Via di Prè

Fin dal ‘300 il borgo di Prè era un piccolo agglomerato agreste di case e chiesette sparse lungo l’asse viario in direzione ponente.

Prè a quel tempo era collegata con il Montegalletto (dove oggi si staglia il castello D’Albertis) e con il bastione di Pietraminuta (attuale Corso Dogali) da una serie di ripide creuze delimitate da modeste casupole in legno.

Nel 1606 con la realizzazione di Strada Grande del Guastato, ovvero via Balbi, la contrada viene stravolta: i campi espropriati, i sentieri cancellati, molte chiese demolite o traslocare.

Ma è nei primi decenni del 800 con la costruzione della ferrovia che taglia il porto fino allo scalo di Caricamento, il borgo assume più o meno la morfologia odierna. Ovvero una lunga e sottile striscia di caruggi e di case aggrappate le une alle altre, strette fra via Balbi a monte e la ferrovia a mare.

Via Prè perde, in concomitanza con l’apertura di via Carlo Alberto (oggi via Gramsci), la sua funzione di transito verso il ponente ma non la sua vocazione commerciale di strada dell’angiporto per antonomasia.

Curiose sono poi le teorie legate all’origine dell’etimo: secondo alcuni Prè significherebbe “Conträ di Prè” Contrada dei prati.

Per altri sarebbe invece da ricondurre al fatto che fosse la zona dove i capitani di galea si spartivano il bottino, la preda.

Da qui il significato di “Burgus de praedis”.

Altri ancora infine propendono per l’associazione “prae castra” davanti al campo per indicare tutta l’area adiacente il campo militare del Guastato (attuale Annunziata) dove si esercitavano i Balestrieri.

Via Prè. Foto di Bruno Evrinetti

La collina di Castello

La collina di Castello con il sottostante Campo di Giano (Sarzano) sovrasta l’insenutara del Mandraccio e accoglie l’antico oppidum cittadino (V Sec. a. C.) posto a difesa dell’approdo di Genua, poi città murata e sede della “Compagna communis” nel 1099.

Per conformazione e collocazione la zona di Castello appartenne prima ad una grande consorteria, quella degli Embriaci De Castro, poi al vescovo e, infine, a diverse comunità religiose (in particolare i domenicani di S. Maria di Castello) che qui costruirono vasti complessi conventuali sia femminili che maschili.

Il sole al tramonto illumina con la sua luce dorata la grande bellezza della Torre De Castri e dei campanili di San Silvestro, di Santa Maria di Castello e di Santa Maria in Passione.

“Anche la luce sembra morire
Nell’ombra incerta di un divenire
Dove anche l’alba diventa sera
E i volti sembrano teschi di cera”.

Cit. da “Inverno” di Fabrizio De Andre’.

La Grande Bellezza…

Foto di Leti Gagge.

Vico dei Cartai

In Sottoripa accanto al Gran Ristoro, il celebre negozio di panini, si snoda vico dei Cartai, la cui targa è purtroppo imbrattata dai soliti incivili.

Il toponimo trae origine dalla presenza in loco in epoca medievale di numerose botteghe di cartai.

Costoro avevano le loro fabbriche, vedi quelle dell’Acquasanta a Mele, nel ponente del genovesato ed erano talmente rinomati da fornire di fogli, per la redazione dei propri atto ufficiali, il Parlamento inglese.

Al civ. n. 17r è presente (s’intravvede in fondo al caruggio) la settecentesca edicola di Madonna col Bambino celebre perché al suo fianco è murata una palla di cannone sparata dalla Batteria della Lanterna durante il Sacco di Genova del 1849 del generale La Marmora.

La Grande Bellezza…

In Copertina: Vico dei Cartai. Foto di Stefano Eloggi.

Salita della Rondinella

Salita della Rondinella appartiene a quel gruppo di creuze nella conca di Vallechiara che costituivano la zona di Pastorezza (o Pastorizia) dedicata appunto all’allevamento degli ovini.

La contrada era protetta da una porta turrita minore detta di Pastorezza sita e visibile (in parte) ancor oggi in Salita dell’Acquidotto in corrispondenza dell’odierno Largo della Zecca.

“Porta di Pastorezza”. Foto di Leti Gagge.

