in maniera significativa alla sua moderna commercializzazione. Oggi i canestrelli sono confezionati da tutte le principali pasticcerie sia industriali che artigianali del territorio e si trovano anche, con imbarazzo della scelta, nei supermercati.

Il canestrello o canestrelleto, il cui nome varia a seconda della località dell’Alta Val Trebbia che si attraversa, un tempo era sinonimo di ricchezza, a tal punto da essere immortalato in una moneta.

Nel 1252 infatti ben sette canestrelli, che divennero poi otto nelle successive coniazioni, fungono da decorazione sull’orlo interno del genovino d’oro.

I canestrelli orlano il castrum effigiato al centro della moneta.

Nel XIII secolo confezionare un dolce con la preziosa farina di frumento bianca era davvero un lusso per pochi e per questo il biscotto divenne sinonimo di opulenza.

I canestrelli avevano forma secondo alcuni di margherita, secondo altri – appunto- di canestri e di qui dunque l’origine dell’etimo.

La prima volta in cui si ha notizia del nome canestrello risale ad un documento  del 1576 in cui si racconta di una aggressione ai danni di un mulattiere avvenuta sulla via pubblica della Trebbia. 

Il passante infatti era stato acoltellato e derubato di un “cavagno (cesto) di canestrelli“, il cui valore vista la considerazione che avevano quei biscotti, era stato equiparato ad un sacchetto di monete della Repubblica.

I primi a preparare i canestrelli furono i produttori di ostie che, al fine di incrementare i propri introiti, iniziarono a venderli sui sagrati delle chiese, nei mercati e durante le fiere.

L’associazione canestrello/abbondanza è testimoniata anche dal fatto che, ad inizio ‘800 quando Genova faceva parte del Regno di Sardegna, i membri della Confraternita di San Vincenzo di Torriglia pagavano una tassa d’iscrizione di una mutta (la moneta dei Savoia) ricevendo come resto un canestrello.

Ricetta:

I burrosi e friabili canestrelli liguri si gustano al naturale ma si possono anche spolverare con zucchero a velo oppure glassare con cioccolato bianco o fondente.

Ingredienti

500 gr di farina 00

150 gr di zucchero semolato fine 

300 gr di burro

1 bacca di vaniglia (opzionale)

3 tuorli medi

1 albume per spennellare (opzionale)

 Procedimento:

Mettere la farina a fontana, aggiungere al centro il burro non troppo freddo, i semi di vaniglia, lo zucchero e i tuorli. Impastare fino ad ottenere un panetto compatto, fasciarlo con della pellicola trasparente e riporlo in frigorifero per almeno mezz’ora. Sulla spianatoia, leggermente infarinata, stendere l’impasto allo spessore di circa 1 cm o poco meno. Non va steso troppo sottile perchè i canestrelli originali sono piuttosto spessi. Ritagliare i biscotti e posizionarli su una placca rivestita di carta da forno, lasciarli riposare in frigo nel frattempo che viene fatto preriscaldare il forno, In questo modo si avranno biscotti dalla forma perfetta, se lo si vuole si possono spennellare i biscotti con dell’albume. Infornare a 170C circa, per 15/20 minuti a seconda dello spessore. Sfornare i canestrelli e lasciarli raffreddare qualche minuto prima di trasferirli altrove.

In Copertina: I canestrelli. Foto di Mastercheffa.

Il Presepe di Pentema

Pentema è una frazione di Torriglia (Ge) nota per il suo pesto bianco e soprattutto per il suo celebre presepe.

Il borgo di Péntema che si trova alle falde del monte Antola, è un agglomerato di abitazioni fitte che si allungano sul declivio, dominate dalla grande chiesa, tra muretti a secco e strette viuzze di pietra, sulle quali affacciano i balconi coperti tipici dei paesi dell’entroterra.

In questo suggestivo scenario è stato allestito un presepe contadino che racconta momenti di vita quotidiana dei nostri antenati ricostruiti a grandezza naturale con grande cura e realismo.

Antichi mestieri.

Ed è così che le strade del paese si popolano di personaggi fedelmente riproposti anche nei volti degli abitanti di un tempo; i pastori, il falegname, l’ortolano, il fabbro, il cestaio, il barbiere, il ciabattino, il magnano (ovvero il ferramenta di un volta) diventano protagonisti del loro stesso passato.

Momenti di vita quotidiana e preparazione delle castagne.

