Storia di una Cripta…

di tesori millenari… di un piatto… un catino… una croce… un’arca… anzi due…
Nella cripta della Cattedrale sono raccolti, per volontà del Cardinale Siri e sotto la regia del Prof. Albini una cinquantina di pezzi dal valore storico artistico inestimabile:
Il Sacro Catino, bottino di guerra della prima Crociata dell’Embriaco preso a Cesarea sulla via del ritorno da Gerusalemme, per secoli ritenuto il Sacro Graal fino a quando, in epoca napoleonica i francesi nel trasporto verso il Louvre, lo ruppero.
Nel tentativo di ripararlo i gemmologi si accorsero che, per quanto antico nono sec. d.C., non poteva aver avuto a che fare con l’Ultima Cena.
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“Piatto in calcedonio di San Giovanni”,

Il Piatto in Calcedonio anch’esso antichissimo che la tradizione vuole abbia accolto la testa decapitata di San Giovanni Battista e che venne donato al Capitolo di S. Lorenzo da Papa Innocenzo VIII.

La Croce degli Zaccaria, così chiamata per essere stata donata dall’Imperatore orientale greco ai membri della famiglia Zaccaria, come ringraziamento per aver difeso con onore l’Impero dai Turchi.

Gioiello tra i più preziosi di fattura bizantina, laminato d’oro con rubini, smeraldi e diamanti, reliquiario di schegge della Croce, usato nei secoli successivi per benedire il Doge, durante la cerimonia di insediamento.

“La Croce degli Zaccaria”.
“Arca del Barbarossa”.
“Cassa del Corpus Domini”.

Rilevanti anche le Arche Processionali fra le quali meritano menzione, quella detta del Barbarossa perché donata dall’imperatore stesso nel 1178 contenente le ceneri del Battista, quella quattrocentesca portata in processione, capolavoro di alta oreficeria tardo gotica e quella tutta d’argento del 1553, opera del De Rocchi in collaborazione con maestranze venete e fiamminghe, del Corpus Domini.

Vi sono custoditi anche preziosi reliquiari a cassetta di pregevolissima fattura come quello bizantino del XII secolo di S. Anna, quello lombardo del XIV di S. Giacomo ed uno, strepitoso, secentesco di scuola fiorentina.
“Cassa Processionale quattrocentesca del Battista”.

Di notevole interesse la statua dell’Immacolata Concezione opera dello Schiaffino e quella, con relativo ossario di San Lorenzo, del 1828.

Ma le sorprese non finiscono qui, infatti è possibile ammirare anche la bolla con cui il Papa Gelasio II consacrò S. Lorenzo a Cattedrale e i paramenti sacri da questi indossati durante la cerimonia del tempo.

Vico e Piazza dell’Amor Perfetto…

Il toponimo trae origine dalla famiglia Finamore che aveva parecchie proprietà nel vicolo.
Un’altra teoria sostiene invece che il nome derivi dalla posa estatica della Madonna di un’edicola votiva, oggi scomparsa, che un tempo adornava il caruggio.
Ma la versione più fascinosa e romantica, anche se priva di fondamento storico, visto l’improbabile scenario logistico, è invece quella che narra del leggendario “intendio”, l’amor platonico fra la nobildonna genovese, Tommasina Spinola e il re di Francia Luigi XII
 
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“Luigi XII entra a Genova, in Italia, il 29 aprile 1507”. >Miniatura da “Voyage de Gênes”. L’opera, del poeta Jean Marot (1450 circa – 1526), fu composta nel 1520 circa a Tours, in Francia, con le miniature dipinte da Jean Bourdichon (Tours 1457 circa – 1521). BnF (Bibliothèque nationale de France), Parigi.

 

Difficile infatti immaginare nella realtà una frequentazione di tali popolari contrade per personaggi di quel lignaggio.
Il re sotto mentite spoglie più volte passò, durante i suoi soggiorni genovesi, in quel vicolo per vedere la sua amata.
Tommasina, fedelissima moglie, morì di crepacuore nel 1505 a causa di questo casto, profondissimo e impossibile amore, dopo aver appreso la falsa notizia della morte del sovrano.
Il re, tornato da nemico a Genova e appresa la triste novella, volle recarsi ancora una volta sotto le finestre dell’amata e lì avrebbe pronunziato la celebre frase “Avrebbe potuto essere l’amor perfetto”.

“Piazza dello Amor Perfetto”.
“Nella piazza un bel sovrapporta di S. Giorgio che uccide il drago”,

“Le finestre di Tommasina”.