Da qui il toponimo della Rondinella legato al camminamento di ronda sulle mura che seguiva il tracciato dell’acquedotto nel XVI e XVII sec.

Nel corso dei secoli subì successivi
troncamenti, ultimo dei quali quello dovuto alla costruzione della Strada Nuovissima (Via Cairoli).

Lo storico Giulio Miscosi nella sua raccolta “I Quartieri di Genova Antica” del 1936 formula una suggestiva ipotesi secondo la quale il toponimo Rondinella deriverebbe dai Rodanim, i mercanti di sale del Rodano che da Genova lo portavano a Ginevra.

Di conseguenza il teagitto della Rondinella sarebbe un tratto della Via del Sale!

In Copertina: Salita della Rondinella. Foto di Leti Gagge.

La Fontana della sfortuna

In Via Carcassi proprio sotto il muro del parco dell’Acquasola si trova una grande e dimenticata fontana battezzata nei racconti popolari, come “fontana della sfortuna”. Pare che a chi avesse osato bere da tale sorgente sarebbero piovute addosso disgrazie a non finire.

Tale sciocca superstizione era dovuta al fatto che già nel ‘500 nella zona erano state scavate delle enormi fosse per gettarvi i cadaveri della peste e nel ‘600 sulla sovrastante ampia spianata vi si seppellivano i poveri.

Perciò nonostante la fontana fosse allacciata all’acquedotto cittadino, nessuno se ne serviva.

Foto di Luciano La Verde.

L’Immacolata in Canneto il Curto

All’angolo fra via Canneto il Curto e Vico Oliva è collocata la statuetta della Madonna Immacolata del XVIII sec.

All’interno dell’elegante tabernacolo in stucco la scultura marmorea della Vergine poggia su un letto di nubi e teste di cherubini.

Tale edicola venne realizzata a ricordo della rivolta anti austriaca del 1746 del Balilla.

L’iscrizione alla base recita: MDCCXLVI X. / X Bris / Egressa Es / in Salutem / Popoli Tui / Ex cap. 3 / Habac.

Foto di Franco Risso.

Canneto il Curto

Nel Medioevo il caruggio di Canneto il Curto seguiva un percorso ininterrotto.

Fu a metà del 800, con l’apertura di via San Lorenzo, che venne diviso in due tratti: il tragitto di ponente da via San Lorenzo a piazza Cinque Lampadi, quello di levante da via San Lorenzo a piazza San Giorgio.

L’origine del toponimo è la stessa del caruggio di Canneto il Lungo con il quale si interseca, ovvero relativa alla presenza dei cannicci che costeggiavano il fossato che degradava dal colle del Brolio fino al mare.

La Grande Bellezza…

Foto di Antonio Vescina.

L’antenato del coltellino svizzero.

In Val Nervia nel comune di Ventimiglia è sita una preziosa area archeologica che testimonia la cultura degli antichi liguri, in particolare della tribù degli intemeli una comunità vissuta in epoca romana.

Costoro infatti nei primi secoli avanti Cristo fondarono la città di Albintimilium.

Oggi il sito di notevole interesse storico offre una passeggiata a cielo aperto fra le rovine del millenario abitato, delle terme e del teatro.

Ma è all’interno dei locali del museo che si scoprono alcune sorprendenti curiosità.

Oltre infatti a busti di statue, vasellami vari, a gioielli e preziosi monili si possono ammirare i tavolieri, con relative pedine, del misterioso (soprattutto per le successive simbologie medievali) gioco del filetto (le cui tracce sono visibili anche sugli scalini della cattedrale di San Lorenzo a Genova) e un incredibile oggetto, stupefacente per la sua modernità.

“Il filetto inciso sugli scalini di San Lorenzo”. Foto di Leti Gagge.

Si tratta di un utensile multi uso in metallo risalente ai primi due secoli dopo Cristo in cui si distinguono chiaramente, fra le altre, una forchetta, un cucchiaio ed un coltello.

Insomma gli ingegnosi abitanti della riva destra del torrente Nervia avevano realizzato circa 1700 anni prima di Karl Elsener, il prototipo del celeberrimo coltellino svizzero.

Gente pragmatica questa dei Liguri.

