Focaccette e focaccia di patate

Per me la focaccetta di patate è legata al ricordo dei nonni, polceveraschi doc, di mia moglie.

Circa trent’anni fa infatti quando eravamo ancora fidanzati rammento che alla domenica sera sovente mi fermavo ospite a cena nella loro casa sul rio Ciliegio di Trasta.

Indimenticabile il profumo delle focaccette impastate da nonna Luigina il cui invitante aroma si diffondeva nella stanza durante il pasto.

Perché si nelle casa dei nonni non c’erano “squesgi” o formalità si cenava insieme sullo stesso tavolo della cucina, dove poche ore prima si era impastato sulla madia i taglierini per pranzo, accanto alla stufa.

Ho detto focaccette e non focaccia perché a differenza di quest’ultima le prime erano lievitate e fritte singolarmente.

La focaccia invece era un grande impasto unico cotto nel forno dal quale ricavare le singole porzioni da servire al posto del pane. Soffici le focaccette, morbida e alta la focaccia.

Io preferivo, seppure il gusto fosse simile, quest’ultima versione più leggera perché facilitava la convivialità dello stare insieme e la condivisione.

E così nonno Valle mentre aspettava la sua fetta riempiva i bicchieri, quei gotti spessi da osteria, di croatina quel vino rosso rubino dal gusto sincero dal cui vitigno si ricava anche la più nobile bonarda.

Focaccia di patate. Foto e preparazione dell’autore.

Le focaccette e la focaccia di patate erano accompagnate a formaggi e affettati ma il modo in cui preferivo gustarle era con la mostardella, il salume tipico della zona.

Mostardella così cruda, tagliata come un qualsiasi salame o, più spesso cotta a fette spesse direttamente sulla ciappa della stufa a legna, da sola o in aggiunta alle uova appena colte dal pollaio.

Cibi semplici e rustici della tradizione che come les madeleines della zia di Proust nella sua “À la recherche du temps perdu”, si legano indissolubilmente ai ricordi più profondi ed hanno la capacità di suscitare le emozioni più intime.

Ricetta Focaccette:

  • 500 gr farina Manitoba
  • 200 gr patate
  • 1 cubetto di lievito di birra
  • 150 gr latte tiepido
  • 100 gr acqua tiepida
  • 3 cucchiai di olio evo
  • 2 cucchiaini di zucchero
  • 2 cucchiaini di sale fino
  • Olio per friggere mono seme

Ricetta Focaccia:

  • 300 gr. di farina di grano duro
  • 200 gr. di farina tipo 00
  • 200 gr. di patate
  • 300 ml. di acqua
  • 50 gr. di olio evo
  • 15 gr. di sale
  • 12 gr. di lievito di birra fresco o 3,5 gr. di lievito per preparazioni salate.

Vico Colalanza

Vico Colalanza è un antico caruggio che si trova nel cuore della città vecchia.

Il suggestivo vico deve l’origine del suo toponimo al nome dell’omonima famiglia legata agli Spinola che qui nel Medioevo aveva i propri possedimenti.

Situato tra le Vigne e San Luca a pochi metri della Galleria Nazionale, frequentata dai turisti, di Palazzo Spinola in Pellicceria, il vicolo versa nel totale degrado: spaccio, prostituzione e liti sono purtroppo all’ordine del giorno.

Recentemente infatti è balzato ai nefasti onori della cronaca proprio per via di un barbaro omicidio avvenuto la notte tra l’uno e il due novembre nei pressi dell’archivolto De Franchi all’incrocio con Vico Mele e Vico del Pomino.

Qui un cittadino di origine peruviana reo di aver alzato il tono alto della voce durante una discussione, è stato trafitto – come in pieno Medioevo – da una micidiale freccia di balestra scagliata dal suo assassino.

“Non te l’hanno insegnato
che le frecce dei vigliacchi son sempre spuntate?”
(Omero, Iliade)

Purtroppo l’eccezione conferma la regola si ma il grande cantore greco ha avuto torto.

Mala tempora currunt!

In Copertina: Vico Colalanza. Foto di Stefano Eloggi.

S. Orsola

Il caruggio di S. Orsola è tutto quel che rimane in ricordo di un antico oratorio sito nelle vicinanze intitolato ai santi Gregorio e Orsola.

L’edificio religioso che si trovava in Piazza Leccavela fu demolito nel 1810 in seguito alla soppressione degli ordini religiosi sancita dagli editti napoleonici.

Al suo posto, circa quarant’anni più tardi, vennero installati dei lavatoi pubblici che restarono in uso fino al dopoguerra.

