L’anno 1628 è teatro della più terribile congiura, talmente pericolosa, da mettere a repentaglio la sussistenza della Repubblica stessa.
Giulio Cesare Vacchero, nobile membro della casata dei Vacca (gli stessi dell’omonima Porta), in combutta con Carlo Emanuele di Savoia, progetta l’occupazione del Palazzo Ducale e l’omicidio del Doge e dei Senatori con conseguente ingresso del Savoiardo in città.
Alcuni membri implicati nella congiura vengono però scoperti e raccontano ai Magistrati quanto avrebbe dovuto accadere.
Vacchero e i suoi soci, dopo aver tentato la fuga, vengono arrestati.
Carlo Emanuele, minacciando l’uccisione di cinque nobili genovesi prigionieri di guerra, intercede in loro favore anche presso la corte spagnola, in quel tempo sua alleata.
Nonostante le pressioni ispaniche il Minor Consiglio, al fine di salvaguardare l’autonomia di giudizio della Repubblica, convalida l’arresto e dà ordine di procedere alla sentenza.
Vacchero, Fornari e Zignago, i principali componenti della “rassa” (congiura in genovese) vengono giustiziati.
Le abitazioni dei Vacchero abbattute e, al loro posto, ancora oggi visibile in Via del Campo, viene eretta la celebre colonna infame che così recita a perenne ricordo dell’accaduto..
“Memoria infamante sia di Giulio Cesare Vacchero uomo scellerato che, per aver cospirato contro la Repubblica, fu pubblicamente decapitato, banditi i suoi figli, rasa al suolo la casa ebbe pena nell’anno 1628.”
Pena impeccabile a monito di chiunque osasse tramare contro la Repubblica.
Gli eredi, qualche anno dopo, nella speranza di occultare tale stele, vi fecero costruire davanti un’imponente pubblica fontana odierno luogo di preghiera dei Musulmani al venerdì.
“Amor di Patria, dolore di popolo oppresso, fiero spirito di ribellione animarono la sua gente nei venti mesi di dura lotta il cui martirologio è nuova fulgida gemma all’aureo serto di gloria della “Suprema” repubblica marinara.
I caduti il cui sangue non è sparso invano, i deportati il cui martirio brucia ancora nelle carni dei superstiti, costituiscono il vessillo che alita sulla città martoriata e che infervorò i partigiani del massiccio suo Apennino e delle impervie valli, tenute dalla VI zona operativa, a proseguire nella epica gesta sino al giorno in cui il suo popolo suonò la diana della insurrezione generale.
Piegata la tracotanza nemica, otteneva la resa del forte presidio tedesco, salvando così il porto, le industrie e l’onore. Il valore, il sacrificio e la volontà dei suoi figli ridettero alla madre sanguinante la concussa libertà e dalle sue fumanti rovine è sorta nuova vita santificata dall’eroismo e dall’olocausto dei suoi martiri. – 9 settembre 1943 – Aprile 1945 “.
di un Santo e di un pittore tanto geniale quanto irascibile…
Il Comune di Quinto al mare, il cui nome significa a cinque miglia dal centro di Genova era, fin dal 1033, un Borgo marinaro autonomo dal glorioso passato (secondo alcuni, smentiti peraltro dalle fonti storiche, avrebbe dato i natali anche a Cristoforo Colombo).
Nel 1926 per volere di Mussolini fu inglobato nella “Grande Genova” che si estendeva da Voltri a Nervi.
Sorge alle pendici del Monte Moro da cui degrada sulla costa. Tra la spiaggia e la Torre di avvistamento dei Saraceni svetta sulla scogliera il trecentesco oratorio di S. Erasmo, protettore dei naviganti.
Il Santo è infatti raffigurato durante il salvataggio da un naufragio.
L’opera è di Pieter Mulier, pittore secentesco olandese, meglio noto come il “Tempesta” per la capacità di ritrarre le navi in balia delle onde.
Al Museo Galata sono esposte numerose sue tele.
All’interno della chiesa merita una sosta il settecentesco Crocifisso ligneo del Maragliano, l’insuperato maestro celebre per le casse processionali e per il Presepe della Madonnetta.
Tornando invece al pittore “orange” sorge il dubbio che invece il suo soprannome fosse dovuto al carattere litigioso e violento visto che, accusato di aver ucciso la moglie, trascorse alcuni anni nelle celle della Torre Grimaldina a Palazzo Ducale.
di un saccheggio… di pirati saraceni… di marinai genovesi… e di un lieto fine.
Nell’anno del Signore 935 d.C., nella zona dell’attuale Piazza Cavour, più o meno in corrispondenza dell’odierno Mercato del pesce, sorgeva una fontana detta del “Bordigotto” che, improvvisamente, iniziò a zampillare sangue, cattivo presagio per il quale i nostri avi non seppero trovare una spiegazione.