In copertina “il coltellino svizzero”. Immagine tratta da Gedi Visual.

Gli arazzi della battaglia di Lepanto

A palazzo del Principe sono collocati tre straordinari cicli di arazzi quattro e cinquecenteschi: il primo dedicato alle storie di Alessandro Magno, il secondo ai mesi dell’anno, o meglio, alle divinità ad essi associate, il terzo alla battaglia di Lepanto.

Quest’ultimo ciclo è costituito da sei panni e due tramezzi conservati nella sala del Naufragio del palazzo.

Gli arazzi furono commissionati da Giovanni I Andrea D’Oria, nipote di Andrea, che fu tra i protagonisti del celebre scontro navale.

Ad elaborare i bozzetti preparatori venneri incaricati addirittura Lazzaro Calvi che disegnò le scene centrali e Luca Cambiaso che si occupò delle incorniciature e delle figure allegoriche.

La stesura degli arazzi avvenne a Bruxelles e furono consegnati a Genova nel 1591.

La sequenza degli episodi rappresentati ha inizio con La partenza da Messina della flotta cristiana, nel quale si descrive la partenza delle navi cristiane dal porto siciliano, sotto il comando supremo di Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V.

In basso a sinistra è rappresentata la “Capitana Nova” di Giovanni Andrea I, riconoscibile grazie alla presenza a poppa del fanale a forma di globo celeste, dono della moglie Zenobia.

A sinistra della scena centrale compare l’allegoria della Concordia, caratterizzata dagli attributi iconografici del caduceo e della lira, a destra si scorge invece la Nemesi, identificata dalla presenza di un metro e del freno che le viene offerto da un fanciullo.

Il secondo arazzo illustra la Navigazione lungo le coste calabre, mostrando l’avanzamento della flotta cristiana alla ricerca dello scontro con le navi turche. Il panno immortala il momento in cui la flotta della Sacra Lega costeggiò le coste della Calabria in direzione di Corfù, isola al largo dell’Epiro, caposaldo veneziano.  Da lì giunsero poi a Lepanto, nei pressi delle isole Curzolari, anticamente conosciute come Echinadi, dove ebbe luogo lo scontro con l’armata turca. Le figure allegoriche che accompagnano l’episodio sono la Vigilanza, a sinistra, con gli attributi del gallo, della testa di leone e della gru e, sul lato opposto, il Dominio sul mare, caratterizzata da una folta chioma agitata dal vento e dal tridente di Nettuno.

Il terzo panno raffigura lo Schieramento delle flotte. A destra si vede l’armata turca, organizzata in una formazione continua, pensata con l’intento di aggirare le navi nemiche. I cristiani, a sinistra, si divisero invece in quattro corni: al centro si posizionarono le galee di Don Giovanni d’Austria, a sinistra quelle veneziane di Agostino Barbarigo e a destra quelle di Giovanni Andrea I Doria. In seconda fila si scorgono le navi della retroguardia, al comando di Alvaro Bazan. Tra i due schieramenti si vedono le galeazze veneziane, navi dotate di una ragguardevole potenza di fuoco, che si rivelarono decisive per le sorti della battaglia. Le allegorie della Speranza e della Prudenza affiancano la scena centrale, la prima caratterizzata da un giglio e la seconda da tre teste di animali (lupo, leone e cane).

“La seconda e la terza scena”.

L’arazzo dedicato alla Battaglia vera e propria reca la rappresentazione dello scontro, che si rivelò estremamente sanguinoso. La vittoria della Lega Santa, in una battaglia le cui sorti rimasero a lungo in bilico, fu conquistata grazie alla superiore potenza di fuoco della flotta cristiana. Il panno mostra ai lati della scena centrale la figura della Fortuna, rappresentata in equilibrio su una sfera e accompagnata dall’emblema della cornucopia, e della Fortezza, caratterizzata dalla presenza di uno scheletro, di una corona e di un ramo di quercia.

Il penultimo panno è dedicato alla Vittoria cristiana e la fuga delle sette galee turche. Favorite dal sopraggiungere della notte, sette navi turche, comandate dal corsaro Uluç Alì, riuscirono a sfuggire alla cattura. Giovanni Andrea I, la cui nave si scorge impegnata nel vano sforzo dell’inseguimento, fu aspramente criticato per la sua scelta di interrompere lo schieramento cristiano nel tentativo di realizzare una manovra di aggiramento dei turchi. L’arazzo presenta diversi elementi di trionfo sul nemico, rappresentato in catene nella porzione inferiore del panno.