I volti delle figure -racconta Don Cazzulo- sono stati infatti scolpiti da un artigiano del paese riprendendo i tratti dei compaesani del passato e, per allestire le 40 scene realizzate nel corso di 27 anni, occorrono due mesi di duro e appassionato lavoro.

A completare la narrazione del tempo che fu è presente un piccolo centro multimediale che, corredato di foto d’epoca e un filmato in DVD, racconta la storia di questa vallata.

Giocatori di carte all’osteria.
Seduti al tavolo da pranzo in cucina.
Il Calzolaio
Materassai.
Lavandaie ai troeuggi.
La scuola.

In Copertina: la Natività. Foto di Antonio Corrado.

Il Pesto di Pentema l’antenato di quello genovese

A Pentema, un paesino nel Comune di Torriglia che sembra -anzi è un presepe-, da alcuni anni è ripresa l’usanza di preparare una salsa bianca, una sorta di pesto arcaico.

Pentema illuminata di sera sembra un presepe.

Si tratta infatti di un composto a base di aglio con aggiunta di pinoli o noci ma senza basilico.

Tale elaborato trae probabilmente origine dall’agliata ovvero un battuto di olio e aglio di cui si ha notizia fin dal Medioevo.

A ciò si aggiunge la conoscenza dei genovesi, maturata grazie ai commerci con arabi, turchi, persiani e terre del Mediterraneo orientale, di noci, mandorle e pinoli.

Nasce così un pesto bianco con cui già nel XIV, nella versione a base di noci, si condivano le lasagne.

L’aggiunta del basilico che caratterizza in maniera inequivocabile il pesto genovese avverrà solo a metà ‘800, messa nero su bianco nel 1863 nella “Cuciniera genovese ossia la vera maniera di cucinare alla genovese” di G.B. e Giovanni Ratto.

Il pesto di Pentema è dunque una salsa bianca a base di aglio che di solito, ma non sempre, contiene pinoli.

L’ottocentesca cucina di Palazzo Spinola. Foto di Anna Armenise.

Nel cremoso condimento il carattere deciso dell’aglio è bilanciato dalla morbidezza della panna e, se presenti, arricchito dalla gradevole nota dei pinoli (io li metto).

Con il pesto di Pentema si condisce la polenta, le patate e la pasta, soprattutto quella ripiena come i ravioli di magro.

Ingredienti. Quattro spicchi d’aglio,  un bicchiere di panna fresca, sei cucchiai di parmigiano grattato (in origine si usavano formaggette locali), 25 grammi di pinoli, sale.

Tritare nel mixer l’aglio (meglio nel mortaio), la panna, gli eventuali pinoli e il sale, infine aggiungere il formaggio grattato.

Buon appetito!

Dicembre 2016

In Copertina: ravioli di magro della Nuova Locanda del Pettirosso di Pentema.

Vico Mallone

Nella zona della Maddalena si trova vico Mallone oggi chiuso, come per altro diversi caruggi per motivi di sicurezza, da un imponente cancello.

Il vico trae origine del casato dei Maloni o Mallone provenienti da Quarto nel 1100. Fra questi nel 1263 un tal Pescetto capitano di galee si distinse nelle guerre contro Pisa.

Costoro nel 1305 confluirono nei Cattaneo Della Volta che diedero alla Repubblica ben cinque dogi: Uberto (1528), Leonardo (1541), Giambattista (1691), Nicolò (1736) e Cesare (1748).

In Copertina: Vico Mallone. Foto dell’autore.

Salita Cavallo e Salita Accinelli… una macabra storia…

Nel quartiere di Castelletto da Corso Firenze dopo Piazza Villa si imboccano le Salite Accinelli e Cavallo.

La prima intitolata al sacerdote Francesco Maria illustre storico e geografo genovese del ‘700.

La seconda dedicata invece ad Emanuele capitano ed eroe, insieme al più celebre Andrea Doria, della leggendaria impresa della Briglia.

Salita Accinelli. Foto tratta dall’Archivio fotografico del Comune di Genova.

Ad inizio ‘500 queste due strade che si chiamavano Monta dell’Agonia (Salita Cavallo) e Monta della Morte (Salita Accinelli) erano le uniche creuze attraverso le quali era possibile giungere alla zona preposta alle impiccagioni del Castellaccio.


I condannati le percorrevano entrambe: da vivi la prima all’andata, e da cadaveri la seconda al ritorno.

In Copertina: Salita Emanuele Cavallo. Foto di Antonio Corrado.