Di lì a pochi giorni, mentre i nostri marinai erano impegnati fuori dal golfo, la città fu saccheggiata da una flotta di pirati saraceni;
chiese, edifici pubblici e dimore private furono violate, donne e bambini rapiti con l’intento di essere venduti come schiavi.
“I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte” cantava Faber in “Fiume Sand Creek”.
Ma, all’altezza della Sardegna, i Nostri incrociarono gli infedeli sulla via del ritorno e, dopo aver ingaggiato lunga e cruenta battaglia, ebbero la meglio, si ripresero il maltolto e liberarono i propri cari.
Questo racconto, confermato anche da fonti arabe (almeno nella sostanza), è giunto fino a noi così come ce lo ha tramandato Liutprando da Cremona.
Perché Genova non dovesse più subire simili offese si decise l’erezione delle più antiche mura cittadine di cui si abbia notizia.
Sul tracciato delle quali, opportunamente ampliate circa duecento anni più tardi, sorgeranno quelle ancor oggi visibili, dette del “Barbarossa”.
Nel 1407 divenne, per volere del Maresciallo di Francia Boucicault, sede del Banco delle Compere di San Giorgio, la più antica banca del mondo, che riuniva sotto di sé tutti i monopoli e le compere della Repubblica.
Divenne così potente da essere autonomo dal governo e da far dire a Machiavelli: “Uno Stato nello Stato”
di una prigione e della Banca più antica del mondo…
Edificato nel 1257 da Frate Olivero, per volere del capitano del Popolo Guglielmo Boccanegra Palazzo San Giorgio veniva chiamato “Palazzo del Mare” perché costruito su uno scoglio bagnato sui tre lati.
In seguito venne utilizzato come Dogana per le navi che proprio lì di fronte attraccavano.
Nelle sue segrete venne rinchiuso il veneziano Marco Polo che dettò al pisano Rustichello la stesura del celebre Milione”
Nel 1407 fu, per volere del Maresciallo di Francia Boucicault, sede del Banco delle Compere di San Giorgio, la più antica banca del mondo, che riuniva sotto di sé tutti i monopoli e le compere della Repubblica.
Divenne così potente da essere autonomo dal governo e da far dire a Machiavelli: “Uno Stato nello Stato”.
A metà del ‘500 venne costruita la parte rinascimentale lato mare, mentre quella medioevale era lato Sottoripa.
All’esterno sono presenti delle teste leonine, bottino di guerra, proveniente dal Palazzo dei Veneziani di Costantinopoli.
Sulla facciata della parte rinascimentale oltre all’affresco di S. Giorgio che uccide il Drago (mirabile opera di Lazzaro Tavarone del 1606 restaurata nel 1990 dal Maestro Raimondo Sirotti), sono rappresentati i sei Padri della Patria:
Caffaro (l’autore degli “Annali” che raccontano l’epopea della Repubblica dal 1099 al 1163), Boccanegra (eletto primo Doge nel 1339), G. Embriaco (il conquistatore di Gerusalemme nel 1099), il Principe A. Doria (Ammiraglio supremo di tutte le forze cristiane), C. Colombo (Ammiraglio ed esploratore per conto della Spagna) e B. Assereto (Ammiraglio e Condottiero della Repubblica, eroe della battaglia di Ponza del 1435).
“La sala del Capitano”. Foto tratta dal sito di Palazzo San Giorgio.
All’ interno sono degni di nota nell’atrio la Statua della Madonna Regina e il casellario delle gabelle.
Ai piani superiori le segrete dove erano custoditi gli immensi tesori, il Salone delle Compere con le statue dei più importanti azionisti del Banco e infine la Sala del Capitano, piastrellata in meravigliosi azulejos (piastrelle in rilievo policrome di fattura araba).
Essendo stata anche dimora dei Conservatori del Mare, oggi è sede del Consorzio Autonomo del Porto.
“La sala delle Compere”.
In Copertina: Il fronte lato mare di Palazzo San Giorgio.
La tradizione per convenzione adotta il 1128 come anno di fondazione del nostro Faro ma si sa che già precedentemente, nel luogo dove sarebbe poi sorta si bruciavano steli di brisca, la ginestra raccolta a Briscata in Val Bisagno, per comunicare con le navi.
Leggenda narra che, proprio come accadeva nell’antico Egitto con gli architetti delle Piramidi, il suo costruttore perché non replicasse simil prodigio, una volta terminata l’opera venne buttato giù dalla torre.
Un’altra versione di tale vicenda racconta invece che il maestro venne eliminato per non corrispondergli il dovuto emolumento.
