Il 1522, come ricordato in apposito racconto, è l’anno del terribile Sacco di Genova.
Ciò non impedisce ai bigotti reggitori del Governo di occuparsi di frivole facezie come quella di proibire la canzone popolare, probabilmente di origine provenzale, detta del “Balaridone”.
Ecco il goliardico testo:
SI TROVASSE UNA DONNA,
CHE MI VOLESSE AMARE,
E POI VOLESSE FARE
CON MI LA PAVANELLA.…
ALHOR PER LA MIA PATRONA
IO LA VORREI CHIAMARE
E POI CON LEI CANTARE:
DE TOCA LA CANELLA
O DOLCE PASTORELLA
OYME’, CHE l’E’ PUR BELLA
DA FAR BALARIDON
DOGHE ( don) DOGHE ( don).
Così recita il decreto di messa al bando:
“La maledetta canzone de Balaridone, quale contamina la mente non solum de’ secolar de’ religiosi, cosci homini come done, che la odeno, soto pena di multa o fustigazione.
E se saranno puti, li saranno date tante patte”.
Con te, mano nella mano, Genova mi conduci a spasso nel tempo e… sempre m’innamori…
Alle spalle del Quartiere del Carmine, a pochi passi dal cuore universitario della città, salendo per S. Bernardino, si entra in un’altra dimensione dove luce e colori sembrano giocare a rincorrersi.
Si incontrano i caruggi dai nomi più dolci, a testimonianza che qui, un tempo, si esercitava l’antica arte pasticcera;
Vico della Fragola, dello Zucchero e del Cioccolatte per poi finire nell’ovattata Piazza della Giuggiola.
Luoghi ricchi di suggestioni e atmosfere sospese nel tempo dove anche lo spazio sembra entrare in punta di piedi.
In quest’area, dove sorgeva in epoca pagana il Tempio della Prudenza, il cui simbolo era appunto la giuggiola,
ancora oggi un secolare esemplare di questa pianta fa bella mostra di sé e dà il nome alla Piazza.
A Genova con la parola “Albergo” si identificava una consorteria nobiliare.
La nascita di tale istituto prese spunto dalla Compagna e curava gli interessi dei nobili.
Di contro i popolani costituirono le loro forme associative, chiamandole “Conestagie”.
Il primo esempio di Albergo risale al 1346 ed è quello della Maona (che in arabo significa “indennizzo”) dei Giustiniani.
Numerose famiglie signorili si riunirono allora sotto un unico cognome, formando una sorta di clan, il cui pretesto era raccogliere investimenti e risorse per conquistare territori da cedere poi, previo compenso, alla Repubblica.
Nel ‘400 gli Alberghi aumentarono il loro raggio d’azione assumendo anche rilevanza politica.
Nel 1528 Andrea Doria diede loro pieno riconoscimento giuridico e ratificò la tradizione di rinunciare al proprio cognome a favore di quello dell’Albergo prescelto.
La riforma dell’ammiraglio ne limitò il numero a ventiquattro:
Calvi, Cattaneo, Centurione, Cibo, Cicala, Doria, Fieschi, Gentile, Grillo, Grimaldi, Imperiale, Interiano, Lercari, Lomellino, De Marini, Di Negro, Negrone, Pallavicino, Pinelli, Salvaghi, Spinola, Usodimare e Vivaldi.
A queste famiglie dalla nobiltà di origine feudale si aggiunse la ventiquattresima di provenienza popolare, i De Fornari.
Nei decenni successivi si unirono, portando il numero a ventotto, altre quattro casate popolari:
Giustiniani, Promontori, Sauli e De Franchi.
Già nel 1576 una nuova riforma, di fatto, ne decretò la fine, limitandone l’autonomia politica e imprenditoriale.
In sostanza con la scomparsa degli Alberghi cessò, in favore di quella bancaria e finanziaria, la componente commerciale e mercantile che così ricca aveva reso Genova.
Nel ‘600 i nobili Genovesi scelsero una nuova forma associativa più consona alle nuove esigenze iscrivendosi nel “Libro d’oro”.
