Diario di un Capitano spagnolo…

“Se la qual cosa con gli occhi non l’avessi veduta, giammai l’avrei creduta”…
“Il 15 di Maggio del 1547, allorquando stavamo bordeggiando la Corsica ed eravamo ormai in vista delle Bocche (di Bonifacio), fummo assaliti da alcune imbarcazioni corsare, probabilmente al soldo della Francia… non avemmo nemmeno il tempo di organizzarci che ci furono addosso ed eravamo ormai preparati al peggio quando voci gridarono: “Presto scappiamo mettiamoci in salvo arrivano i Genovesi… guardai l’orizzonte e vidi apparire dieci galee rosse fuoco, in assetto da guerra sventolanti la Croce di S.Giorgio.
Se la qual cosa con gli occhi non l’avessi veduta, giammai l’avrei creduta… con movimento  lesto e coordinato accerchiarono i vascelli ed iniziarono gran strage dei fuorilegge.
Alcune galee si misero all’inseguimento dei navigli fuggitivi, la Capitana si accostò alla nostra… con tono cortese ma perentorio il Capitano si qualificò come Comandante e disse: “…nel nome di S. Giorgio e della Repubblica, come da accordi con il vostro Re Carlo V, vi scorto al Porto più vicino.
Giunti al porto di Bonifacio ricevemmo ogni soccorso ed assistemmo di persona al rientro delle galee con al seguito i vascelli pirata ed i loro equipaggi.
…ora capisco perché i Genovesi sono i Signori del Mare e non esiste alcuna marineria turca, veneziana, francese o aragonese che possa lontanamente esser loro paragonata.

Capitano Guillermo Mendoza.
 
La reputazione della marineria genovese nel ‘500 era tale da rendere plausibile questo racconto frutto della mia fantasia.
 
In copertina fedele riproduzione in scala 1:1 di galea genovese conservata presso il Museo Galata di Genova.
 
Galea ligure. Carta del 1585. Musei Vaticani. Rappresenta la Capitana di Andrea Doria. Lui è seduto sul cassero con in mano il tridente di Nettuno. Il vessillo è quello imperiale

Carattere genovese…

Alcuni tratti del carattere genovese si sono plasmati nel corso dei secoli, scolpiti nella pietra, modellati dal vento e intrisi di mare.
Chi meglio degli “illustri foresti” che nel tempo hanno avuto modo di conoscere la nostra pragmatica rudezza, può descrivere queste peculiarità?
“I tiranni sono levati al potere a voce di popolo e per la sua volontà,
ma senza alcuna giustificazione legale.
Infatti di solito avviene che quando un gruppo politico prevale sull’altro,
allora quelli che ne fanno parte, inorgogliti dal successo, si mettono a gridare – Viva il tale, Viva il tale, muoia il tal altro.
E quindi eleggono uno tra essi e uccidono, se non riesce a fuggire, chi prima comandava.”
Così scriveva, a proposito del nostro concetto di governo, nei suoi resoconti il Maresciallo di Francia e Governatore di Genova Jean Le Meingre.
Questi, meglio noto come Boucicault fu, fra l’altro, promotore del Banco di S.Giorgio
nella sua moderna veste bancaria.

L’antichissima cerimonia del Confeugo…

… ha origine agli inizi del ‘300 e nasce per omaggiare il Podestà  prima, il Capitano poi e infine il Doge.
Consiste in un corteo che partiva dalla zona di Porta Romana (Borgo Incrociati) dove l’ Abate del Popolo uscente lasciava a quello entrante la carica e i problemi simboleggiati da nastri bianco rossi (i colori di S. Giorgio) con i quali si adornava un grosso ceppo di alloro (il Confeugo).
L’Abate ora si recava in processione a Palazzo Ducale, dove scambiati i saluti e i doni di rito con il Doge, partecipava insieme all’Arcivescovo al banchetto.

