Santa Maria in Passione

Percorrendo la salita che costeggia sulla sinistra la Basilica di Santa Maria di Castello si giunge alla piazzetta di Santa Maria in Passione in cui si staglia l’omonima chiesa.

A 75 anni dalla fine del conflitto mondiale trovare dei ruderi e delle ferite così devastanti fa tuttora impressione.

L’edificio quattrocentesco costruito su pertinenze medievali degli Embriaci ospitava una comunità di monache agostiniane ed era parte di un più ampio spazio conventuale.

Nel ‘600 fu oggetto di una significativa ristrutturazione in chiave barocca che coinvolse alcuni degli esponenti più importanti fra gli artisti genovesi.

Purtroppo però gli affreschi di Valerio Castello, Gio Andrea Carlone, Lazzaro Tavarone e Domenico Piola, a causa dei bombardamenti della seconda guerra mondiale, sono andati perduti.

A vago ricordo della bellezza delle decorazioni rimangono le opere di Aurelio Lomi e Domenico Fiasella conservate presso la Soprintendenza e l’Istituto Arecco.

Con la soppressione napoleonica degli ordini religiosi la struttura venne utilizzata come stalla e solo a partire dal 1818, al tempo dei Savoia, recuperò la sua primitiva funzione ospitando le Canonichesse Lateranensi.

Ma le vicissitudini della chiesa non finirono qui poiché nel 1889, a seguito di una nuova soppressione degli ordini religiosi del Regno d’Italia, il complesso venne convertito in caserma per le guardie civiche prima, della Guardia di Finanza poi, dell’Omni (Opera nazionale maternità e infanzia) infine.

Dopo la fine della seconda guerra mondiale la zona rimase completamente abbandonata fino al parziale recupero, in un più ampio progetto, dell’architetto Ignazio Gardella negli anni ’70.

Dal 2014 il sito archeologico di Santa Maria in Passione ospita nei suoi giardini il parco culturale urbano della Libera Collina di Castello, luogo d’incontro e scambio tra artigiani, artisti, studenti e residenti.

La chiesa sconsacrata e completamente sventrata è stata dotata, nella zona absidale, di una copertura posticcia per preservare dagli agenti atmosferici quel che resta degli antichi decori.

Rimane in piedi a ricordo di una storia da non dimenticare, il campanile ultimo testimone di quanto ho raccontato.

In copertina: Santa Maria in Passione. Foto di Stefano Eloggi.

San Marcellino

La chiesa di San Marcellino, sita nell’omonima piazza, guadagna il suo spazio senza tempo fra via del Campo e via Gramsci regalandoci inusitate atmosfere.

Come per altri edifici religiosi del litorale, legati all’ospitaggio delle crociate, si fa risalire la nascita della chiesa al IV sec. d. C.

Secondo la tradizione infatti una chiesuola, soggetta alla giurisdizione della cattedrale di San Lorenzo, fondata in quella contrada dal clero milanese in fuga dalla loro città invasa dai Longobardi, sarebbe già esistita da tempi remoti.

Nel 1023 il Vescovo Landolfo ne fa per la prima volta menzione scritta citandola fra le pertinenze dell’abbazia di San Siro.

Nel corso dei secoli successivi la chiesa, dopo i restauri voluti da Giovanni Battista Cybo, è rimasta nella sfera d’influenza della famiglia del futuro (con il nome dal 1484 di Innocenzo VIII) Papa.

L’edificio che non presenta né opere d’arte, né arredi di particolare pregio perse la sua originaria intitolazione a vantaggio dell’omonima chiesa costruita in forme moderne nel 1936 in via Bologna nel quartiere di San Teodoro.

Fu Don Luigi Orione a tentare di recuperarne nel 1939 il valore storico e l’antico spirito. L’intento era quello di farne un luogo d’incontro e assistenza per i marinai che sbarcavano nel porto proprio come avvenuto ai pellegrini e ai crociati nel millennio precedente.

Purtroppo l’imminente scoppio del conflitto mondiale vanificò il nobile progetto. L’idea di Don Orione non è andata comunque perduta perché sulle macerie fisiche e morali della guerra il sacerdote gesuita Paolo Lampedosa con l’appoggio appunto dell’Opera Don Orione istituì nella chiesa l’associazione “la Messa del Povero”.

Tale iniziativa si prefiggeva di aiutare poveri, profughi, sfollati e in genere tutti gli emarginati.

