La trippa alla genovese

Diffusa da nord a sud la trippa è un piatto povero comune un po’ a tutte le regioni d’Italia: basti pensare, solo per citare le prime che vengono in mente, alle trippe in brodo del Veneto, alla Busécca dell’Emilia e della Lombardia, alla versione romana o napoletana di Lazio e Campania, al morzeddhu calabrese, o al celeberrimo Lampredotto della Toscana.

A Genova sono sette i tagli tradizionali della trippa. Cinque si ricavano dall’apparato digerente vero e proprio: cordone o redaggiun (rumine), cuffia (reticolo), centopelle (omaso), gruppu (abomaso) e gola (è l’esofago). Due, invece, sono a questo adiacenti, castagnetta (vagina) e riccetto (tube di Falloppio).

Si tratta di frattaglie, ricavate dal quinto, quarto, ovvero il taglio meno nobile, ma non per questo meno gustoso, del bovino.

Trippa in insalata con olio, limone e pepe. Foto e preparazione di Cristina Campus.

La trippa, la cui tipologia più diffusa e apprezzata è senza dubbio la centopelle, occupa dunque un posto di rilievo nella tradizione popolare nostrana.

La sua presenza sulle nostre tavole è persino certificata almeno dal 1479 quando la sbira, il brodo che se ne ricavava, costituiva l’ultimo pasto destinato ai condannati a morte.

Dentro quello stesso brodo sapido e nutriente i camalli e i manovali in genere vi inzuppavano micche di pane o slerfe di focaccia a colazione.

Un tempo non v’era quartiere, caruggio o mercato rionale in cui non fossero presenti le tripperie.

Nei miei ricordi di bambino nei primi anni ’80 del secolo scorso, addirittura l’intera ala lato via Colombo del Mercato Orientale era a loro dedicata.

Un odore forte, inconfondibile, per taluni stomachevole, emanava da quei corridoi, foriero di sapori decisi e pietanze veraci.

Oggi purtroppo questi negozi sono scomparsi sopraffatti dalla globalizzazione e sconfitti dalla scarsa domanda in un’epoca, la nostra, che corre veloce verso il pronto, presto e veloce. I tempi di cottura prolungati, il mutare dei gusti e l’attenzione agli aspetti salutistici indirizzano adesso il consumatore verso altre scelte.

Cappa, piastrelle, pavimento e paioli della cucina dell’antica tripperia la Casana dal 1890”. Foto di Leti Gagge.

Eppure la trippa ha un alto contenuto di proteine e ferro, ma pochi grassi, non contiene glucidi e fibre, ma molte vitamine del gruppo B. Insomma, nonostante la cattiva reputazione va benissimo anche per chi ha problemi di colesterolo e non fa, se non si esagera nel condimento, ingrassare.

Pian piano così nei banconi delle macellerie le trippe da protagoniste indiscusse sono state relegate al ruolo di comparse.

Quasi tutti i supermercati ne offrono una versione precotta, certo più comoda e pratica da cucinare ma, per renderla più gradevole alla vista, sbiancata con acqua ossigenata.

Prima di elaborarla è bene quindi lavarla con cura onde evitare quel fastidioso retrogusto chimico tipo ammoniaca che rischia di comprometterne il sapore.

Restano eroico presidio l’antica Tripperia la Casana nell’omonimo vicolo sotto Piazza De Ferrari, Tripperia Mario in via Torti e pochi altri avamposti, coraggiosi custodi della tradizione.

Anch’essi, per sopravvivere, si sono comunque adeguati al mercato e la propongono già cucinata e pronta al consumo da asporto.

La trippa si condisce in insalata con olio limone e pepe e qualora ne avanzasse si può anche consumare fritta all’indomani.

Tuttavia la preparazione più diffusa è quella in umido alla “genovese” accomodata con patate e fagiolane, sia con pomodoro che senza, profumata di pepe nero e spolverata di abbondante parmigiano.

Ricetta tratta da La cuciniera genovese, con sottotitolo La Vera Maniera di cucinare alla genovese, di G.B Ratto del 1863”. L’immagine della foto è ovviamente una recente ristampa.

Al fine di gustarla al meglio è consigliabile munirsi di una generosa porzione di pane da intingere nell’irresistibile sugo.

Nell’antica Cucineria del Ratto viene proposta nella versione “trippa all’antica”, accomodata con pinoli e funghi secchi.

La trippa non conosce compromessi o si apprezza o si detesta, non ci sono mezze misure.

Se Giuseppe Verdi è risaputo, ne era ghiotto, Friedrich Nietzsche non è stato certo da meno:

“La cucina genovese è fatta per me. Lo credereste che da 5 mesi ormai ho mangiato trippa quasi ogni giorno? Tra tutte le carni è la più digeribile e la più leggera, e costa meno; mi fa bene anche ogni genere di pescetti, che trovo nei locali popolari. Ma niente risotto e niente maccheroni finora!”