Il Confeugo veniva poi acceso e spento con una brocca di zucchero, vino e confetti.
La fumata che ne conseguiva, a seconda che fosse dritta o storta, veniva interpretata positivamente o meno in relazione ai problemi da risolvere (i nastrini rossi).
La popolazione si contendeva i resti perché, si diceva, avessero proprietà magiche e portassero fortuna.
Questo, spesso causava risse e disordine pubblico, quindi venne stabilito di bruciare più ceppi per distribuirlo equamente a tutti.
La cerimonia natalizia genovese venne abolita dai francesi nel ‘500 e da Napoleone nell’ 800… ma sempre ripristinata.
Oggi il Sindaco e il Priore della Compagna rappresentano Doge e Abate.
Oltre al valore culturale e storico il Confeugo simboleggia l’unione della città in tutte le sue componenti:
Il Doge, il governo borghese o aristocratico e mercantile (a seconda dei contesti) l’Abate, il Popolo artigiano, contadino e operaio, infine l’Arcivescovo, silenzioso e onnipresente, il potere ecclesiastico.

 

“Emmo za daeto!”…

la storia dell’espressione che ci rende ancor oggi orgogliosi…
Così risposero i delegati genovesi, per bocca di Oberto Spinola, convocati insieme agli altri rappresentanti italici alla Dieta di Roncaglia del 1158, alle richieste del Barbarossa.
Questi infatti, pretendeva omaggi e tributi per convalidare quanto già concesso dai suoi predecessori, l’autonomia della Repubblica, per altro
riconosciuta già nel 958 da Adalberto in quanto situazione di fatto.

"Delegati milanesi ossequiano Federico Barbarossa".
“Delegati milanesi ossequiano Federico Barbarossa”.

Queste le parole che pronunciò Oberto: “Bene hanno fatto gli altri ad accettare le tue imposizioni.

I Genovesi, con tutto il rispetto dovuto, non si sentono legati da obblighi così fatti e possono darne ragione.

Da tempi remoti gli imperatori romani concessero agli abitanti di Genova il privilegio di essere liberi da ogni contribuzione e che verso l’Impero avessero il solo obbligo della fedeltà e della difesa dei mari dai Barbari, altre pretese non possono essere imposte loro in nessun modo.
I Genovesi da Roma a Barcellona hanno adempiuto ai loro doveri ricacciando i Barbari dal litorale in modo che tutti possano dormire tranquilli e dedicarsi al fico e alla vigna.
Per questo motivo per nessuna ragione può esser loro richiesto ciò a cui non sono tenuti.
Inoltre, a differenza delle altre popolazioni italiche che devono il loro benessere dalla terra, i Genovesi traggono la loro ricchezza dal mare e dai traffici commerciali, attività sulle quali l’Impero non ha alcuna giurisdizione”.

“Emmo za daeto!”

“Abbiamo già dato!”

Storia della Settima…

… di una flotta a perdita d’occhio… di un Re… di un Sultano ingegnoso … e di Balestrieri coraggiosi… anche nella sconfitta…
Nel 1248 salpa da Aigues Mortes in Francia la Settima Crociata costituita da circa 1200 legni, molti dei quali opera di maestranze genovesi.
Gran parte della flotta fu infatti commissionata alla Repubblica la quale, dal canto suo, ne trasse cospicuo guadagno.
Parteciparono, oltre ai francesi e ai genovesi anche fiamminghi e pisani.
A capo della spedizione Re Luigi IX, il Santo, accompagnato dai fratelli Roberto d’Artois e Alfonso di Poitiers.
I Cristiani, liberata Cipro, occuparono agevolmente Damietta, porto strategico sul delta del Nilo e proseguirono verso gli ultimi avamposti latini in Siria.
Nella battaglia di Almansourah (1250 d.C.) i Crociati trionfarono ma, il Sultano Mamelucco Baybars, ebbe una geniale trovata
Squarciò le dighe del Nilo, la cui inondazione rese fangoso e impraticabile il campo di battaglia.
Così i Cristiani, esausti, ritornarono a Damietta ma, durante la ritirata, i Saraceni catturarono re Luigi che promisero di liberare solo in cambio di un forte riscatto e della restituzione della città.
Si racconta che un contingente di Infedeli avesse scortato il re e il suo seguito fino al fiume dove, ad attenderli, erano attraccate alcune galee genovesi pronte a salpare, come pattuito, alla volta di Cipro.
A bordo non videro che pochi marinai intenti nelle loro manovre.
Lo scarso numero di questi fece balenare nelle menti dei Saraceni l’idea di impadronirsi delle galee e di ricondurre i prigionieri a Damietta.
Invece non appena il re mise piede sulla passerella, si udì un fischio ben ritmato e, improvvisamente dalle murate delle galee comparve uno stuolo di Balestrieri in assetto da guerra con gli archi tesi.
Ai Saraceni non rimase altro che rinunciare all’impresa e alle cattive intenzioni.
In copertina: assedio crociato di Damietta.