Dal 1988 l’associazione nel frattempo mutata in San Marcellino si è trasferita nella vicina via Ponte Calvi proseguendo la millenaria vocazione assistenziale dell’omonima chiesa.

La Grande Bellezza…

In copertina: Chiesa e piazza di San Marcellino. Foto di Stefano Eloggi.

La lunetta in Via Fiume 11r.

Persino nella moderna Via Fiume, un tempo località Bisagno Sottano, è possibile ammirare preziose testimonianze artistiche del passato.

E’ questo il caso del civ. n. 11r dove una volta aveva sede il celebre ristorante (oggi in Viale Brigata Bisagno 69r) Gran Gotto.

Qui, nella lunetta ricavata dal tamponamento della loggia, è ancora visibile un affresco secentesco raffigurante la Madonna col Bimbo, città, Lanterna e santi protettori della Repubblica.

La Grande Bellezza…

In copertina: la lunetta affrescata di Via Fiume. Foto di Franco Risso.

Mascherona

Percorrendo via e salita di Mascherona, nonostante i bombardamenti della seconda guerra mondiale che hanno devastato la contrada, si ha ancora la suggestiva sensazione di essere in pieno Medioevo.

La creuza mista di pietre e mattoni rossi, le tracce di cornici e di archetti dei palazzi dalle tinte pastello o a bande bianco nere con i tetti in ardesia conferiscono al luogo un indubbio fascino.

Incerta è l’origine del toponimo che pare derivi da una forma dialettale arcaica con la quale si delimitava questa zona in pendenza dalla collina di Castello alla chiavica. Quest’ultima scorreva a valle in corrispondenza dell’attuale via dei Giustiniani.

La salita costeggia il Conservatorio di Musica ricavato in quello che un tempo era l’antico monastero di N.S. delle Grazie e a fianco l’edificio che nell’ottocento ospitò il Liceo D’Oria.

Salita Mascherona era nota anche perché vi si trovavano un paio di frequentati teatri: il Edmondo Rossoni all’interno di un oratorio dismesso e, al civ. n. 9, il più celebre Podestà, noto anche come Teatro del Popolo, in voga fino al 1922.

In copertina: via di Mascherona. Foto di Leti Gagge.

In memoria del sacrificio di Lorenzo

In Carignano presso le Mura delle Cappuccine sul civ. n. 6 è affissa una lapide a ricordo di un dimenticato eroe della Resistenza.

L’ormai sbiadita lastra rammenta infatti la storia di Lorenzo De Negri giovane partigiano nato a Crocefieschi nel 1926 che, membro della brigata SAP “Bellocci”, morì qui in combattimento durante le concitate fasi della liberazione della città.

Come purtroppo tanti suoi coetanei, anche Lorenzo non ebbe dunque la possibilità di vedere Genova libera e a lui – come agli altri caduti – va il nostro pensiero e ringraziamento.

Recita l’epigrafe:

CON IL SACRIFICIO
DELLA SUA FIORENTE GIOVINEZZA
QUI
LORENZO DE NEGRI
UNO DEI TANTI
SUGGELLÒ CON IL SUO SANGUE
L’IDEALE SUPREMO
DI LIBERTÀ E GIUSTIZIA
21-8-1926   —   24-4-1945
“.

In copertina: La lapide al civ. n. 6 delle Mura delle Cappuccine.

La Genovese partenopea

A Genova quando si parla di sugo e carne alla genovese s’intende il “Tuccu” con cui condire taglierini e ravioli.

A Napoli invece con la dicitura “alla genovese” si ci riferisce ad un condimento bianco a base di cipolle e carne di manzo o vitello con il quale si preparano gli ziti della tradizione napoletana.

Assai curiosa e dibattuta ne è la genesi: secondo alcuni “la genovese” sarebbe stata importata nella città partenopea da mercanti della Superba nel XIV o XV secolo al tempo della dominazione aragonese. Per altri la nascita sarebbe da relazionarsi invece al cognome “Genovese” (molto diffuso in Campania) o al soprannome “O Genovese” del suo presunto inventore.

Liberamente tratto dal sito “Storie di Napoli.it” riporto:

“La fonte più antica sulla Genovese risale al 1285, anno della prima pubblicazione de il “Liber de coquina“. Questo testo di cucina napoletana, scritto in latino volgare e dedicato a Carlo II d’Angiò da un anonimo cortigiano, cita “De Tria Ianuensis” (Della Tria Genovese). Con il termine tria sembrerebbe che all’epoca si intendesse la pasta. Per la prima volta con questa ricetta si parla di un sugo preparato con le cipolle e con la carne. 