Libro che, con la Costituzione della Repubblica democratica incoraggiata da Napoleone, venne bruciato pubblicamente come vituperato simbolo del secolare potere oligarchico.
Nel 1637, alla presenza dell’ Arcivescovo, presso la Cattedrale di S. Lorenzo, viene officiata solenne funzione a seguito della quale il Doge consegna alla Madonna i simboli del Potere (corona, scettro e croce degli Zaccaria).
La nuova cinta muraria viene dotata, presso le principali porte, di statue raffiguranti la Regina e il motto “posuerunt me custodem”.
Certo Genova, fin dal XII sec, aveva un forte legame con la Madre di Gesù per via dell’intercessione di S. Bernardino durante la guerra con Pisa, divenendo una delle prime città a professare il culto mariano.
Inoltre, nel corso dei secoli, il popolo aveva spesso invocato e attribuito la salvezza della città, in situazioni disperate, all’intervento ultraterreno.
I motivi però di tale scelta sono ulteriore testimonianza della lungimiranza e dell’astuzia dei nostri avi.
La Repubblica di Genova infatti, con l’espandersi delle Monarchie (francese, inglese e spagnola) rischiava di perdere i suoi antichi privilegi quali, ad esempio, il diritto di precedenza assoluta in qualsiasi Ambasciata.
Con questo geniale escamotage i Padri del Comune mantennero e rafforzarono questo privilegio.
Chi, nell’Europa Cattolica e Cristiana avrebbe mai potuto vantare titoli e prestigio superiori alla Madonna?
Chi avrebbe mai potuto impossessarsi per via ereditaria o matrimoniale della Repubblica?
Da allora e fino alla fine della gloriosa Repubblica, il grido di guerra ” Pe Zena e pe San Zorzo” fu sostituito dal “Viva Maria”.
In Copertina: la statua della Madonna Regina di Bernardo Carlone. Originariamente sormontata la Porta della Lanterna. Oggi è custodita nell’atrio di palazzo San Giorgio.
Nell’area dove oggi ci sono Piazza Villa e il celebre Belvedere Montaldo, sorgeva un tempo la maestosa fortezza del Castelletto da cui prende nome l’omonimo quartiere.
Posto in posizione centrale e strategica sulla sommità del Monte Albano fu eretto dai genovesi intorno al 952 d.C. e, successivamente, puntellato con due possenti torri per proteggere la città dal suo interno.
Nel ‘400 il Maresciallo di Francia Boucicault, che aveva in signoria la città, lo rinforzò con imponenti bastioni trasformandolo nella roccaforte della guarnigione francese e in simbolo dell’oppressione straniera.
Fu teatro di numerose sommosse e rivolte fino a quando nel 1528 l’ammiraglio Andrea Doria lo fece, come già avvenuto precedentemente con la Briglia (la fortezza che, ai piedi della Lanterna, controllava l’accesso alla città via mare) radere al suolo.
Furono i Piemontesi nel 1819 ad incaricare il Maggiore Andreis della sua ricostruzione e a rinnovare il simbolo dell’occupazione foresta.
I Sabaudi infatti, sebbene legalmente legittimi padroni della città, vennero sempre mal visti per la loro incapacità nel curarsi delle “cose di mare”.
Così, a seguito della celebre insurrezione del 1849, allorché Genova subì l’ignobile Sacco del La Marmora, il Castelletto venne a quel tempo definitivamente abbattuto.
“… Perché mai nessun foresto oppressor potesse tenere in scacco la Superba”.
Dal Belvedere accarezzando con lo sguardo la creuza di Salita della Torretta si può ancora oggi ammirare, nel muro di contenimento, ciò che resta della poderosa Fortezza.
“I monti a Genova sono sempre stati senza alberi, ma la foresta c’era, era in mare, una foresta di alberi di navi dai tronchi dritti, abituati a reggere tutti i venti.
Tempi belli, a Genova il vento è sempre stata materia abbondante”.
