Via dei Giustiniani era la chiavica lunga che scendeva dal colle di S. Andrea per sfociare in mare.
A fianco del fossato si alzavano le mura del X secolo demolite intorno all’anno Mille.
I conci in pietra vennero riutilizzati per la costruzione di nuove case. Nel XIV sec., coperta la chiavica, furono demolite le ultime casupole in legno.
Fu allora che i Giustiniani costruirono il loro palazzo e allargarono il caruggio fino a farlo diventare il più importante della città.
Sulla sinistra, più o meno all’altezza dell’incrocio con Vico di S. Rosa, si nota la serranda abbassata (è l’alba) di Sà Pesta uno degli ultimi locali storici che anticamente ospitava magazzini di sale distribuito per usi domestici.
Sale pestato, questo significa il nome tradotto in italiano dal genovese, mantiene il caratteristico forno a legna, i soffitti voltati, piastrelle rigorosamente bianche e pavimenti in graniglia alla genovese.
La Grande Bellezza…
In copertina: Via Giustiniani all’altezza del civ. 16r. Foto di Stefano Eloggi.
Resta in piedi, seppur rimaneggiato, il campanile mentre dei preziosi affreschi di Valerio Castello e di Domenico Piola, purtroppo non vi è più traccia.
Ma la vera curiosità sta nell’archivolto medievale individuato dagli storici come la base di una delle due vere torri Embriaci, da non confondersi con la torre De Castro, presenti nelle più antiche raffigurazioni del primitivo castrum cittadino.
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In copertina: l’archivolto di Santa Maria in Passione. Foto di Stefano Eloggi.
Al civ. n. 17 di Piazza San Matteo si trova il palazzo donato nel 1528 dalla Repubblica all’ammiraglio per i suoi servigi alla patria.
Ad Andrea D’Oriae ad i suoi eredi fu inoltre riconosciuta l’esenzione perpetua dalle tasse.
L’edificio originario che venne edificato da Lazzaro D’Oria attorno al 1460 ha subito nel corso dei secoli diversi rimaneggiamenti e cambiamenti fino a raggiungere, nella forma attuale, una riuscita fusione tra tardo gotico e primo rinascimento.
Il portale di scuola toscana attribuito a Nicolò da Corte e Gian Giacomo della Porta, secondo altri invece a Michele d’Aria e Giovanni Camplone, è un autentico capolavoro.
Figure zoomorfe e decorazioni a candelabri riempono ogni spazio possibile: testine, animali fantastici, lucertole, teste di montone e leone, pavoni, sirene e ninfe danzanti, uccelli che beccano dai fiori, roditori spuntano dalle cornucopie, pesci mostruosi e grifoni appollaiati sui capitelli.
A questi motivi se ne intrecciano altri floreali come girali e corone di fiori.
Nei sopracapitelli quadrati, a ricordare la fazione politica di appartenenza, due teste di imperatore.
Sopra l’architrave è scolpita l’epigrafe retta da due putti alati che certifica la donazione:
Senat. Cins Andre / Ae De Oria Patriae /Liberatori Mvnvs / Pvbblicvm.
Incisa sulla lapide l’immagine di una sfinge simbolo e sintesi dei quattro elementi che costituiscono il creato.
I fregi ornamentali originali sul prospetto principale sono opera dei maestri antelami Giovanni da Lancio e Matteo da Bissone.
La classica facciata in marmo bianco e nero alternato presenta in alto sulla sinistra due piccole logge una sopra l’altra chiuse da una terrazza decorata con archetti.
All’angolo della prima un pilastro marmoreo è scolpito con guerrieri del casato in nicchie con conchiglie sulle volte.
La seconda loggia invece aperta presenta arcate a tutto sesto, volte a crociera e fregi di archetti.
In realtà il celebre ammiraglio non visse mai in questa casa preferendo stabilirsi nella sua lussuosa dimora di Fassolo.
In copertina: la casa di Andrea D’Oria in San Matteo. Foto di Stefano Eloggi.
Il toponimo della zona delle Vigne rimanda a prima dell’anno Mille quando la contrada era identificata con il nome di Vigne del Re. Queste vigne, dette anche di Susilia, si estendevano inoltre su tutta la collina del Castelletto.
Anticamente il sito, per via della presenza di un cimitero paleocristiano, era ritenuto magico.
Gli undici archi a tutto sesto tamponati a sinistra nel muro perimetrale del chiostro, potrebbero essere i resti di tombe ad arcosolio del cimitero paleo cristiano, o più probabilmente, tracce di antichi magazzini. In origine la sede stradale era infatti ribassata rispetto a quella attuale.
Proprio per purificare la zona da queste leggende e superstizioni pagane nel 991 sarebbe stata eretta la basilica di S. Maria delle Vigne.
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In copertina: Scorcio di Vico del Campanile delle Vigne. Foto di Stefano Eloggi.
Situata nel cuore più antico della città vecchia piazza Embriaci costituisce emblematico esempio della piazza medievale concepita come fulcro intorno al quale ruotavano tutte le attività legate alla consorteria dominante: in origine case, logge, chiesa, pozzo, botteghe, magazzini e attività artigiane.