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“La carne alla genovese”. Foto tratta dal sito “La Cucina di Napoli”.

Altri invece parlano di un cuoco del XV secolo famosissimo a Napoli con il nomignolo di “O’ Genovese” come inventore di questo piatto.

Un’altra teoria sulle origini della Genovese si fonda sul fatto che a Napoli, nella zona portuale, esisteva una strada chiamata via dei Genovesi, perché pullulava di osterie e taverne gestite da ex marinai genovesi. Uno dei piatti che vi si poteva assaporare era una vivanda a base di carne che ancora oggi esiste a Genova. Si tratta di un pezzo di carne tagliato a grossi pezzi insieme a carota, sedano e cipolla detta “u Tuccu“. Si racconta, ma qui sforiamo nella leggenda, che tra i genovesi arrivati a Napoli a bordo del vascello “Superba” nel XVIII secolo, tra di loro, ci fosse un marinaio particolarmente abile in cucina che si inventò questa pietanza.

Infine nella prima versione del trattato “La Cucina Teorica Pratica”, pubblicato a Napoli nel 1837 a opera di Ippolito Cavalcanti, Duca di Buonvicino, della ricetta della Genovese risultano svariate vivande, tra le quali nessuna purtroppo assomiglia a un condimento per la pasta. Nella seconda variante del trattato, del 1839, quando si parla di lasagne alla Genovese si nota un netto cambiamento. Da questo momento la Genovese ha assunto definitivamente la sua versione attuale, più napoletana che genovese”.

La preparazione è molto semplice ma il risultato è straordinario: si fa cuocere a fuoco lento per almeno due ore (più cuoce comunque meglio è) il girello (rotondino, megatello, lacerto, coscia rotonda a seconda delle regioni) in un classico soffritto di carote e sedano e, soprattutto, di abbondante cipolla, avendo cura di bagnarlo con brodo e vino bianco o rosso per non farlo restringere e asciugare troppo.

A testimonianza della probabile comune origine la carne della genovese alla napoletana, proprio come per il tocco genovese classico, si può aggiungere al sugo per condire la pasta insieme a pecorino o parmigiano, oppure si può gustare da sola come fosse un secondo.

In copertina: Ziti alla genovese. Foto tratta da chezuppa.com

La sacrestia delle meraviglie

La sacrestia di Santa Maria di Castello costituisce un ambiente assai suggestivo, degna anteprima delle meraviglie che si presenteranno all’ospite durante la visita del complesso.

Vi si accede in corrispondenza del transetto destro attraverso un piccolo atrio, già cappella Grimaldi, impreziosito da un’acquasantiera di Giovanni Gagini.

Sotto all’essenziale volta gli arredi con armadi settecenteschi in noce su un pavimento a rombi bianco neri conferiscono alla sala un aspetto austero e solenne.

Subito si nota una superba pala settecentesca (1738) con San Sebastiano di Giuseppe Palmieri ma il pezzo forte è rappresentato dallo spettacolare “portale maggiore“, opera di matrice toscana dovuta a Leonardo Ricomanni e allo stesso Gagini (1452), sovrastato da una lunetta gotica del XIV secolo con la Crocifissione.

Accanto al portale è collocato un gruppo settecentesco in legno policromo raffigurante la Madonna di città col Bambino venerata da san Bernardo durante il suo soggiorno genovese.

“Madonna di Città” di Marcantonio Poggio. Foto di Giuseppe Ruzzin.

La scultura proveniente dallo scomparso oratorio di Santa Maria, San Bernardo e santi Re Magi, che sorgeva poco distante dalla chiesa, è attribuita al maestro Marcantonio Poggio.

Aperta la porta di uno degli armadi a parete magicamente si accede al retro del coro e al percorso museale, da un varco in fondo alla stanza invece, alle scalette di accesso all’atrio della celebre loggia dell’Annunciazione.. ma queste sono altre storie…

La Grande Bellezza…

In copertina: la sacrestia di Santa Maria di Castello. Foto di Stefano Eloggi.

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La Cappella di San Giuseppe

Nella chiesa di San Donato dalla navata di sinistra, accanto alla statua (1790) processionale lignea, raffigurante la Madonna del Carmine, proprio dietro alla colonna della foto si accede ad una stupefacente cappella laterale.