Dopo questa breve escursione nelle favole senza fondamento torniamo piuttosto alla storia, quella vera.
La Lanterna aveva la duplice funzione di faro e fortificazione e tutti gli utenti del Porto erano tenuti a contribuire alla sua manutenzione.
A partire dal 1320 venne dotata di cinquantadue lampade ad olio e di vetri piombati provenienti da Altare e Masone.
Nel 1507 ai suoi piedi, per volere dei francesi, venne edificata la fortezza della Briglia per controllare la città dal mare così come facevano dal Castelletto da terra.
I Genovesi si ribellarono e distrussero i simboli dell’occupazione straniera.
Nel demolire la Briglia la Lanterna venne danneggiata e rimase per circa trent’anni senza un piano, a metà.
Comprendendo la scogliera di Capo di Faro, Promontorio o San Benigno, che dir si voglia, su cui svetta, alta 117 metri, la Lanterna ci illumina e ci protegge in “saecula saeculorum”.
di partite a scacchi… e di vendette…. quando si dice perdere la Trebisonda…
Siamo nel 1314 e Megollo Lercari è ospite di Alessio II Re di Trebisonda sul Mar Nero, quando, durante una partita a scacchi, viene provocato e insultato da un suo cortigiano, un tal Andronico, favorito del sovrano.
Megollo viene placato dai presenti mentre il Re prende le difese del suo suddito.
Lercari, infuriato, rientra a Genova, raduna amici e parenti, arma due galee e ritorna nel Mar Nero, posizionandosi all’ingresso del porto della città turca impedendo a chiunque di avvicinarsi, pena il taglio di nasi e orecchie che vengono conservati in un vaso di salamoia.
Commosso da un vecchio marinaio, pronto a sacrificarsi pur di salvare i tre nipoti a bordo con lui, lo grazia affidandogli il vaso da consegnare al Re.
Questi, intimorito, consegna il suddito insolente al nobile genovese il quale, raggiuntolo sulla spiaggia tremante, gli intimò di girarsi e gli sferrò un calcio nel sedere, proferendo il famoso epitteto, alludendo sarcasticamente al rapporto intimo che lo legava al monarca:
“Non aver paura… non sai che i Genovesi non se la prendono con le femminucce”.
Secondo un’altra versione che non cambia la sostanza Megollo sferrò un calcio nel volto di Andronico. Il genovese stipulò nuovi accordi commerciali, ottenne privilegi daziari e il permesso di costruire un fondaco nella città turca. Le vicende del condottiero sono illustrate al piano nobile di Palazzo Lercari da un dipinto di Luca Cambiaso e, presso Villa Spinola di San Pietro a Sampierdarena, in un ciclo d’affreschi del 1622 – 1625, da Giovanni Carlone, figlio del più celebre Taddeo.
Ecco perché nella parte esterna di S. Lorenzo è presente una scacchiera e, in Via Garibaldi, il Palazzo Lercari mostra sul portone d’ingresso due telamoni, scolpiti da Taddeo Carlone, privi di nasi e orecchie.
In Copertina: Il portone con i telamoni di palazzo Lercari Parodi in Via Garibaldi n. 3. Foto di Stefano Eloggi.
Incastonata sulla parete esterna di sinistra della Cattedrale di S. Lorenzo compare una misteriosa scacchiera.
Questa appartenne a Megollo Lercari che nel 1314, ospite a Trebisonda del Re Alessio II, venne durante una partita a scacchi, da un suo cortigiano insolentito, un tal Andronico.
Megollo diede scacco matto al suo avversario e, come già narrato in apposito post, mise in atto la sua terribile e feroce vendetta:
“Sappi tu e sappiano i Greci tutti che chi offende un genovese deve attendere inesorabile il castigo.
Noi genovesi siamo tutti della stessa tempra, per cui se io fossi morto o preso prima che la mia vendetta fosse compiuta, altri genovesi sarebbero giunti a portarla a termine”.
La scacchiera ricorda lo scacco matto della vendetta lavata con il sangue dal valoroso genovese.
Non tutti però concordano con questa versione. Almeno altre due sono le ipotesi accreditate dagli studiosi: la prima legata e correlata ad altre simbologie presenti in Cattedrale, rimanda ai cavalieri Templari dei quali la scacchiera sarebbe una esoterica testimonianza. La seconda, riferita dal Caffaro nei suoi Annali, racconta di una disputa, nel XII sec. al tempo della nascente rivalità fra Genova Pisa, risolta fra le due contendenti con una partita a scacchi vinta dai genovesi. In ricordo di quella vittoria la scacchiera sarebbe stata così murata in S. Lorenzo.