Purtroppo, come uso comune, i muri sono imbrattati dai soliti, più che graffiti artists, ignoranti.

In Copertina: Vico S. Orsola. Foto di Stefano Eloggi.

Il Portale di Santa Zita

Le chiese di Santa Zita, di Borgo Incrociati e di Santa Croce in origine erano il luogo di culto della comunità lucchese a Genova.

Nell’antico quartiere medievale di Borgo Pila fino al 1278 infatti, per volere dei mercanti e tessitori toscani, si trovava il tempio intitolato al Volto Santo, simulacro assai venerato a Lucca.

Dopo tale data la chiesa venne dedicata alla martire loro concittadina Zita e diventò punto di riferimento per gli abitanti della zona del Bisagno.

Nel ‘400 poi l’edificio fu gravemente danneggiato da una piena del fiume e, demolito, successivamente ricostruito.

Alla fine del’800 la chiesa, di dimensioni insufficienti per accogliere i fedeli, venne ancora atterrata.

Così nel 1893, grazie alla donazione di un terreno adiacente da parte della Duchessa di Galliera, in quella che a quel tempo era via Minerva, oggi Corso Buenos Aires, venne riedificata nelle attuali forme neo rinascimentali in stile fiorentino.

Della chiesa quattrocentesca rimangono una statua della Madonna di Città, una tela di Valerio Castello con il Miracolo di santa Zita e il portale della vecchia chiesa.

Quest’ultimo è stato collocato nella parte posteriore della chiesa lato via Santa Zita: sul suo architrave reca tre statue (un Crocifisso con ai lati la Madonna e san Giovanni Battista), provenienti da un altare scomparso; sono tutte e tre opera del maestro Giovanni Antonio Paracca (XVI secolo), noto anche come il Valsoldo.

In Copertina: il Portale originario di Santa Zita. Foto dell’autore.

Vico superiore di Santa Sabina.

La zona di Santa Sabina prende il nome dall’antichissima chiesa dei santi Vittore e Sabina fondata nel VI secolo.

Nella piazza infatti sorgeva l’omonima chiesa sconsacrata nel 1931 e poi demolita nel 1939 per fare spazio ad un cinema.

Al posto di quest’ultimo, anch’esso abbattuto, una moderna quanto orripilante (visto il contesto) costruzione di vetro e cemento sede di una filiale della banca Carige.

In Vico superiore di Santa Sabina rimane una malinconica edicola votiva vuota.

La semplice nicchia in stucco infatti è priva sia della statua della Vergine che del relativo cartiglio.

Il tempietto è incorniciato da volute a riccioli con quattro teste di cherubini alati.

In Copertina: Vico superiore di Santa Sabina. Foto di Alessandra Illiberi Anna Stella.

Vico Albardieri

Vico Alabardieri prende il nome dalla presenza in loco nel Medioevo di un acquartieramento di tale corpo militare.

Nel basso medioevo i labardê erano uomini d’arme al servizio della Repubblica di Genova e il loro quartiere era infatti nel sestiere del Molo, in vico Alabardieri, tra vico Vegetti e via Mascherona.

Gli alabardieri erano dunque soldati così chiamati per via della particolare arma di cui erano dotati.

Costoro infatti si distinguevano per il singolare tipo di lancia a due punte, una dritta e una ricurva, con su un lato un’affilata scure.

A utilizzare l’alabarda per primi furono nel ‘400 i fanti mercenari svizzeri.

Nei secoli successivi l’esercito degli alabardieri divenne il caratteristico corpo delle guardie di palazzo.

Tuttora l’alabarda, oltre che essere impiegata come accessorio delle uniformi da parata o durante le sfilate storiche, è l’arma distintiva delle guardie svizzere del Papa.

Guarda caso fu un papa genovese Giulio II, al secolo Giuliano Della Rovere (Albisola 1443-Roma 1513) ideatore dei Musei Vaticani, ad introdurre per primo gli alabardieri svizzeri nel suo territorio.

Il 22 gennaio 1506 infatti, un gruppo di 150 mercenari elvetici al comando del capitano Kaspar von Silenen, del Canton d’Uri, attraversando porta del Popolo entrò nello Stato Pontificio per servire papa Giulio II.

A Genova ancora nel ‘700 un manipolo costituito da sei, otto alabardieri aveva il compito di scortare il Pretore, nello svolgimento delle sue mansioni durante gli spostamenti in città e di custodia nella sua abitazione.