Questa un tempo faceva parte dell’ oratorio dei falegnami, dedicato a san Giuseppe, incorporato nella chiesa nell’Ottocento tramite l’apertura di una porta. Edificato nel ‘600 ha subito poi modifiche nel secolo successivo.

“Interni di San Donato”. Foto di Leti Gagge

In tale cappella detta appunto di San Giuseppe fanno bella mostra di sè tre straordinari capolavori che nobiliterebbero qualsiasi museo:

Il trittico dell’Adorazione dei Magi opera del 1515 di Joos Van Cleve artista fiammingo assai stimato in tutta Europa, la trecentesca Madonna con bambino capolavoro di Nicolò da Voltri assolutamente degna dei maestri senesi dai quali trasse ispirazione e una Sacra Famiglia, pala d’altare secentesca di Domenico Piola, fatta realizzare dalla Confraternita dei falegnami, la cui particolarità consta nel fatto che a tenere in braccio Gesù non è la Vergine come di solito, ma Giuseppe.

"Madonna con bambino di Nicolò da Voltri".
“Madonna con bambino di Nicolò da Voltri”.
"L'adorazione dei Mafi" di Joos Van Cleve.
“L’adorazione dei Magi” di Joos Van Cleve.
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“La Sacra Famiglia”. di Domenico Piola
“Documento del Battesimo di Paganini del 28 ottobre 1782”.

Ultima  curiosità, proprio di fronte al polittico, il certificato di battesimo di Niccolò Paganini, sacramento ricevuto dal musicista nella vicina chiesa di S. Salvatore.

In copertina: Dietro la colonna la cappella di San Giuseppe. Foto di Leti Gagge.

San Torpete

In piazza San Giorgio, in quello che un tempo era l’antico mercato bizantino, sorgono una accanto all’altra le chiese di San Giorgio e di San Torpete.

Quest’ultima, secondo la tradizione, venne fondata nel X sec. dalla comunità pisana presente in città che la intitolò al proprio concittadino martire cristiano del I secolo.

La costruzione originale prevedeva la classica decorazione esterna a fasce bianco nere alternate, di cui restano alcuni brani sul fianco destro, ed era rivolta a ponente.

Dal 1180 divenne parrocchia gentilizia della potente famiglia dei Cattaneo Della Volta che tuttora ne conserva il giurispatronato.

La chiesa come del resto tutta la contrada subì gravi danni dai bombardamenti del Re Sole del 1684 e, per essere ricostruita, dovette attendere il progetto del 1730 di Gio Antonio Ricca il Giovane.

Il nuovo edificio costruito in forme barocche ebbe un nuovo orientamento verso levante ed anche un nuovo nome aggiungendo a quello di San Torpete il titolo di Santa Maria Immacolata.

A metà ‘800, come del resto per la vicina San Giorgio, venne completata la facciata aggiungendo a quelli barocchi elementi (nicchie, paraste e timpano) neoclassici.

Nel 1887 vi celebrò messa per alcune funzioni monsignor Giuseppe Sarto vescovo di Mantova, futuro Papa Pio X.

Causa i bombardamenti della seconda guerra mondiale la chiesa versò per alcuni decenni nel più completo abbandono.

Per ammirarla nelle forme attuali si dovettero attendere gli interventi del 1995.

Al suo interno a pianta ovale interamente ricoperto da una cupola ellittica con rivestimento a scaglie di ardesia, sono conservate alcune preziose tele di Giovanni Carlone e G.B. Paggi.

Sulle pareti sono invece esposte numerose bacheche con ex voto.

Per la sua ottima acustica la chiesa ospita spesso concerti di musica classica.

In copertina: chiesa di San Torpete e scorcio, accanto, di quella di San Giorgio entrambe site nell’omonima piazza. Foto di Stefano Eloggi.

Vico Morchi

Vico e piazza Morchio o Morchi devono il nome alla famiglia originaria dei dintorni di Rapallo dal 1350.

Costoro in città possedevano una casa con relativa torre ancora oggi visibile dal lato di Piazza Caricamento.

Nel 1528 con la riforma degli Alberghi voluta da Andrea D’Oria la famiglia fu ascritta in quella dei Giustiniani.

All’angolo con Sottoripa una lapide ricorda che qui aveva sede l’albergo Croce di Malta che ospitò molti personaggi illustri: Fenimore Cooper, Henry James, Mary Shelley, Stendhal, Flaubert, Mark Twain e Giuseppe Verdi.

La Grande Bellezza…

In copertina Vico Morchi. Foto di Stefano Eloggi