La storia di tutte le storie…

… di un guerriero impavido le cui gesta riecheggiano nell’eternità… di un Sepolcro, di ingegno e di coraggio… di Crociati… tesori e onori.
Nel 1099 Guglelmo Embriaco, detto Testa di Maglio (“Caput mallei”) per la sua prestanza fisica e per il suo indomabile carattere (era alto un metro e novanta centimetri, per l’epoca un gigante e piuttosto irascibile) insieme a suo fratello Primo arma due galee, l’Embriaga, la Grifona e, con circa duecento (secondo alte fonti fino ad un massimo di 500) uomini fra marinai, soldati e balestrieri, salpa alla volta di Giaffa.
Accortosi dell’arrivo di una numerosa flotta musulmana, sbarca nel porto della città, fa smontare letteralmente le navi, si traveste da mercante e in carovana percorre i sessanta chilometri che lo separano da Gerusalemme.
Giunto al campo crociato si fa ricevere da Goffredo di Buglione, comandante delle forze cristiane e, in cambio di un cospicuo bottino, promette di conquistare la città con i suoi duecento uomini laddove non erano riusciti gli alleati in diecimila.
Fra l’ilarità generale con il legname delle navi fa alzare delle torri alte quaranta metri., le ricopre di pece e pellame per renderle impermeabili e ignifughe e le posiziona sul lato sud della cerchia, da lui ritenuto il più debole.
Sopra le torri, mentre le catapulte devastavano le mura, i Balestrieri scagliavano i loro terribili dardi.
Embriaco guida l’assalto decisivo scalando per primo le mura e terrorizzando i nemici.
Gerusalemme è conquistata il Genovese consegna le chiavi della città a Baldovino di Fiandra futuro primo re cristiano del Regno latino.
Goffredo di Buglione mantiene le promesse e i genovesi hanno un fondaco, un pozzo, una piazza, una chiesa, trenta case e un terzo del bottino.
Sull’architrave del Santo Sepolcro viene inciso a lettere d’oro “Praepotens Genuensium Praesidium” (“Grazie allo strapotere dei genovesi”).
Tra i numerosi tesori che Guglielmo porterà in patria il Sacro Catino, per secoli ritenuto erroneamente il Graal e le ceneri del Battista, entrambi conservati in S. Lorenzo.
A riconoscimento del prestigio acquisito, per decreto consolare, tutte le torri cittadine verranno mozzate, in modo che nessuna superi in altezza quella del condottiero.
Così sono nati i Crociati e da allora la Croce di S. Giorgio è ufficialmente divenuta simbolo di Genova.
“Affresco secentesco, parte del ciclo dedicato al condottiero all’interno della Cappella di Palazzo Ducale, opera di Giovanni  Battista Carlone”.

Storia di liti… di mercanti…

… di vendette…
Nell’anno 1380 un gruppo mercanti genovesi si reca, dalla colonia di Galata, quartiere di Costantinopoli di loro pertinenza, al di là dello stretto in zona di ingerenza greca.
Scoppia una lite con furti e omicidi…

Il Podestà genovese chiede così al Basileus greco giustizia e soddisfazione.
Nella piazza principale vengono radunati i colpevoli in attesa di essere giudicati.
I genovesi attendono l’esecuzione e invece assistono ad una scena, per loro, surreale… ai condannati viene rasata la barba (grande punizione nel mondo ortodosso).
Il Podestà genovese, sentendosi schernito, promette ai concittadini vendetta così dopo qualche tempo scatena ad arte una rissa in piena Galata.

torre galata
“La Torre di Galata, simbolo di Costantinopoli, fu eretta dai genovesi nel 1348”.


