Vico del Serriglio

L’origine del toponimo Serriglio si presta a diverse interpretazioni: secondo alcuni deriverebbe dalla traduzione del cognome della famiglia Lerici che in dialetto arcaico si diceva Serriggi; per altri il caruggio originario deriverebbe invece dalla sede di un piccolo recinto di animali da cortile (serriculum) o da uno sbarramento che serrava l’accesso.

Di certo la zona è stata completamente stravolta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale.

Resta traccia di una costruzione in pietra del XII sec. con porta ogivale e una fascia di archetti frammentata dalle successive aperture di finestre il tutto sormontato da un arco con pilastri in laterizio.

Percorrendo il caruggio sul lato del ristorante si notano quattro pilastri in marmo e, sopra il civ. n. 19r, quel che rimane di una piccola edicola barocca in stucco, priva della statuetta e decorata con fastigio a motivi floreali e una conchiglia a sostegno della mensa.

In questo vicolo che fu dimora dell’abate Paolo Gerolamo Franzoni ebbe sede nel 1757 una delle tre biblioteche pubbliche cittadine, quella – appunto – franzoniana.

Foto di Danilo De Lorenzis.

Il Ratto di Persefone

Valerio Castello concepisce a metà 600 per la galleria di palazzo Balbi Senarega in Via Balbi n. 4 un’opera di stupefacente bellezza.

Il pittore sceglie di decorare l’ambiente di passaggio che raccorda le due ali del palazzo e che si affaccia sul cortile da un lato e sul giardino dall’altro, con il mito del Ratto di Persefone.

I due episodi principali, accomunati dalla presenza di carri che solcano il cielo, sono collocati alle estremità: da una parte il Rapimento di Persefone da parte di Plutone re degli Inferi, dall’altro la Caduta di Fetonte fulminato da Giove.

Nella volta riempita da oltre cinquanta personaggi impiegati nei vari episodi si distingue anche la figura di Demetra, dea della prosperità e delle messi, contraddistinta dalle spighe di grano, che si rivolge ai fratelli di Plutone, Giove e Nettuno, per ottenere la liberazione della figlia Persefone.

Attraverso le scene legate al mito di Persefone, al fecondo rinnovarsi della natura, Valerio Castello celebra la prosperità della famiglia committente dei Balbi.

Il rapimento di Persefone è infatti alla base dell’alternarsi delle stagioni, secondo la mitologia greca; Autunno ed Inverno corrispondono ai mesi in cui Persefone è prigioniera di Ade negli Inferi, Primavera ed Estate sono i sei mesi in cui si ricongiunge alla madre Demetra sulla terra, come dispose Giove a seguito delle sue suppliche.

Dall’altro lato della galleria Valerio prosegue il suo fantastico racconto rappresentando Fetonte che fu fulminato da Giove per aver tentato di guidare il Carro del Sole, e aver causato la distruzione delle messi avvicinandosi troppo alla Terra.

Complici le sapienti finte architettoniche barocche del quadraturista bolognese Andrea Seghizzi il talento di Valerio Castello, scomparso prematuramente a soli 35 anni, esplode in tutta la sua genialità.

Ed ecco allora che i carri e i protagonisti dell’affresco sembrano precipitare davvero sopra alla testa di chi osserva.

Il magistrale illusionismo prospettico con cui sono rese le figure che sembrano quasi tridimensionali crea infatti un effetto di incredibile realismo in cui i personaggi dialogano con gli spazi interni ed esterni circostanti.

Il tutto immerso in un trionfo di stucchi e colori che lasciano davvero – e non è un modo di dire – senza parole.

La grande Bellezza…

Via di Prè

Fin dal ‘300 il borgo di Prè era un piccolo agglomerato agreste di case e chiesette sparse lungo l’asse viario in direzione ponente.

Prè a quel tempo era collegata con il Montegalletto (dove oggi si staglia il castello D’Albertis) e con il bastione di Pietraminuta (attuale Corso Dogali) da una serie di ripide creuze delimitate da modeste casupole in legno.

