Il caruggio intitolato al poeta savonese (1552-1638) Gabriello Chiabrera presenta diverse testimonianze storiche medievali:
al civ. n. 6r un fregio marmoreo con il trigramma di Cristo; al 13r/a un portale marmoreo con lesene ioniche scanalate ed un cartiglio muto; al 19r un portale in pietra nera del XVI sec.
La piazza delle Cinque Lampadi costituisce uno degli spazi più caratteristici e vivaci del centro storico. Oggi popolato da bar e locali di vario genere un tempo era l’accesso a ponente nella cerchia muraria del X sec.
Fino alla costruzione infatti nel 1155 delle Mura del Barbarossa l’arco che conduce alla chiesa di San Pietro era in realtà una delle cinque principali porte cittadine.
Al confine con il vecchio varco si trova il Palazzo Cicala Raggio una casa turrita e loggiata il cui ingresso si trova al civ. n. 1 di Piazza delle Scuole Pie.
I primi due piani dell’edificio sono costruiti in pietra sono di epoca romanica (XII-XII sec) mentre quelli superiori evidenziano le successive modifiche del XVII secolo e le recenti sopraelevazioni.
Il portale del civ. 14 al centro della foto appartiene al Palazzo Penco realizzato nel XVII sec. Si tratta di un elegante portale marmoreo con semicolonne doriche rudentate. Al vertice dell’arco un mascherone e metope con fregi di elmi di clipei. Da alcuni decenni l’elegante atrio è occupato da un supermercato di una nota multinazionale francese. Qui, fra gli scaffali, sono ancora visibili alcune colonne doriche binate.
Ma tutta la piazzetta è un susseguirsi di tracce antichissime. Basta solo guardarsi intorno con il naso all’insù: archi in pietra a tutto sesto con capitelli, finestre bifore, trifore, quadrifore, colonnine marmoree, cornici in laterizio, muri in pietra, soffitti voltati a crociera, lunette in ferro battuto portanti Grifoni, clipei con Agnus dei e monogramma di Maria.
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In copertina: Piazza delle Cinque Lampadi. Foto di Leti Gagge.
Spettacolari le tonalità pastello che svariano dal rosso mattone, al giallo ocra, al grigio pietra.
L’origine del toponimo rimanda alla popolare famiglia dei Salvago originari della Lombardia. Il cognome di questa schiatta compare già dal XII sec. costituita dall’unione delle famiglie Porci, Nepitelli e Striggiaporci: Salvaghi, in lingua genovese, Sarveghi a sottolineare il proprio rustego carattere.
Questi ultimi fondarono nel 1173 la chiesa di San Marco al Molo. Nel 1278 Michele ricoprì la carica di Podestà. Nel XIII sec. Porchetto fu un noto e apprezzato scrittore in ambito ecclesiastico. Nel 1528 formarono il ventunesimo albergo e fornirono nei secoli numerosi senatori alla patria.
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In copertina: Vico Salvaghi ripreso lato Via Garibaldi verso la Maddalena.
La chiesa superiore di San Giovanni evangelista costituisce insieme a quella inferiore, al convento e all’hospitale, il meraviglioso complesso della Commenda.
Al tempio superiore si entra dall’attigua salita San Giovanni. Curiosamente fino al 1731 tale edificio, essendo uso esclusivo dei cavalieri, non aveva un ingresso pubblico.
I crociati infatti vi accedevano dall’interno e non avevano bisogno di altri varchi.
Nel 1731 per permetterne l’utilizzo ai fedeli fu quindi ricavato al centro dell’antico abside il nuovo portale.
Tale ristrutturazione comportò l’inversione degli spazi interni causando la soppressione della prima campata con conseguente costruzione di un nuovo abside dalla parte opposta della navata centrale. Insomma una chiesa completamente ribaltata rispetto alla primitiva disposizione.
Complice la struttura che si presenta a tre navate con una volta a crociera in pietra nera, sostenuta da possenti costoloni e massicce colonne, si respira un’atmosfera misteriosa e suggestiva. Sembra quasi di essere dentro al ventre di una balena.
In copertina: chiesa superiore di San Giovanni di Pre’. Foto di Stefano Eloggi.
Il 9 aprile 1970 è una data scolpita nella memoria dei genovesi un pò attempati come me. A dire il vero io nacqui l’anno seguente ma quello che accadde lo rivissi nei racconti dei miei genitori che osservarono consumarsi la tragedia dalle finestre di casa in Corso Saffi.
Quel giorno infatti all’imboccatura del porto di Genova naufragò il mercantile britannico London Valour. A circa 300 metri dalla diga Duca di Galliera, causa una devastante mareggiata, la nave perse l’ancoraggio e si schiantò sulla scogliera. Venti membri dell’equipaggio, prevalentemente marinai asiatici, persero la vita.
I venti che soffiavano a 100 km all’ora avevano prodotto una libecciata con onde alte oltre quattro metri che avevano reso proibitivi i soccorsi di ormeggiatori, rimorchiatori, Nucleo Sommozzatori Carabinieri, Capitaneria di porto e Vigili del Fuoco. Tutti si erano comunque prontamente mobilitati.