Ora è il turno dei Greci a pretendere giustizia quindi i colpevoli vengono a loro volta disposti sul palco dell’impiccagione.
Di fronte a sacerdoti, notabili, nobili e autorità d’ogni genere il Podestà ordina che siano calate loro le braghe e, fra l’incredulità dei presenti, dispone che siano rasati i peli del sedere dato che i genovesi la barba la portano non sul viso, ma sulle chiappe.

 

Storia di una battaglia… la battaglia…

… di una piazzetta speciale… e di 9000 massacan.

Nell’anno del signore 1284, dopo secolare contesa, Genova nella più imponente delle battaglie navali medioevali, dinnanzi allo scoglio della Meloria, sconfigge definitivamente Pisa, l’odiata rivale.
Vengono condotti in città 9000 prigionieri destinati ai lavori manuali ma dopo mesi di stenti molti di loro non supereranno l’inverno.
Sotto la pavimentazione a “risseu”(mosaico ligure di ciotoli di mare), in occasione dei lavori di restauro per le Colombiadi, sono stati rinvenuti numerosi resti umani che testimoniano come quello fosse il cimitero a loro destinato.

"La Torre della Meloria".
“La Torre della Meloria”.

Questo magico luogo ha fornito spunto per una colorita spiegazione del termine massacan secondo la quale i Nobili genovesi portavano i loro figli a guardare i prigionieri mentre faticavano e, indicandoli dicevano con disprezzo:”Mia sta massa de can”.
D’altra parte che tra i due popoli non corresse buon sangue è testimoniato dal vecchio adagio che recita:
“Meglio un morto in casa che un pisano all’uscio”.
Altre fonti raccontano invece di un attacco turco alla città nel ‘500 sventato dalla prontezza e dal coraggio degli operai che stavano lavorando alla costruzione di porta Siberia, o meglio, del Molo.
Costoro avvistarono i saraceni all’orizzonte e al grido di “massacan” (ammazza i cani) saltarono sulle galee e li respinsero.
Secondo i glottologi queste sono solo fantasiose ipotesi perché l’origine della parola, per la prima volta citata nel 1178 in relazione ad un tal Anrico Maçacano, magister antelamo savonese (cioè tagliapietre) che esercitava tale professione, risale all’etimo diffuso anche in altre lingue e dialetti con il significato di “ciottolo, pietra arrotondata” della quale ci si serviva per scacciare (ed eventualmente ammazzare) i cani molesti. Da qui il passaggio a “sasso” in genere, poi a “pietra da costruzione” e infine, per estensione, nell’area ligure a “muratore”. Se già in alcuni documenti savonesi nel 1272-1273 il termine significava “pietra da costruzione”, lo si trova per la prima volta in volgare genovese nel 1471 e poi nel 1475 legato ai magistri antelami che operavano a Caffa in Crimea (Piccolo dizionario etimologico ligure” del Prof Fiorenzo Toso ed. Zona 2015).
In ogni caso i racconti leggendari relativi ai pisani di Campo Pisano e ai turchi di Porta Siberia sono, per me, ricchi di fascino e come tali li tramando.
 

Storia di Corsari… genovesi…

Siamo nell’anno del Signore 1230 allorchè le autorità cittadine, viste le numerose lamentele dei Paesi vicini, sono costrette ad arrestare i Capitani e gli equipaggi di alcune galee, ree di predoneria.
I primi vengono condannati a morte, i marinai dei secondi, al taglio della mano.
Dato che in città non c’è famiglia che non abbia un parente fra i condannati, scoppia una vera e propria sommossa.

“Il vascello Neptune”. Foto di Leti Gagge.