L’ultimo arazzo della serie raffigura il Ritorno a Corfù. La flotta cristiana, vittoriosa, trainò nel porto veneziano circa centotrenta navi turche prese prigioniere durante la battaglia. In primo piano è rappresentata la Capitana Nova di Giovanni Andrea con una preziosa preda di guerra: la nave ammiraglia turca. A corredo della scena vi sono la Gloria, caratterizzata dalla presenza di un cigno, e la Fama, con i suoi attributi della tromba, della lancia e le ali tempestate di occhi, orecchie e lingue.

Dopo questa dettagliata ed erudita descrizione tratta pari pari (sarebbe stato presuntuoso togliere o aggiungere altro) dal sito doriapamphilj.it, riporto questa divertente storiella citata sulla relativa monografia del Prof. Barbero che la dice lunga sull’essenziale pragmatismo dei genovesi:

“… l’ammiraglio veneziano scrisse alla Serenissima “La Madrepatria è salva”; l’ammiraglio pontificio scrisse al papa “La vera fede ha trionfato”; l’ammiraglio spagnolo scrisse al re Felipe “Vostra maestà ora domina anche il Mediterraneo”; Gio Andrea Doria scrisse al suo amministratore “Smetti di pagare l’assicurazione per i carichi perché sul mare non c’è più pericolo”.

In copertina il primo arazzo che immortala la partenza della flotta da Messina.

La nave del piacere

Giovanni Andrea I D’Oria parente (cugino di terzo grado) del più celebre Andrea resterà nella storia sia come ammiraglio, avendo ereditato il comando delle galee spagnole a Genova e successivamente il titolo di Capitano generale del Mare della corona di Spagna nel Mediterraneo, per aver partecipato con discusse fortune alla battaglia di Lepanto, sia come mecenate per aver impreziosito la sontuosa dimora del Principe.

Fu lui infatti a commissionare fra le altre, la statua di Nettuno e quella di Giove per abbellire il giardino della villa e i meravigliosi arazzi dell’impresa di Lepanto, custoditi all’interno del palazzo nella sala del Naufragio.

Non tutti sanno però che, oltre ad aver incrementato in maniera esponenziale la fortuna ereditata dell’illustre avo fino a diventare il privato cittadino più ricco d’Europa, fu l’audace e irriverente imprenditore che volle una nave bordello ancorata in Darsena.

Da alcuni decenni infatti il frequentato quartiere a luci rosse sotto il Castelletto era stato demolito, proprio al tempo e su iniziativa di Andrea, per far posto a metà ‘500 alla monumentale Strada Nuova detta anche Via Aurea.

Inoltre le prostitute come ricordato dal detto popolare “a l’è cheita na bagascia in maa sensa bagnase” non potevano né avvicinarsi ai moli, né di conseguenza salire a bordo delle navi.

“Ritratto di Alessandro Vaiani conservato presso il Palazzo del Principe che raffigura Giovanni Andrea I con l’abito dei Cavalieri di San Giacomo della Spada in compagnia del cane Roldano dono del re di Spagna Filippo II”.

Ma “se Maometto non va alla montagna- come recita un altro abusato proverbio- la montagna va da Maometto” e fu così che Giovanni I Andrea D’Oria ebbe la brillante idea di acquistare una galea battente bandiera spagnola, di ormeggiarla nella darsena e di allestire al suo interno un lussuoso bordello.

Con questo arguto stratagemma la nave risultava quindi essere fuori dalla giurisdizione della Repubblica e di conseguenza esonerata dalla tassazione e dalle regole in vigore sulla terraferma.

L’attività, nonostante i numerosi contenziosi nel tentativo di bloccarla, prosperò per oltre un secolo fino a quando nel 1716 il doge Lorenzo Centurione, per porre fine alla scandalosa situazione acquistò dagli eredi, pagandola una cifra folle, la nave.

In copertina il Galeone Neptune ancorato in Darsena nel porto antico di Genova. Foto di Leti Gagge.