In Copertina: Vico Alabardieri. Foto di Stefano Eloggi.

Il Provinciale racconta Genova

In data 13/11/2022 è andata in onda sulla Rai la puntata de “Il Provinciale” condotta dal genovese Federico Quaranta.

Forse proprio perché pensata da un genovese la trasmissione mi è piaciuta ed è riuscita nel suo intento di emozionare il telespettatore.

A differenza infatti dei precedenti tentativi di Alberto Angela e Corrado Augias che mi avevano abbastanza deluso, il Provinciale ha invece colto nel segno.

Al di là delle spettacolari immagini riprese con i droni e accompagnate dalle note di De André, la scelta vincente a mio parere è stata quella di partire dal filo conduttore della verticalità come strumento per decodificare l’essenza della Superba e l’animo dei suoi abitanti.

Raccontare Genova per conoscerla per davvero vuol dire necessariamente fare un viaggio nell’anima verso il Paradiso passando per il Purgatorio dei caruggi.

Quale miglior virgiliana guida può esserci dunque in quest’ardita impresa della poesia?

“Ecco Guardala qui, questa città, la mia: | È in riva al Tejo che io cerco Campetto, | Nel Bairro Alto ho trovato Castelletto, | O un Cable Car su in Vico Zaccaria: | Vedilo, il mondo: in Genova è raccolto | A replicarne un po’ la psiche e il volto“. Versi di Edoardo Sanguineti.

Eccola allora la Genova verticale di funicolari e cremagliere, come descritta nei versi di Caproni in continua tensione fra il monte e il mare, tenuti ostinatamente insieme da quelle millenarie creuze de ma, le mulattiere di mare cantate da De André, memoria perenne di sacrificio, lavoro e fatica.

Quegli stessi sentieri di pietra che raccordati da scale infinite che in Montale diventano metafora di sofferenza e tenacia.

Senza questa presa di coscienza non si possono comprendere né il cinico pragmatismo né l’atavica diffidenza di un popolo che nei millenni, con la sua stessa fiera esistenza, ha sfidato il mondo.

Una città da vivere dunque, da respirare e da scoprire in continuo curioso cammino. Sempre con lo sguardo rivolto all’insù nel ventre più intimo dei suoi caruggi, o fisso all’orizzonte negli sconfinati panorami dei forti che, della regina del mare, sono corona.

Solo così si spiega una città mai doma, patria di comici, poeti, cantanti e navigatori si, ma anche di marinai, pescatori, contadini e mercanti.

Una Genova che nei suoi vicoli angusti, alla faccia della sua presunta inospitalità, da asilo agli ultimi, ai reietti, a tutta quella variegata umanità cantata da Faber e assistita da Don Gallo, scoprendosi invece solidale.

Una città dell’anima incastonata nella pietra fatta di panorami mozzafiato:

dai celeberrimi porticcioli e scogliere sul mare come Nervi o Boccadasse agli arcigni monti come il Beigua con il suo parco patrimonio UNESCO o il Monte Moro con i suoi orizzonti infiniti.

Da S. Ilario si scende al lungomare di Capolungo dove Mauro Pagani, leader della Pfm e collaboratore di De André, afferma: “Speriamo che l’amore per il bello ci travolga”…

Secondo me da sempre a Genova siamo travolti da una mareggiata continua di grande bellezza… ma a volte ce ne dimentichiamo!

“Ecco Guardala qui, questa città, la mia

Vedilo, il mondo: in Genova è raccolto | A replicarne un po’ la psiche e il volto.

In Copertina: Panorama genovese. Foto di Anna Armenise.

Per vedere la puntata del Provinciale cliccate sul sottostante link:

https://www.raiplay.it/video/2022/11/Il-Provinciale-Genova-13112022-e8084dc5-326f-4501-b7ce-bced80eb954e.html

Frittelle di San Giuseppe

Il 19 marzo si celebra San Giuseppe festa per la quale, in piena quaresima, si permise di derogare al divieto di “peccare di gola”.

Vista l’importanza del santo si decise infatti, nonostante fossero vietati i cibi preparati con grassi animali, di fare un’eccezione per il patrono dei falegnami.

A San Gioxeppe, se ti peu, impi a poela de friscieu!

A san Giuseppe, se puoi, riempi la padella di frittelle!