La schiatta del grande condottiero si estinguerà nei primi del ‘500 quando confluirà nell’albergo dei Giustiniani.
La dimora che si trova al civ. n. 5 è passata di mano nei secoli dagli Embriaci ai Cattaneo, ai Sale e infine ai Brignole a cui si deve la conformazione attuale.
Il portone a colonne doriche, adornato con due elmi e un cartiglio abraso è opera di Battista Orsolino.
Sul timpano spezzato una lapide ricorda che:
Intorno a questa Piazza Ebbero Stanza gli Embriaci / Casato Memorabile nelle Crociate e in Patria / Giganteggia Qvi a Tergo la Torre / Nella Sva Antica Struttura.
Varcato l’atrio con singolare volta a padiglione lunettato e salito l’elegante scalone con colonne marmoree si accede al piano nobile decorato con preziosi affreschi seicenteschi di Andrea Ansaldo.
Sempre nella piazza un palazzo senza numero civico appartenuto nel ‘400 ai Cattaneo Mallone presenta tracce di affreschi del XV e XVI sec. di scuola lombarda. Nel ‘600 la magione è stata completamente stravolta con la chiusura delle logge sostituite da finestre.
Al civ. n. 4 è visibile la celebre edicola del Beato Maggi, mentre al civicio 3 angolo con civ. 4 di vico Pece si notano i resti, robusti pilastri angolari, due archi ogivali in pietra, una colonna di marmo con capitello corinzio, di un edificio del XII sec.
In direzione via Mascherona si possono inoltre ammirare le mampae, ovvero quel geniale accorgimento adottato dai genovesi che permetteva loro di intercettare quel poco di luce che filtrava nei caruggi per convogliarla all’interno delle abitazioni.
In copertina: Piazza Embriaci. Foto di Stefano Eloggi.
“… Ma quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così che abbiamo noi mentre guardiamo Genova ed ogni volta l’annusiamo, circospetti ci muoviamo, un po’ randagi ci sentiamo noi“.
Se mi dovessero mettere davanti all’ingiusta – e per me dolorosa -scelta di individuare solo ed una sola chiesa da mostrare ad un ipotetico visitatore non avrei dubbi e senza esitazione alcuna proporrei Santa Maria di Castello.
Nessuna chiesa genovese infatti può vantare, cattedrale di San Lorenzo a parte, un patrimonio storico, artistico, architettonico e culturale di tale importanza e prestigio. Cito in ordine sparso: antichi reliquiari, raffinati codici miniati, storici paramenti liturgici, il Cristo Moro, il portale maggiore del Riccomanni, la tomba di Jacopo da Varagine, il mausoleo di Demetrio Canevari di Tommaso Orsolino, la lastra tombale dei Grimaldi Oliva, innumerevoli annunciazioni fra le quali quella celeberrima di Giusto da Ravensburg, la pala di Ognissanti di Ludovico Brea, il trittico del Mazone, l’Immacolata di Anton Maria Maragliano, l’altare di Anton Domenico Parodi, le Sure del Corano incise in una piastrella sulla volta, quadri – qua e là – del Boccaccino, Pier Francesco Sacchi, Aurelio Lomi, Luciano Borzone, Bernardo Castello, Andrea Ansaldo, G. Battista Paggi, Andrea Semino, Giovanni Battista Carlone, Domenico Piola, Gregorio de Ferrari, il Grechetto, sculture di Pasquale Navone, Taddeo Carlone, Giovanni Gagini, tre chiostri, il giardino, il museo, le bandiere turche di Lepanto e mi scuso per tutto ciò che ho dimenticato o tralasciato.
Tutte queste meraviglie racchiuse in un prezioso scrigno di ineguagliabile bellezza.
Consiglio a tutti di investire una mattinata accompagnati dagli appassionati e competenti volontari che la tengono in vita, alla scoperta, in una dimensione senza tempo, degli splendori della ex cattedrale.
L’origine dell’etimo che da origine alla piazza è di natura incerta. Secondo alcuni storici deriverebbe da una famiglia Ferro che abitava la piazza, secondo altri dal nome di un’antica osteria. Molto più probabilmente invece discenderebbe, dai depositi di metalli e dalle botteghe dei fabbri che gravitavano nella zona.
Sulla piazza si affacciano il retro di alcune importanti dimore nobiliari di Via Garibaldi quali palazzo Tobia Pallavicino e il giardino pensile di palazzo Gio. Batta Spinola.
A catturare l’attenzione, oltre all’edicola all’angolo con vico Spada (retro palazzo Pantaleo Spinola) è il singolare il palazzo al civ.3 con il fronte curvo a seguire il dislivello del terreno. Da qui iniziava la salita che conduceva al Castelletto.
In copertina Piazza del Ferro. Foto di Stefano Eloggi.
L’origine del toponimo di questo caratteristico caruggio nei pressi della contrada di San Bernardo rimanda ad un antico mestiere quello degli stoppieri.