Il pittore Ludovico Brea inserì il ritratto della poveretta (ritenuta una delle più belle donne del suo tempo) nel suo celebre capolavoro, intitolato il “Paradiso”, conservato ancor oggi nel museo di S. Maria in Castello.

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“Il Paradiso di Ludovico Brea”.
 
“Luigi XII entra a Genova, in Italia, il 29 aprile 1507”.
Splendida e complessa miniatura da “Voyage de Gênes”.
L’opera, del poeta Jean Marot (1450 circa – 1526), fu composta nel 1520 circa a Tours, in Francia, con le miniature dipinte da Jean Bourdichon (Tours 1457 circa – 1521). BnF (Bibliothèque nationale de France), Parigi.

Storia di un Parco e dei suoi illustri visitatori…

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“Gioco del pallone sui bastioni dell’Acquasola, secolo XIX”.

 

Anticamente percorrendo l’attuale Via Luccoli (dal latino “luculus” bosco sacro) si raggiungeva il tempio intitolato agli dei pagani Acca (luna) e Solis ( sole).
Da qui il nome Acquasola.
A metà del ‘500, munito dall’omonima porta, in seguito al potenziamento della cinta muraria voluta dall’Amm. Andrea  Doria, il luogo venne utilizzato per raccogliere i detriti derivati dalla costruzione della Strada Nuova (attuale Via Garibaldi) e, per questo, chiamato “i Muggi”.
In seguito, l’area compresa fra Piazza Corvetto e i bastioni cinquecenteschi, venne utilizzata come parco pubblico fino al 1657, anno di una terribile peste, quando fu convertito in cimitero.
Le catacombe sono ancora presenti più o meno nel tratto compreso fra i laghetti dei cigni (che pare verranno ripristinati) e il complesso di S. Stefano.
Opportunamente abbellito e ampliato, sul finire del ‘700, diventa meta della noblesse ospite in città….

"Dame a passeggio".
“Dame a passeggio”.

Fra gli altri Gustav Re di Svezia, il Principe di Condè, l’Imperatore d’Austria, i reali britannici e gli Arciduchi milanesi. 

Nell’800 il Parco raggiunse il massimo splendore al punto di conquistarsi il nome di un Viale di Mosca.

Nella speranza che, dopo la recente inaugurazione, ritrovi se non gli antichi fasti, almeno il perduto decoro degli anni ’70, quando era meta domenicale delle famiglie…

 

 

Storie popolari…

Il mare regna sovrano nella nostra storia ma, a sorpresa, come l’onda si ritira quando si parla di fiabe.
Ebbene si, a farla da padrone sono i racconti legati alla terra, forse perché tramandati dalle mogli che aspettavano il rientro dei loro mariti e dettati dai tempi dei lavori manuali ed agricoli.
Forse perché i marinai, sparsi in chissà quale oceano e indaffarati in commerci o impegnati in battaglia, non avevano tempo per perdersi in chiacchiere, intenti com’erano a salvare la “pellaccia”.
Genova e la Liguria non hanno una grande tradizione in materia e di secoli di racconti narrati intorno al focolare è rimasto ben poco.
Per fortuna, sul finire dell’800,  il “foresto” James Bruyn Andrews si è “preso la briga e di certo il gusto di tramandare ai posteri il racconto giusto” raccogliendo nel suo “Contes ligures” il patrimonio nostrano.
Racconti di streghe, balli e processioni di morti, lupi mannari, sabba diabolici e stregonerie varie.
Una delle più diffuse è la foa delle “troe belle cetronnelle”, variante di quella nota, in altre regioni come ” delle tre melarance”;
In questa favola l’incantesimo al protagonista è svelato da due stregoni rappresentati da Venti Violenti (ne esistono comunque numerose varianti).
La tecnica utilizzata è quella della vivace e sintetica narrazione, basata sulla ripetitività e sulla progressione (grande, più grande, enorme, gigantesco).
Singolare, in alcuni racconti, più che mai espressione del nostro territorio, l’ossessivo susseguirsi di scale sempre più ripide e strette, proprio come gli angusti spazi dei secolari caruggi
Parsimoniosi non solo nelle palanche ma anche nelle parole!