Così ancora fino a fine ‘800 nel centro storico di Genova e nelle attigue delegazioni, questi artigiani preparavano, cotte nello strutto, le golose frittelle e le offrivano ai passanti: nacquero in questo modo i frisceu co’ zebìbbo (frittelle con l’uvetta)

A tale generosa offerta era però legato un simpatico scherzo. Nel mucchio delle frittelle infatti ne era presente una farcita con l’ovatta. Al malcapitato di turno che l’avesse trovata sarebbe toccato, tra gli sfottò dei presenti offrire da bere a tutti gli astanti.

Sòn lì in ta poela a frizze ‘sti friscêu, e
Sono lì in padella a friggere queste frittelle, e

gallezzan che pan tanti gossetti, e

   galleggiano che sembrano tanti piccoli gozzi,

e piggian ò sêu cô còmme se vêu,

   e prendono il loro colore come si vuole,
s’inscian còmme tanti pollastretti; e

   si gonfiano come tanti pollastrelli; e

ghe n’è de meì, d’ûghetta, de pignêu,

   ce ne sono di mele, d’uvetta, di pinoli e

d’erbe retaggiae còmme fremetti, e

   di erbe ritagliate come nastrini,

e a tutti quanti, zòveni e figgiêu,

   e a tutti, giovani e fanciulli,

ghe piaxan còmme fössan di öxelletti.

   piacciono come fossero degli uccelletti.

Se sòn ben brustulii e ben levae,

   se sono ben cotte e ben lievitate,

sòn sciocchi sciocchi e légi e appetitosi

   sono soffici soffici e leggeri e appetitosi

e in te quattro e quatt’êutto ve i sbaffae;

   e in quattro e quattr’otto ve li sbafate;

ma bezêugna che l’éuio ò segge bòn,

   ma bisogna che l’olio sia buono,

e se sòn cädi ciù ve pan gûstosi,

   e se sono calde vi sembrano più gustose,

còmme a fainâ, i bacilli e ò menestròn.

   come la farinata, i bacilli (legumi simili alle fave) e il minestrone.

                                            Filippo Angelo Castello (1867-1941)

Ricetta:

250 gr. di acqua 4 uova 75 gr. di burro 100 gr. di zucchero 800 gr. di farina una grattata di limone 250 gr. di latte 25 gr. di lievito di birra un cucchiaino di rum 150 gr. di uvetta 1/2 cucchiaino di sale cannella in polvere.

Foto e preparazione dell’autore.

Via del Portello

Entrando in via Garibaldi dal lato di Piazza Fontane Marose il primo vicolo che si incontra sulla destra è via del Portello.

L’elegante caruggio collega via Garibaldi con l’omonima piazza del Portello – appunto – così chiamata per via della presenza di una porta della cinta muraria del XII secolo.

Tale varco venne demolito nel 1855 insieme al vicino Conservatorio delle Interiane a seguito della nuova configurazione urbana che prevedeva significative modifiche alla viabilità.

In via del Portello al civ. n.2 di lato al celebre palazzo Lercari si trova uno dei templi dell’ars dolciaria genovese, ovvero l’antica Pasticceria Domenico Villa, dal 1968 di Profumo, fondata nel 1827.

“L’irresistibile assortimento della pasticceria D. Villa, oggi Profumo, in Via del Portello”. Foto di Leti Gagge.

Oltre che per l’indiscussa qualità dei prodotti offerti il locale merita una visita per ammirarne gli arredi e il pavimento marmoreo ancora originali della seconda metà del XIX secolo.

Un’esperienza a tutto tondo che coinvolge oltre che il gusto e la vista, l’olfatto inebriato dai – è il caso di dirlo – profumi provenienti dal caruggio.

In Copertina: Via del Portello. Foto di Stefano Eloggi.

Vico delle Fasciuole

Il vico delle Fasciuole collega la zona di San Siro con vico Droghieri nel cuore del sestiere della Maddalena.

Curiosa l’origine del toponimo che, a testimonianza della primitiva vocazione agreste della contrada, rimanda al termine fasce con il quale si indicano in Liguria gli appezzamenti di terreno a terrazza.

Il poco noto caruggio si distingue per il prezioso portale del civ. n. 14.

Si tratta del cinquecentesco sovrapporta in pietra nera che adorna il palazzo di Domenico Pallavicino come testimoniato da un’epigrafe ormai illeggibile posta sotto il poggiolo di sinistra dalla quale emergono i nomi di Dominici Pallavicini e Josephi Berbardini.

Sulle colonne medaglioni imperiali, sulla trabeazione motivi floreali, quattro piccoli draghi, due coppe con corona ai lati di uno scudo, impreziosiscono il portale.

In Copertina: Vico delle Fasciuole. Foto di Giovanni Cogorno.