In particolare l’intervento di soccorso compiuto dalla motovedetta CP 233 della Capitaneria di Genova, l’unica a raggiungere lo scafo, fu una delle operazioni di soccorso più difficili mai condotte dalleCapitanerie di Porto. Il tenente di vascello Giuseppe Telmon ed i suoi sette uomini furono poi insigniti, per il loro gesto eroico con la Medaglia al valore di Marina, d’oro per il comandante, d’argento per l’equipaggio. Questi uomini misero infatti in grave pericolo la propria vita, riuscendo a portare in salvo ben 26 persone. Altre benemerenze vennero rilasciate al Corpo Piloti del Porto e ai Vigili Sommozzatori.
Ma il ricordo più sentito e commosso dei genovesi va senza dubbio al maggiore dei Vigili del Fuoco Rinaldo Enrico che, contro il parere di tutti viste le avverse condizioni, con il suo elicottero il “Libellula” si alzò in volo per gettare in mare, nel frattempo resosi catramoso dalle perdite dello scafo, più salvagenti possibili.
Per questo coraggioso comportamento nel luglio del 1975 gli fu conferita postuma la medaglia d’oro al valor civile ma la cittadinanza, già un paio d’anni prima, aveva voluto ricordare il suo eroe, nel frattempo morto durante un’esercitazione, apponendo una targa di ringraziamento in lingua genovese nel borgo marinaro di Vernazzola.
Una simile tragedia non potè non tradursi in una struggente canzone “Parlando della London Valour” di De Andrè, il cui intimo amico il poeta e marinaio Riccardo Mannerini era a sua volta amico personale del maggiore Enrico.
Presso i Magazzini del Cotone nel Porto Antico un’altra lapide ricorda la terribile catastrofe riportando proprio i versi di Faber.
I marinai foglie di coca Digeriscono in coperta Il capitano ha un amore al collo Venuto apposta dall’Inghilterra Il pasticcere di via Roma Sta scendendo le scale Ogni dozzina di gradini Trova una mano da pestare Ha una frusta giocattolo Sotto l’abito da tè E la radio di bordo È una sfera di cristallo Dice che il vento si farà lupo Il mare si farà sciacallo Il paralitico tiene in tasca Un uccellino blu cobalto Ride con gli occhi al circo Togni Quando l’acrobata sbaglia il salto E le ancore hanno perduto La scommessa e gli artigli I marinai uova di gabbiano Piovono sugli scogli Il poeta metodista Ha spine di rosa nelle zampe Per far pace con gli applausi Per sentirsi più distante La sua stella si è oscurata Da quando ha vinto la gara Di sollevamento pesi E con uno schiocco di lingua Parte il cavo dalla riva Ruba l’amore del capitano Attorcigliandole la vita Il macellaio mani di seta Si è dato un nome da battaglia Tiene fasciate dentro il frigo Nove mascelle antiguerriglia Ha un grembiule antiproiettile Tra il giornale e il gilè E il pasticciere e il poeta E il paralitico e la sua coperta Si ritrovarono sul molo Con sorrisi da cruciverba A sorseggiarsi il capitano Che si sparava negli occhi E il pomeriggio a dimenticarlo Con le sue pipe e i suoi scacchi E si fiutarono compatti Nei sottintesi e nelle azioni Contro ogni sorta di naufragi E di altre rivoluzioni E il macellaio mani di seta Distribuì le munizioni
In Piazza Marsala all’interno della chiesa anglicana dello Spirito Santo è custodita la campana, a perenne memoria di quella nefasta tragedia, della London Valour.
«E allora, non chiedere mai per chi suoni la campana. Essa suona per te.» Cit da “Per chi suona la campana ” romanzo di Ernest Hemingway del 1940.
In copertina: la campana della London Valour. Foto di Leti Gagge.
Sul fronte del civ. n. 19 in Via Chiabrera una lapide ricorda che qui, nell’abitazione di Antonio Gavotti, fra il 1830 e il 1832 si riunivano i cospiratori della Giovine Italia:
In Queste Mura / Nella Sala d’Armi / di Antonio Gavotti / Uniti nel Pensiero della redenzione Italica / Convennero dal 1830 al 1832 / Mazzini, Ruffini, Biglia, Miglio, Orsini / e altri Patrioti / che la Gloria della Fondata / Giovine Italia / Fecondarono col carcere coll’esiglio della Morte / Il Circolo Libero Pensiero 5 Maggio 1894.
Al civ. n. 3 di Piazza Sauli si trova il cinquecentesco Palazzo Antonio Sauli. La lussuosa dimora patrizia fu edificata sul corpo di due precedenti proprietà della famiglia dei Leccavela, un casato dai gloriosi trascorsi marinari.
A testimonianza delle pertinenze dei primitivi titolari rimangono inglobati nella più recente struttura due piani ed il terrazzo dell’antica torre medievale.