Storia di un ribelle…

Molti conoscono le gesta del Perasso, il celebre Balilla, pochi l’impresa portata a termine da un altro giovanotto dal cuore impavido, Giovanni Carbone.
Questi, garzone in un’osteria chiamata Croce Bianca (da qui il nome dell’omonimo Vico), prese parte alla sommossa del 6 dicembre 1746 che portò alla cacciata degli Austriaci.
Partecipò, agli ordini del Capitano T. Assereto, alla temeraria azione di riconquista di Porta S. Tommaso, occupata dai nemici.
Il Popolo insorse, uomini, donne e bambini si batterono per le strade per liberare la città dallo straniero invasore (come raffigurato nel quadro del Comotto).
Il Carbone, con azione spregiudicata, recuperò le chiavi della Porta e, fra il tripudio della folla, le consegnò personalmente al Doge con l’ingenua raccomandazione “di stare più attento e di non smarrire più le chiavi della Città”.
L’episodio è narrato nella lapide posta al civico n.29 di Via Gramsci.
 

L’Adorazione dei Magi… Il Presepe di Via degli Orefici…

… un sovrapporta davvero speciale…
In Via degli Orefici, poco distante dalla celebre Edicola con Madonna e S. Eligio, opera del Piola, di cui ho già parlato in passato è possibile ammirare quest’altro capolavoro a cielo aperto: si tratta dell’Adorazione dei Magi, meglio nota come “IL PRESEPE”.
Scultura di Elia e Giovanni Gagini datata circa 1457, maestri antelami, che hanno lasciato altre numerose testimonianze della loro arte in città (in particolare in S. Lorenzo e S. Maria in Castello).
In uno spazio così limitato sono riusciti a rappresentare in modo plastico e magistrale: il suonatore di cornamusa con cane dormiente, pellegrini in preghiera e a cavallo, il pastore con il gregge e il boscaiolo che pota un albero.
Dentro la capanna, il bue e l’asinello, in alto un angelo.
Poi i Magi che offrono i propri doni con uno di loro,in ginocchio, in adorazione del Bambino.
Un cavallo che beve alla fonte mentre gli scudieri accudiscono gli altri due….. Strepitoso!!!

Storia di due pittori…

di un’edicola… di gelosie… di assassini…
Pellegro Piola, ventiquattro anni non ancora compiuti era già un pittore fatto e finito che godeva in città di alta considerazione.
Membro della dinastia di artisti che, assieme al fratello Domenico, rappresentarono la massima espressione del Barocchetto genovese, la sera del 25 Novembre 1640 mentre rincasava dalla bottega di Salita S. Leonardo sita in Carignano, in Sarzano venne aggredito e ferito a morte durante una rissa dall’amico e collega, il prete artista G. Battista Bianco.
Da quando nel 1637 Genova aveva proclamato la Madonna sua Regina era rifiorita la consuetudine (in vigore già dal ‘200) di adornare i caruggi con dei piccoli templi votivi, le Edicole, che le rendessero omaggio.
Le Corporazioni facevano a gara per esibire le Edicole più belle e sfarzose.
Fu così che quella degli Orefici che era fra le più ricche, commissionò poi a Pellegro un’opera che non avesse eguali:
un’edicola di ardesia che rappresentasse La Madonna con il bambino insieme a S. Eligio, loro patrono.
Terminato il lavoro in città non si parlava d’altro fu così che il Bianco, quando vide il capolavoro di Pellegro, rimase sopraffatto da cotanta bellezza e comprese la propria inferiorità artistica.
Reo confesso raccontò ai magistrati di aver commesso l’orrendo delitto per errore, accecato dall’invidia voleva infatti solo ferirlo, perché temeva che non avrebbe mai più ricevuto commesse finché Pellegro fosse stato in circolazione.
Copia dell’Edicola in questione è ancora oggi visibile in Via degli Orefici al n. 18 realizzata dal pittore Raimondo Sirotti.
Per intervento del Maestro stesso, a quel tempo Direttore dell’Accademia Ligustica di Belle Arti, l’originale è ivi custodito.
Nelle brumose notti invernali leggenda narra che il fantasma di Pellegro vaghi ancora irrequieto in Sarzano