Nel 1606 con la realizzazione di Strada Grande del Guastato, ovvero via Balbi, la contrada viene stravolta: i campi espropriati, i sentieri cancellati, molte chiese demolite o traslocare.

Ma è nei primi decenni del 800 con la costruzione della ferrovia che taglia il porto fino allo scalo di Caricamento, il borgo assume più o meno la morfologia odierna. Ovvero una lunga e sottile striscia di caruggi e di case aggrappate le une alle altre, strette fra via Balbi a monte e la ferrovia a mare.

Via Prè perde, in concomitanza con l’apertura di via Carlo Alberto (oggi via Gramsci), la sua funzione di transito verso il ponente ma non la sua vocazione commerciale di strada dell’angiporto per antonomasia.

Curiose sono poi le teorie legate all’origine dell’etimo: secondo alcuni Prè significherebbe “Conträ di Prè” Contrada dei prati.

Per altri sarebbe invece da ricondurre al fatto che fosse la zona dove i capitani di galea si spartivano il bottino, la preda.

Da qui il significato di “Burgus de praedis”.

Altri ancora infine propendono per l’associazione “prae castra” davanti al campo per indicare tutta l’area adiacente il campo militare del Guastato (attuale Annunziata) dove si esercitavano i Balestrieri.

Via Prè. Foto di Bruno Evrinetti

La collina di Castello

La collina di Castello con il sottostante Campo di Giano (Sarzano) sovrasta l’insenutara del Mandraccio e accoglie l’antico oppidum cittadino (V Sec. a. C.) posto a difesa dell’approdo di Genua, poi città murata e sede della “Compagna communis” nel 1099.

Per conformazione e collocazione la zona di Castello appartenne prima ad una grande consorteria, quella degli Embriaci De Castro, poi al vescovo e, infine, a diverse comunità religiose (in particolare i domenicani di S. Maria di Castello) che qui costruirono vasti complessi conventuali sia femminili che maschili.

Il sole al tramonto illumina con la sua luce dorata la grande bellezza della Torre De Castri e dei campanili di San Silvestro, di Santa Maria di Castello e di Santa Maria in Passione.

“Anche la luce sembra morire
Nell’ombra incerta di un divenire
Dove anche l’alba diventa sera
E i volti sembrano teschi di cera”.

Cit. da “Inverno” di Fabrizio De Andre’.

La Grande Bellezza…

Foto di Leti Gagge.

Vico dei Cartai

In Sottoripa accanto al Gran Ristoro, il celebre negozio di panini, si snoda vico dei Cartai, la cui targa è purtroppo imbrattata dai soliti incivili.

Il toponimo trae origine dalla presenza in loco in epoca medievale di numerose botteghe di cartai.

Costoro avevano le loro fabbriche, vedi quelle dell’Acquasanta a Mele, nel ponente del genovesato ed erano talmente rinomati da fornire di fogli, per la redazione dei propri atto ufficiali, il Parlamento inglese.

Al civ. n. 17r è presente (s’intravvede in fondo al caruggio) la settecentesca edicola di Madonna col Bambino celebre perché al suo fianco è murata una palla di cannone sparata dalla Batteria della Lanterna durante il Sacco di Genova del 1849 del generale La Marmora.

La Grande Bellezza…

In Copertina: Vico dei Cartai. Foto di Stefano Eloggi.

Salita della Rondinella

Salita della Rondinella appartiene a quel gruppo di creuze nella conca di Vallechiara che costituivano la zona di Pastorezza (o Pastorizia) dedicata appunto all’allevamento degli ovini.

La contrada era protetta da una porta turrita minore detta di Pastorezza sita e visibile (in parte) ancor oggi in Salita dell’Acquidotto in corrispondenza dell’odierno Largo della Zecca.

“Porta di Pastorezza”. Foto di Leti Gagge.

Da qui il toponimo della Rondinella legato al camminamento di ronda sulle mura che seguiva il tracciato dell’acquedotto nel XVI e XVII sec.