In epoca medievale infatti il vicolo era costellato dalle botteghe di artigiani che confezionavano e distribuivano la stoppa e la canapa, due prodotti indispensabili per le attività navali.
La corporazione degli stoppieri per celebrare il proprio prestigio nel 1734 commissionò per la chiesa di San Marco al Molo unmaestoso gruppo marmoreo raffigurante la Madonna e i SS. Nazario e Celso opera di Francesco Maria Schiaffino.
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In copertina Vico Stoppieri. Foto di Stefano Eloggi.
Nella parte bassa del quartiere di Oregina si trova, in via Almeria, la chiesa intitolata ai SS. Tommasoapostolo e Leone.
Il novecentesco edificio religioso riprende il titolo parrocchiale dell’antica chiesa intitolata all’apostolo Tommaso che sorgeva alla foce dell’omonimo rivo, dov’è ora piazza Principe, demolita nel 1885 a seguito dell’ampliamento del porto e l’aperturta delle nuove strade a mare.
All’interno sono conservate alcune opere d’arte provenienti dall’antica chiesa di S. Tommaso: una statua cinquecentesca di Santa Limbania, un gruppo marmoreo raffigurante Cristo e San Tommaso, di Guglielmo Della Porta (1515-1577) e un’urna cineraria di fattura romana.
Le statue di Guglielmo, celebre scultore della schiatta dei Della Porta la cui maestria è testimoniata sia nella cattedrale di San Lorenzo che a Palazzo del Principe, offrono spunto per narrare la storia di Santa Limbania una giovinetta nata nel 1188, o forse nel 1194, figlia di un mercante genovese a Cipro.
A 12 anni la bella fanciulla venne promessa sposa dai genitori ad un giovane del luogo. Limbania non ne voleva sapere anzi, rivendicando a gran voce la propria aspirazione religiosa, manifestava la volontà di rinchiudersi in un monastero lontano dall’isola.
Così con la complicità della sua nutrice con la quale si era confidata e con l’aiuto del di lei marito organizzò la fuga.
Limbania si era infatti accordata per salire su una galea diretta a Genova. Il capitano della nave però non rispettò i patti e non si presentò nel luogo stabilito per l’imbarco.
Secondo la tradizione il vascello rimase quindi in balia delle onde finché il comandante spaventato non tornò indietro a prendere la fanciulla davanti al boschetto convenuto. Qui la trovò, fra la sorpresa generale, circondata da alcune bestie feroci miracolosamente ammansite.
Quando l’imbarcazione giunta finalmente a destinazione stava per attraccare al molo venne spinta da una forza misteriosa a occidente contro la scogliera sulla quale si stagliava proprio la chiesa di San Tommaso.
La santa, risvegliatasi dell’estasi, chiese ai marinai del terrorizzato equipaggio il nome del monastero e vi si fece accompagnare dichiarando di voler tracorrere il resto del tempo che le sarebbe stato concesso con le monache di quel convento.
E così fu, forse per adempiere ad un voto fatto durante la tempesta, di salvare la nave che stava sfracellandosi contro la scogliera, Limbania dimorò in rigorosa penitenza e clausura nella cripta della chiesa di San Tommaso fino alla fine dei suoi giorni, pare, dopo la metà del XIII sec.
Trascorso qualche anno dalla sua morte le consorelle del convento decisero di staccare la testa dal corpo di Limbania per poterla esporre in particolari occasioni come reliquia di culto.
Nel giorno della Pentecoste del 1294 avvenne, secondo la tradizione, il miracolo più celebre: durante la funzione un esitante e perplesso sacerdote prese la testa fra le mani per esporla al rituale bacio dei fedeli.
Il religioso, poiché la chiesa in merito alla presunta santità della suora non si era ancora pronunciata, non aveva poi tutti i torti ad essere scettico.
A quel punto, a fugare ogni dubbio, la testa di Limbania si staccò dalle mani del prete e volò, fra l’incredulità dei presenti sino all’altare.
Si tramanda inoltre un altro prodigio secondo il quale una donna era andata pregare la santa implorandola di salvare il figlio gravemente malato. Limbania apparve in sogno alla povera madre dicendo che il giovane avrebbe dovuto bere il vino in cui era stata lavata la sua testa. Così venne eseguito e guarigione fu. Era il 16 giugno, e da allora in quel giorno, per secoli, venne distribuito “il vino di S. Limbania”.
Le sue reliquie oggi, dopo la demolizione del monastero di San Tommaso, riposano in una chiesetta a lei dedicata a Voltri.
Santa Limbania è la protettrice degli emigranti, dei facchini, dei mulattieri e più vin generale dei marinai del porto di Genova.
A lei, oltre alla chiesa sopra citata, è dedicato un molo e il percorso che da Voltri saliva verso le alture e gli appennini verso il Piemonte utilizzato nel Medioevo per transitare le merci nella grande pianura.
In copertina: Statua di Santa Limbania. Foto di Gabriele Gira.