Cit. Vito Elio Petrucci
Con questa arguta descrizione inizia il prezioso volume fotografico “Saluti e baci” del celebre custode delle memorie genovesi.
A differenza di quasi tutte le altre città occidentali Genova non possedeva una piazza principale sede dei poteri pubblici, ma un groviglio di vicoli e piazzette che rappresentavano altrettante delimitate zone di potere delle singole famiglie.
Si formarono così delle libere associazioni di marinai e mercanti con scopo di solidarietà corporativa dette, appunto, Compagne.
In origine furono tre:
1) di Castello da Sarzano a Ravecca 2) di Macagnana da S. Ambrogio a Canneto 3) di Piazzalonga da S. Bernardo e S. Donato a Giustiniani, poi aumentarono a sette;
4) di S. Lorenzo dalla Cattedrale alle zone circostanti 5) della Porta da S. Pietro ai quartieri limitrofi 6) di Sussilia dai macelli alla zona di Banchi 7) di Prè da Fossatello a S. Agnese e, in ultimo, divennero nel 1134, otto, con l’aggiunta di 8) Portanuova da S. Siro alla Maddalena.
Quattro dentro e quattro fuori le Mura.
Ciascuna veniva rappresentata da Consoli che erano ad un tempo giudici, governatori e generali.
Il Caffaro racconta come, probabilmente già da prima ma, certamente dal 1099, queste costrinsero la nobiltà feudale a giurare fedeltà alla Compagna Comunis e ad eleggere la propria dimora all’interno delle mura, dando origine alla nuova organizzazione del libero Comune.
In Copertina: Genova a metà del XV sec.”.
Da notare oltre alla Torre dei Greci, sorella minore della Lanterna a destra dell’ingresso del porto, sul Molo Vecchio, le due torri della Darsena, il castelletto, e la particolare copertura piramidale di S. Lorenzo.
Incisione in legno realizzata nel 1493 dalla bottega di Michael Wolgemut e successivamente colorata a mano.
Per il “Liber Chronicarum” (Cronache di Norimberga) di Hartmann Schedel, stampato a Norimberga il 12 luglio 1493 da Anton Krobergerl.
Già da tempo ormai Genova aveva mutato la sua vocazione marittima dal periodo in cui era detta la Dominante, a quella finanziaria della Superba ma la sua primaria caratteristica era rimasta ancora intatta:
“… l’abilità nautica di Genova è tenuta in tale reputazione e stima in tutto il mondo che i Genovesi sono detti signori del mare”.
Questo il commento nel 1502 nelle “Cronache del Regno di Luigi Xll” di Jean d’Auton, annalista, religioso e scrittore, al seguito del Re in visita a Genova.
del Milite Ignoto (attuali Caravelle)… e nemmeno l’austero edificio del Liceo classico Andrea D’Oria… quando l’enorme Piazza antistante non si chiamava già più Piazza delle Armi e non ancora della Vittoria, bensì di Francia… quando,
in occasione dell’ Expo del 1914, a Genova, c’era la funivia panoramica…
quando nel breve tragitto tra la Stazione di partenza (più o meno all’altezza dell’attuale Palazzo INPS) e quella delle Mura del Prato di arrivo (bastione dietro il Doria, davanti al Galliera) si viveva un’esperienza mozzafiato… come in Italia e in gran parte del mondo, non si era mai visto…
quando, altro che giapponesi, fu inaugurata la Telfer, il pioneristico treno monorotaia che in soli nove minuti collegava in un percorso rialzato di quattro metri dal suolo, la Piazza con il Molo Giano (oltre due km)…
quando Genova annoverava solo primati… e l’Europa ci guardava con interesse e ammirazione…
di un re, di un viaggio… di un Vessillo, il VESSILLO.