Storia di una sfida divina…

e di un rocambolesco epilogo…
Leggenda narra che un tempo Gesù, in compagnia di Pietro, si trovò a percorrere le creuze lungo Costa Chiappeto, sulle alture sopra San Benigno quando, stanco del lungo peregrinare, invitò il discepolo a cercare ospitalità per la notte.
Rimasto solo il Salvatore venne avvicinato da Lucifero in persona il quale gli propose una singolare sfida:
Avrebbe vinto chi dei due avesse scagliato lontano un ciottolo fino a raggiungere il mare.
Il Nazzareno, senza fatica alcuna, lanciò il sasso per circa un paio di miglia oltre il blu delle onde.
Belzebù, sicuro di se e di vincere agevolmente la scommessa, prese la rincorsa ma scivolò miseramente producendo un tiro imbarazzante.
Perso l’equilibrio cadde lungo disteso….. ecco perché  in quella zona per secoli si mostrò una grossa pietra sulla quale, si raccontava, fosse impressa l’impronta delle demoniache natiche.
Quando si dice “Il Diavolo a gambe all’aria.”……

Storia di un santuario antichissimo…

 e di un Frate speciale….
In Piazza delle Grazie, davanti all’omonimo santuario, svetta opera del Galletti, la statua in onore del Padre Santo.
Il frate cappuccino Francesco da Camporosso che si distinse in città per le sue opere misericordiose e caritatevoli.
Si spense nel 1866 mentre pregava per la sua Genova flagellata dal colera.
Il gruppo marmoreo inaugurato nel 1963 celebra, fra i tanti, tre miracoli attribuiti al Santo.

Sono rappresentati un lavoratore portuale, un naufrago ed una madre con la figlioletta agonizzante.
L’attigua chiesa, dall’anonimo moderno aspetto, in realtà secondo la tradizione sorge sul luogo dove nel V sec. d.C. approdarono i SS. Nazario e Celso, i primi predicatori del Cristianesimo in Liguria.
A questi venne intitolata la primitiva cappella che conserva ancor oggi, sita a livello del mare, la più antica cripta esistente.

Nel XI secolo, vista la sua posizione a picco sul mare, venne eletta dai marinai come meta delle loro suppliche e mutò il nome in Nostra Signora delle Grazie.

"Le Mura delle Grazie".
“Le Mura delle Grazie”.

Da qui anche il nome del sottostante tratto di Mura del XIII sec.

Storie di Camalli…

solidarietà… attori… insurrezioni.
Nel 1340 i Padri del Comune concedono l’esclusiva alla Compagnia dei caravana per il carico scarico delle merci del Porto.
Indossano il “gonnellino blu di jeans” e operano in Dogana occupandosi delle merci preziose.
I Camalli (“hamal” in arabo significa facchino) invece trasportano le merci pesanti, in particolare il carbone.
Sul finire del ‘400 si stabilisce che camalli e caravana debbano essere estranei alle vicende politiche della città e quindi vengono reclutati, in virtù della loro prestanza fisica, nelle valli bergamasche.
Devono essere onesti, religiosi e dare il buon esempio; si tramandano il posto di padre in figlio mandando le donne a partorire a Bergamo; se bestemmiano vengono multati.
Adottano la Chiesa del Carmine per fondarvi la Cappella della Corporazione, commissionano cristi e casse processionali fra le più sfarzose di tutte le Confraternite.

Istituiscono il mutuo soccorso in modo che in caso di malattia o infortunio le loro famiglie siano mantenute dalla Comunità.

Camalli
“Camalli”.

Nell’Ospedale di Pammatone hanno sempre a disposizione dei letti per i loro consociati.
Sono protagonisti di diverse insurrezioni la più celebre delle quali quando, nel 1924 in seguito all’omicidio Matteotti, bloccano per tre giorni il porto respingendo le Camicie Nere del Duce.
A causa di questa ribellione vengono puniti dal Regime con la perdita del posto di lavoro.
In seguito a questo episodio l’allora Sindaco Ricci preferisce rassegnare le dimissioni che conferire la cittadinanza onoraria a Mussolini.
Curioso l’aneddoto poi che, agli inizi del ‘900 in Via Fieschi, vede coinvolto un giovane portuale: si rompe una ruota di un carro carico di merci, bloccando la strada.
Il giovane Bartolomeo, camallo dalla forza bestiale lo traina da solo, al posto dei cavalli, in cima alla salita.
Come la sua potenzae la sua prestanza sono risapute negli scagni e sulle banchine, così il suo leggendario consumo di minestrone è noto in tutte le bettole del porto.
Diviene una star del cinema interpretando Maciste (antico appellativo di Ercole) in “Cabiria” di Gabriele D’Annunzio.

Bartolomeo Pagano è anche il modello a cui si è ispirato lo scultore Eugenio Baroni per rappresentare Garibaldi nel Monumento dei Mille a Quarto.