Nemmeno l’intervento dell’Arcivescovo riesce a far tornare il Podestà (che ricordo, per statuto, era foresto) sui propri passi.
Così dinnanzi alla prigione si radunano le donne che affrontano impavide, a sassate, i militi della Guardia.
Il Podestà stesso, si lancia a cavallo in mezzo alla folla ma, lo stallone scivola e questi si rompe una gamba.
Il Podestà rifiuta le cure dei medici genovesi preferendogli quelle dei milanesi, suoi concittadini.
Morirà dopo tre giorni…
Nel frattempo viene eseguita la sentenza ma i primi due Capitani, appesi alla forca, non muoiono così, nel nome di Dio e di S. Giovanni, il Podestà moribondo comandò che fossero lasciati liberi e con loro tutti gli altri Corsari!

In Copertina: il vascello Neptune ricostruzione cinematografica utilizzata nel 1986 per il film “Pirati” con Walter Matthau di Roman Polánski

Storia di due Re… di un Diploma…

e dell’autonomia genovese….
Nell’anno del Signore 958 il Re d’Italia Berengario II e suo figlio Adalberto coreggente, rilasciano alla città di Genova un Diploma, il più antico dei privilegi conosciuti concessi ad una comunità italiana.
Di fatto, in questo straordinario documento, i Reali riconoscono ufficialmente alla nostra città, una certa autonomia:
“In nome di Dio eterno, Berengario e Adalberto re per propizia e clemenza divina….
Confermiamo e rafforziamo a tutti i nostri fedeli abitanti nella città di Genova tutte le loro cose e le loro proprietà avute sia per contratto sia per donazione e tutte le cose che possiedono secondo la loro consuetudine, che a qualunque titolo o acquistarono con obbligazione o che a loro pervennero dalla parte di padre e madre; tutte le cose nella città e fuori totalmente confermiamo e rafforziamo più pienamente, assieme alle terre, vigne, prati, pascoli, boschi, campi seminati, rive, petraie, peschiere, monti, valli, pianure, acque, corsi d’acque, servi e serve d’ambo i sessi, e tutte le cose che possono dirsi e chiamarsi che detengono secondo la loro consuetudine.
Pertanto ordiniamo che nessun Duca, Marchese, Conte, Visconte o Sculdascio, decano, o qualsivoglia piccola o grande persona del nostro regno osi penetrare investendosi di potere nelle loro case o prenda dimora o tenti di compiere offesa o molestia, ma sia consentito a quelli di vivere pacificamente e quietamente…
Se qualcuno dunque avrà tentato di rompere o violare la norma di questa nostra conferma per qualsiasi intento, sappia che dovrà versare mille libbre d’ ottimo oro, la metà alla nostra camera e la metà ai predetti uomini e ai loro eredi o proeredi.
Affinché ciò sia più veramente creduto e più diligentemente osservato da parte di tutti, dandovi vigore con le nostre proprie mani, abbiamo ordinato che sia impresso con il sigillo del nostro anello.
Le firme dei serenissimi re Berengario e Adalberto.
Il cancelliere Uberto ha sottoscritto per ordine dei re.
Dato il xv giorno delle calende d’agosto, nell’anno 958 dell’Incarnazione del Signore, ottavo di regno dei re Berengario e Adalberto, nella prima indizione.
Redatto in Pavia felicemente nel nome del Signore.”
(Cit. passi scelti e tratti dal Diploma stesso il cui originale è conservato presso l’archivio di Stato).
Prima ancora che sorgessero i Comuni “gli abitanti di Genova” vengono riconosciuti giuridicamente come tali, addirittura senza l’intervento del Vescovo (che sarà invece determinante nell’istituzione della Compagna).
I Re si riservano gli atti giudiziari ma riconoscono il diritto consuetudinario genovese.
I Genovesi si consideravano sudditi del “regnum in terra” ma assolutamente liberi in quello del mare, per il quale non hanno bisogno di riconoscimento o permesso alcuno.
Su queste basi otterranno poi, con diplomatica perizia, ulteriori e più ampie autonomie dai successivi Sovrani… fino al “superbo” e leggendario “Abbiamo già dato” pronunziato in faccia dell’ imperatore Federico Barbarossa…
ma questa è un’altra storia.