Già nel 700 d. C. era presente in città una guarnigione di soldati bizantini che aveva il compito di mantenere le coste libere da scorrerie piratesco musulmane. Erano così ben integrati e accetti nel tessuto sociale cittadino che, quando portavano in processione lo stendardo del loro Santo (S. Giorgio)nell’omonima chiesa, a loro si univa spontaneamente la popolazione. Venerati quindi, da tempi remoti, S. Giorgio e la sua croce, il cui utilizzo è già attestato dal 1096 divennero, dopo le imprese dell’Embriaco nel 1099 simbolo ufficiale della nascente Repubblica.
Nel 1190 Riccardo Cuor di Leone, sovrano d’Inghilterra, chiese ai genovesi navi, marinai, ammiragli e scorte per trasportare il suo esercito a Gerusalemme. Durante la traversata si accorse che musulmani, turchi, spagnoli, francesi e catalani se ne stavano ben alla larga. Incuriosito ne chiese il motivo all’ammiraglio Lercari comandante della spedizione, il quale probabilmente dette una risposta simile a questa: “Vede Vostra Maestà, indicando la Croce di S. Giorgio, tutti sanno che chi osa attaccar battaglia contro un legno difeso da questa insegna, incorrerà in morte certa” (il corpo dei Balestrieri, di cui erano dotate le galee genovesi, incuteva infatti rispetto e terrore in tutti i mari). Il re chiese allora, versando un canone annuale, di poter battere nel Mediterraneo e nel Mar Nero la bandiera genovese, in modo che nessuno osasse attaccar briga. Dopo un paio di secoli, a seguito dei buoni rapporti instauratisi, i genovesi regalarono agli inglesi l’uso della bandiera che, ancora oggi è simbolo dell’Inghilterra, di Londra e della Marina Militare britannica. Questa è la versione tramandata dalla successiva storiografia cinquecentesca (Annali del 1537 del Giustiniani) a scopi propagandistici alla quale si affianca un’altra curiosa aneddotica storiella.
Tale leggenda narra che agli inglesi, i genovesi abbiano venduto anche le spoglie del Santo (un Moro imbalsamato vestito da crociato) e addirittura il drago (un gigantesco coccodrillo del Nilo, animale che in Europa pochi conoscevano, anch’esso imbalsamato).
Storie suggestive e affascinanti ma purtroppo non dimostrabili.
Spesso il confine tra storia e leggenda è labile ma, in questo caso, è facilmente tracciabile. Ad oggi infatti, non esiste alcuna prova che attesti l’esistenza di questo -è il caso di dirlo- sbandierato canone.
Non solo: è inoltre appurato che gli inglesi, come testimoniato dal celebre arazzo di Bayeux (1070/1080) che rappresenta la battaglia di Hastings del 1066 e dalla cronaca della spedizione di conquista di Guglielmo di Poitiers (“Gesta Guillelmi”), usassero ben prima del 1090 la bandiera con croce rossa in campo bianco denominata a quel tempo di San Pietro e solo successivamente di San Giorgio.
È importante infatti precisare che fino al 1242 coesistevano sia la bandiera del Comune (Croce rossa in campo bianco) di San Giorgio, primitivo vessillo di San Pietro, che il vessillo, citato per la prima volta nel 1198, (gonfalone del santo a cavallo che uccide il drago).
Anzi, fino a tale data, il vessillo di San Giorgio era identificato esclusivamente con il gonfalone mentre lo stendardo rosso crociato era associato solo al Comune.
L’associazione del Vessillo di San Giorgio alla rappresentazione della bandiera è quindi posteriore al 1242.
Come detto in altre occasioni, il Vessillo di S. Giorgio inteso come gonfalone veniva dunque consegnato, dopo solenne processione e cerimonia al capitano della Galea ammiraglia (per poter issare la bandiera dovevano salpare minimo cinque navi in assetto da guerra con a bordo almeno venti balestrieri) al grido di battaglia: “PE ZENA E PE SAN ZORZO”(del quale non vi sono tracce scritte ma che viene tramandato oralmente da secoli), con l’impegno di onorarlo in battaglia e di riportarlo a casa, a qualunque costo.
Nonostante le sconfitte, a volte subite in 500 anni di guerre, il VESSILLO è sempre tornato sano e salvo.