Nel ‘500, al tempo di Carlo V, A. Doria fece una scelta strategica che avrebbe segnato in positivo le sorti della città.
Optando infatti per l’alleanza con la Spagna ai danni della Francia contribuì al secolo di maggior splendore economico della Superba.
Non solo A. Doria venne nominato Ammiraglio Capo di tutto l’Impero e, più tardi di tutte le forze cristiane, ma anche le maestranze genovesi ottennero numerose e lucrose commesse per l’armamento della flotta spagnola.
Da un lato i genovesi, in particolare gli Spinola, i Doria e i Centurione finanziarono con ingenti prestiti le attività militari dell’Impero, dall’altra ottennero di occuparsi in esclusiva di tutte le attività marittime ai danni degli Aragonesi, i più importanti esperti di mare iberici.
Tanta era l’opulenza della Superba che venne coniato il famoso adagio “L’oro nasce in America, cresce in Spagna e muore a Genova”.
Proprio in quel periodo cominciò a circolare in città una moneta spagnola il Blanco che, per storpiatura onomatopeica planco, palanco, si cristallizzò infine in “palanca” dando così origine al modo, ancor oggi in uso, di indicare i soldi tanto caro a noi zeneizi.
Il 7 ottobre 1571 si scontrano presso Lepanto, nel mar greco, le flotte navali più importanti dell’epoca.
In gioco non c’è solo la supremazia marittima, ma molto di più, la sussistenza stessa dell’Occidente cristiano minacciato dall’Impero ottomano musulmano di Selim II.
A rappresentare l’Occidente si costituisce la Lega Santa a cui aderiscono Venezia, lo Stato Pontificio, l’Impero spagnolo Regno di Napoli e Sicilia compresi, i Ducati di Savoia e Urbino, i Cavalieri di Malta, il Granducato di Toscana e, naturalmente Genova.
Il comando supremo è affidato a Giovanni d’Austria reale di Spagna, al suo fianco lo seguono al centro, il Colonna ammiraglio pontificio, il Venier veneziano, il Giustiniani per i Cavalieri di Malta e lo Spinola per i genovesi.
Di fronte, al centro, le galee del Sultano Ali Pascià, comandante generale della Sublime Porta.
A destra, alla flotta comandata dell’ammiraglio turco Shoraq, i cristiani oppongono quella guidata dal veneziano Barbarigo.
Infine, ma non ultimo, sul fronte sinistro si scontrano quelle guidate da Uluc Alì da una parte e Gianandrea Doria, pronipote di Andrea, dall’altra.
È qui che si decide lo scontro le 53 galee del genovese affrontano le 90 del turco e con manovra di allargamento per evitarne l’accerchiamento, contribuiscono a rompere l’equilibrio e a decidere l’esito finale.
In tutto 204 galee e 84000 uomini (fra marinai, soldati e rematori) della Lega Santa contro 216 imbarcazioni e 88000 infedeli della Sublime Porta.
Ad onor del vero, per giustificare la cocente sconfitta turca, ne va riconosciuta l’inferiorità sotto l’aspetto armamentale (artiglieria con potenza di fuoco di gran lunga minore).
Se pare azzardato sostenere che a seguito di questa battaglia non siamo diventati seguaci del Profeta perché, di fatto, l’episodio non ha spostato gli equilibri militari e politici del conflitto, quanto meno è possibile affermare che abbia avuto una significativa valenza simbolica nel comune sentire occidentale.
I vessilli della Capitana di Alì Pascià, bottino di guerra dei toscani, sono esposti nella chiesa di S. Stefano a Pisa.
Quello di Ulic Alì conquistato dal Doria è custodito presso la Villa del Principe a Genova.
Anche gli stendardi conservati nella Cappella dei Ragusani in Santa Maria di Castello, secondo la tradizione, avrebbero la medesima provenienza e sarebbero le famigerate bandiere strappate dai genovesi ai turchi. In realtà di quella di sinistra, senza alcuna insegna, non si sa niente. Di documentato e accertato non vi è nulla. Potrebbe si provenire da Lepanto ma gli studiosi hanno molti dubbi in merito. Di quella di destra, con le mezze lune e le scimitarre bifide, si è invece sicuri che abbia un’altra origine. A seguito infatti di una recente perizia sui tessuti, sarebbe stata datata a cavallo tra ‘500 e ‘600 e, quindi, di epoca di qualche decennio posteriore agli eventi. In ogni caso, non per questo, sono meno significative.
Si tratta comunque di stendardi ottomani autentici conquistati in qualche successiva battaglia.
Trofei gelosamente conservati a gloria perenne.
Orgoglio genovese!
In Copertina: la teca contenente i vessilli ottomani. Foto di Leti Gagge.