Cit. Friedrich Nietsche (1844-1900) filosofo tedesco.

Piazzetta Tavarone

Nelle adiacenze di Piazza San Matteo si trova piazzetta Tavarone.

Qui si può notare il retro di un palazzo accorpato alla proprietà di palazzo Lamba Doria.

Sono ancora visibili brani di affreschi che decoravano i prospetti dell’edificio su tutti i lati (affacciati anche su vico Isola e vico San Matteo).

La graziosa piazzetta deve il suo nome alla famiglia di artisti il cui più celebre esponente fu quel Lazzaro che, discepolo di Luca Cambiaso, decorò l’Escorial di Madrid e diversi nobili palazzi genovesi.

Fra i tanti capolavori del maestro i due più noti e cari ai suoi concittadini sono “L’ultima Cena” collocata nella cattedrale di San Lorenzo e l’inconfondibile San Giorgio che uccide il drago che decora il prospetto a mare dell’omonimo palazzo.

In Copertina: Piazzetta Tavarone. Foto di Antonio Corrado.

Chiamatela Panélla…

La castagna ha rappresentato per secoli la principale fonte di sostentamento dei Liguri dell’entroterra.

I boschi del nostro Appennino ne sono infatti, nelle annate buone, generosi dispensatori.

Ed è così che le castagne oltre ad essere consumate in ogni modo, accompagnate al miele, bollite (balletti), cotte nel latte, arrostite (rostie) sulla stufa o essiccate all’aria, in marmellata, trasformate in farina costituiscono la componente per eccellenza delle paste “avvantaggiate” quando il grano era un lusso ad appannaggio di pochi ed andava oculatamente dosato.

Ma la preparazione più diffusa e gustosa rimane quella del, come lo chiamano in Toscana, castagnaccio, di cui una primitiva ricetta fu già annotata nel ‘500 da un padre agostianiano.

Secondo quanto tramandato nel Commentario delle più notabili et mostruose cose d’Italia e di altri luoghi, di Ortensio Landi (Venetia, 1553) pare che l’inventore del castagnaccio sia stato un lucchese tale “Pilade da Lucca”, che fu “il primo che facesse castagnazzi e di questo ne riportò loda”.
Nel 1644 anche l’esperto culinario, il marchese Vincenzo Tanara nel suo “L’Economa del cittadino in villa “, si dilungò nel disquisire dei “castagnazzi”.

Descrivendone varianti oggi impensabili, che prevedevano l’aggiunta di grana grattugiato o di cacio grasso e tenero, l’agronomo bolognese testimonia come il castagnaccio fosse inizialmente una vivanda più che dolce, salata.

La panella pronta per essere infornata. Foto e preparazione dell’autore.

Il composto cosi ottenuto dalla miscelazione di acqua (in alcune ricette latte), olio di oliva e farina di castagne fu arricchito nel ‘800 da pinoli e uvetta con lo zucchero in sostituzione del miele.

Si cucina, oltre che in Toscana, anche in Liguria, Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia, Umbria, Lazio e nel sud, in Campania.

A seconda della regione mutano i nomi, alcuni ingredienti e relativi dosaggi ma la sostanza del piatto non cambia.

Fette di castagnaccio. Foto dell’autore.

In Liguria il castagnaccio si chiama Panélla (a Genova anche torta castagnina o castagnàsso) come la preparazione delle frittelle di ceci siciliane con la quale non va però confusa.

Il castagnaccio ligure – la panélla appunto -differisce dalla versione toscana per l’utilizzo di semi di finocchio e per l’aggiunta di scorza di mandarino o limone.

Comune a tutte le interpretazioni invece è la presenza degli aghi di rosmarino interi o tritati che, secondo la tradizione popolare, fungerebbero da vera e propria pozione amorosa.

Offerto all’uomo o alla donna di cui si è invaghiti si avrebbe dunque la certezza di essere ricambiati.

In Copertina: Panella. Il Campanile delle Vigne vigila sul castagnaccio ligure. Foto dell’autore.

I Presepi di mare

A Genova, si sa, la tradizione del presepe è molto sentita. Non esiste chiesa, oratorio o santuario che non ne realizzi uno proprio.

Oltre a quelli storici della scuola settecentesca esistono poi delle originali e spontanee rappresentazioni di ambientazione marina come quelli, ad esempio, di Boccadasse e Vernazzola.

Il presepe di Vernazzola. Foto di Alex Flyer.

I due borghi di pescatori divisi da Capo di S Chiara propongono i loro scenografici allestimenti: Boccadasse all’interno di un tradizionale gozzo e Vernazzola in una lussureggiante cornice floreale tra cordami e gomene.

La Grande Bellezza…

In copertina: Il Presepe di Boccadasse. Foto di Maria Beatrice.