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In copertina: Torre dei Leccavela. Foto di Laura Malfatto
Finalmente è stata colmata la gravosa lacuna. Eh si perché, incredibile a dirsi, fino al 21 ottobre scorso, Genova non aveva mai dedicato un monumento ad uno dei suoi più illustri figli, Niccolò Paganini.
La statua realizzata dallo scultore bresciano Livio Scarpella è stata collocata davanti all’ingresso del Carlo Felice, il principale teatro cittadino.
Alla presenza delle autorità e del celebre critico d’arte Vittorio Sgarbi nonché presidente della Fondazione Pallavicino promotrice dell’iniziativa è stato così, all’imbocco della Galleria Giuseppe Siri, svelato il manufatto.
Scarpella, spiega Sgarbi, “ha stravolto la sua prima immagine statica di Paganini, che viene da una bellissima invenzione di Ingres. Poi ha capito che aveva sbagliato: aveva rappresentato il corpo ma non l’anima. Così è diventato scultore dell’anima di Paganini: lo ha fatto elettrico, dinamico, col suono che sembra uscire dal violino che si aggancia sotto il mento, con una forma del naso grifagna come per far diventare il violino una parte del suo corpo”.
La statua, in bronzo, alta 2 metri e 5 centimetri, è ricoperta da patina dorata «per impreziosirla e perché viva anche di luce propria, per caricarla di effetti – dice il cinquantenne artista bresciano, ieri protagonista con la sua creatività a Genova -. Ha tratti un po’ diabolici, questa statua. Come vuole l’immagine comune che ci è stata tramandata di lui, da divo attento alla sua immagine quale fu. E siccome il maestro era un virtuoso del violino anch’io mi sono espresso con virtuosismi dell’arte scultorea, curando particolari, ricorrendo a raffinatezze e ai cosiddetti capricci» che per una fascinosa simmetria. Scarpella richiama così i celebri «Capricci» del compositore.
Insomma un po’ luciferino, come vuole la tradizione ed un po’ rock star del primo ’800 come recentemente ripensato in chiave più moderna.
“Non ci sarà mai più un secondo Paganini”.
Franz Liszt. Compositore ungherese (1811-1886).
Genova. Novembre 2021.
In copertina: Il monumento a Paganini. Foto di Salvatore Camba.
L’usanza del dito medio alzato come insulto risalirebbe alla Guerra dei Cent’anni tra inglesi e francesi: i figli di Albione stavano vincendo la guerra grazie a continue scorribande nel territorio francese.
I francesi si avevano una ben organizzata cavalleria, ma gli inglesi vantavano un altrettanto efficiente contingente di arcieri.
Ad esempio nel 1346 a Crecy l’esercito francese subì pesanti perdite di cavalieri sotto una copiosa grandinata di frecce inglesi. In quell’occasione i Balestrieri genovesi al soldo di Giovanni II re di Francia furono presi di sorpresa e, causa la velocità dell’azione nemica nello scagliare dardi con inimmaginabile frequenza, non riuscirono a proteggere la tanto temuta cavalleria transalpina.
Migliaia di Balestrieri genovesi al diretto comando dei generali Doria e Grimaldi furono sconfitti – ad onor del vero – non solo dalla nefasta parabola delle frecce nemiche ma soprattutto dall’utilizzo, per la prima volta, delle rumorose e defragranti bombarde britanniche. Ripiegando in ritirata i Balestrieri furono travolti dalla cavalleria stessa mentre fuggiva spaventata per quegli spaventosi e sconosciuti boati.
E’ nella battaglia di Agincourt nel 1415 che apparve il saluto a “due dita”. I francesi, con la loro superiorità numerica, prevedevano una facile vittoria.
Il consiglio di guerra emanò una direttiva in base alla quale ad ogni arciere inglese fatto prigioniero sarebbe stato tagliato il dito indice e medio poiché queste erano le dita necessarie per tirare indietro la corda.
Purtroppo per i Francesi ad Agincourt gli eventi non si svolsero come sperato ma ci fu invece una decisiva vittoria inglese.
Da qui deriva il gesto denigratorio, non a caso tipico dei paesi anglosassoni, del dito medio e indice alzati con il dorso della mano rivolto all’offeso. Era questo infatti il gesto (con due dita e non con una) che gli arcieri inglesi non catturati dai francesi, mostravano agli avversari prima di ogni battaglia, la classica “V” usata ancora oggi dagli inglesi a mo’ di offesa, da non confondersi con la “V” di “vittoria”, resa celebre da Winston Churchill, in cui a essere rivolto verso l’esterno è il palmo della mano e non il dorso.
Dopo la battaglia, e in quelle successive, gli arcieri inglesi con le loro dita intatte salutavano in questo modo i francesi. Il gesto era sia un insulto che un monito. Si voleva così ricordare ai francesi che le due dita dell’arciere erano rimaste intatte e che era ancora un avversario da non sottovalutare.
In Copertina: Immagine tratta dal sito A.S.D Compagnia Arcieri Elimi.