Nel corso dei secoli subì successivi
troncamenti, ultimo dei quali quello dovuto alla costruzione della Strada Nuovissima (Via Cairoli).

Lo storico Giulio Miscosi nella sua raccolta “I Quartieri di Genova Antica” del 1936 formula una suggestiva ipotesi secondo la quale il toponimo Rondinella deriverebbe dai Rodanim, i mercanti di sale del Rodano che da Genova lo portavano a Ginevra.

Di conseguenza il teagitto della Rondinella sarebbe un tratto della Via del Sale!

In Copertina: Salita della Rondinella. Foto di Leti Gagge.

La Fontana della sfortuna

In Via Carcassi proprio sotto il muro del parco dell’Acquasola si trova una grande e dimenticata fontana battezzata nei racconti popolari, come “fontana della sfortuna”. Pare che a chi avesse osato bere da tale sorgente sarebbero piovute addosso disgrazie a non finire.

Tale sciocca superstizione era dovuta al fatto che già nel ‘500 nella zona erano state scavate delle enormi fosse per gettarvi i cadaveri della peste e nel ‘600 sulla sovrastante ampia spianata vi si seppellivano i poveri.

Perciò nonostante la fontana fosse allacciata all’acquedotto cittadino, nessuno se ne serviva.

Foto di Luciano La Verde.

L’Immacolata in Canneto il Curto

All’angolo fra via Canneto il Curto e Vico Oliva è collocata la statuetta della Madonna Immacolata del XVIII sec.

All’interno dell’elegante tabernacolo in stucco la scultura marmorea della Vergine poggia su un letto di nubi e teste di cherubini.

Tale edicola venne realizzata a ricordo della rivolta anti austriaca del 1746 del Balilla.

L’iscrizione alla base recita: MDCCXLVI X. / X Bris / Egressa Es / in Salutem / Popoli Tui / Ex cap. 3 / Habac.

Foto di Franco Risso.

Canneto il Curto

Nel Medioevo il caruggio di Canneto il Curto seguiva un percorso ininterrotto.

Fu a metà del 800, con l’apertura di via San Lorenzo, che venne diviso in due tratti: il tragitto di ponente da via San Lorenzo a piazza Cinque Lampadi, quello di levante da via San Lorenzo a piazza San Giorgio.

L’origine del toponimo è la stessa del caruggio di Canneto il Lungo con il quale si interseca, ovvero relativa alla presenza dei cannicci che costeggiavano il fossato che degradava dal colle del Brolio fino al mare.

La Grande Bellezza…

Foto di Antonio Vescina.

L’antenato del coltellino svizzero.

In Val Nervia nel comune di Ventimiglia è sita una preziosa area archeologica che testimonia la cultura degli antichi liguri, in particolare della tribù degli intemeli una comunità vissuta in epoca romana.

Costoro infatti nei primi secoli avanti Cristo fondarono la città di Albintimilium.

Oggi il sito di notevole interesse storico offre una passeggiata a cielo aperto fra le rovine del millenario abitato, delle terme e del teatro.

Ma è all’interno dei locali del museo che si scoprono alcune sorprendenti curiosità.

Oltre infatti a busti di statue, vasellami vari, a gioielli e preziosi monili si possono ammirare i tavolieri, con relative pedine, del misterioso (soprattutto per le successive simbologie medievali) gioco del filetto (le cui tracce sono visibili anche sugli scalini della cattedrale di San Lorenzo a Genova) e un incredibile oggetto, stupefacente per la sua modernità.

“Il filetto inciso sugli scalini di San Lorenzo”. Foto di Leti Gagge.

Si tratta di un utensile multi uso in metallo risalente ai primi due secoli dopo Cristo in cui si distinguono chiaramente, fra le altre, una forchetta, un cucchiaio ed un coltello.

Insomma gli ingegnosi abitanti della riva destra del torrente Nervia avevano realizzato circa 1700 anni prima di Karl Elsener, il prototipo del celeberrimo coltellino svizzero.

Gente pragmatica questa dei Liguri.

In copertina “il coltellino svizzero”. Immagine tratta da Gedi Visual.