Lei è tutto

“È lì, eretta come una matrona: albero maestro tra gli alberi maestri, torre tra le torri, campanile tra i campanili; pronta ad essere tutto per ognuno di noi.”

Cit. Vito Elio Petrucci (1923 – 2002). Poeta, giornalista, scrittore, commediografo.

In Copertina: La Lanterna di Genova. Foto di Lino Cannizzaro.

Piazza Lavagna

Negli ultimi anni questo angolo di centro storico ha avuto una vera e propria rinascita.

Le botteghe artigiane che un tempo caratterizzavano la contrada non ci sono più e nemmeno le storiche osterie ma la zona non ha certo perso il suo fascino.

Oggi in Piazza Lavagna si affacciano locali, trattorie e ristorantini che portano avanti il culto della cucina ligure cercando di conciliare nei loro menù tradizione ed esigenze turistiche.

La suggestiva piazza sita nei dintorni della Maddalena deve il proprio nome alla famiglia Lavagna, originaria appunto, della località rivierasca di levante.

Qui Filippo da Lavagna nel 1469 fu uno dei primi artigiani italiani ad impiantare un tipografia.

In Copertina: Piazza Lavagna. Foto di Giovanni Cogorno.

Salita del Prione

Varcati Porta Soprana e piano di S. Andrea per giungere in Piazza delle Erbe si percorre in discesa salita del Prione.

Per i vecchi genovesi ancora fino agli anni ’70 del ‘900 questa zona era assimilabile al mercatino di piazza S. Elena, ovvero il luogo dove si vendevano merci di recupero.

Si riciclavano abiti, scarpe, piccolo mobilio, merci di contrabbando e, soprattutto, cimeli e divise militari della Seconda Guerra Mondiale.

Prima ancora negli anni ’50 sempre del secolo scorso a caratterizzare la contrada erano invece le numerose case di tolleranza che vi avevano sede.

Oggi il caruggio ha cambiato volto ed è popolato da bar, pub e locali che costituiscono ormai parte integrante della Movida notturna celebrata ogni fine settimana alle Erbe.

Salita del Prione ha una storia antichissima intorno alla quale, per spiegarne il toponimo, sono fiorite un paio di plausibili ipotesi:

la prima rimanda al termine Priön, una pietra posta in cima alla salita utilizzata dal cintraco (banditore) come piedistallo per i suoi proclami;

la seconda si rifà invece al termine latino barbaro Predoni Castri a significare, vista la vicinanza con una delle principali porte cittadine Porta Soprana, la pericolosità del luogo in relazione alla presenza dei briganti.

Di certo nelle mappe medievali la via era indicata come Montata (Montâ in genovese significa salita) Predoni.

In Copertina: scorcio floreale di Salita del Prione. Foto di Stefano Eloggi.

Vico delle Monachette

Tra Via Prè Via Balbi “nei quartieri dove il sole del buon Dio non da i suoi raggi..”, si trova Vico delle Monachette, il caruggio più stretto della Superba, appena settantanove centimetri di larghezza nel suo punto, lato Prè, più stretto.

In un’anonima abitazione di questo piccolo vicolo nel 1857 trovò rifugio, ricercato dalla polizia sabauda, Giuseppe Mazzini che si trovava in città per organizzare un’insurrezione.

In Copertina: Vico delle Monachette. Foto di Giovanni Cogorno.

Piazza delle Vigne

La zona dove sorge la Basilica delle Vigne nelle mappe medievali è indicata come Vigne del Re o di Sussilia e anticamente era stata sede di un cimitero paleocristiano.

Oltre alla millenaria basilica che si intuisce sulla destra con la sua facciata neoclassica, protagonisti della piazza sono il cinquecentesco palazzo di Domenico Grillo di cui si intravede il portone al civ. n 4 e, soprattutto, i superbi affreschi di Giovanni Battista Castello che decorano al civ. n. 6 la sfarzosa dimora di Agostino Doria.

In Copertina: Piazza delle Vigne. Foto di Giovanni Cogorno.

La mano pubblica

Sotto la statua dell’arrotino in San Lorenzo, in vico san Pietro della Porta e in Piazza della Posta Vecchia sui muri perimetrali di alcuni edifici sono scolpite delle curiose braccia a mano aperta.

Probabilmente tale singolare incisione stava ad indicare che quelle costruzioni, come segnalato dallo scudo con la croce di San Giorgio, appartenevano alla Repubblica, quindi proprietà di tutti.

Particolarmente evidenti quelle site all’angolo tra via e piazza della Posta Vecchia sotto le quali si distinguono due Agnus Dei in pietra con stemmi nobiliari abrasi.

In questo contesto segnavano il confine con i possedimenti della famiglia Spinola.

In Copertina: Piazza della Posta Vecchia. Foto di Stefano Eloggi.