Fin dal Trecento la Magistratura dei Conservatori del mare (il più antico organismo preposto a tutte le attività concernenti le acque e la marineria) aveva regolamentato e sancito il diritto al mugugno.
Un privilegio accordato agli imbarcati camoglini, i più bravi su piazza, ai quali venne concesso, oltre ad una migliore paga, il diritto di lamentarsi.
I genovesi infatti, in ambito marinaro, non tolleravano ordini o ingerenze da chicchessia quindi presero a brontolare e borbottare.
Vennero quindi stabiliti due tipi di ingaggio. il primo prevedeva paga elevata e niente mugugno, il secondo paga decurtata e diritto a lamentarsi.
Questa consuetudine venne interrotta e abolita nel ‘500, ai tempi dell’ammiraglio Andrea Doria quando questi propose ai suoi equipaggi migliori condizioni di lavoro (ad esempio riduzione dei turni di voga) e alimentari (carne essiccata a bordo al posto delle solite sbobe) nonché un salario più cospicuo in cambio della rinuncia.
Terminata l’epoca dell’ammiraglio i marinai della Superba continuarono a rinunciare a parte dell’ingaggio pur di mantenere il loro secolare diritto.
La quint’essenza dei genovesi deriva quindi dalla loro pretesa e manifesta superiorità marinara.
Il mugugno è catartico, basta a se stesso, non chiede, non pretende, proprio come l’indole dei zeneizi.
In origine la torre trecentesca, come anche il sottostante palazzo, apparteneva alla famiglia Fieschi. Accorpata al Palazzo Ducale è collegata da un arco al Palazzetto Criminale adibito ai malfattori comuni.
La torre era invece destinata ai prigionieri politici o comunque di riguardo. Nelle sue celle (una di queste “la Grimalda” dà il nome alla costruzione) furono rinchiusi personaggi straordinari:
Il Doge Paolo Da Novi, ribelle contro l’occupazione francese, poi decapitato; il pirata saraceno Dragut, il luogotenente del Barbarossa catturato dal Principe Doria; i cospiratori contro la Repubblica come Vacchero e Raggio; il violinista Paganini, il musicista più famoso del suo tempo, reo di aver molestato una minore; artisti come il Mulier, detto “Il Tempesta”, celebre per le sue tele marittime, accusato, ingiustamente, di uxoricidio; altri pittori che, durante la loro reclusione, hanno decorato i loro alloggi come Sinibaldo Scorsa, Domenico Fiasella, Luciano Borzone e Andrea Ansaldo.
Il mio pensiero però va a Jacopo Ruffini, compagno di Mazzini che, torturato e violentato, piuttosto che tradire i suoi ideali ed elencare i nomi dei membri della Giovine italia, ha preferito il suicidio.
Subito mi accarezza la mente la struggente “Preghiera in gennaio” di De André, dedicata all’amico Tenco.
Con il sangue delle vene recise ha scritto sul muro della cella: “la risposta?… la vendetta dei miei fratelli”.
si raffinano in nessun modo; sono pietre massicce che non si lasciano tagliare”.
“Genovesi non sono affatto socievoli; e questo carattere deriva piuttosto dalla loro estrema avarizia che non da un’indole forastica: perché non potete credere fino a che punto arriva la parsimonia di quei principi. Non c’è niente di più bugiardo dei loro palazzi. Di fuori, una casa superba, e dentro una vecchia serva che fila. Se nelle case più illustri vedete un paggio, è perché non ci sono domestici. Invitare qualcuno a pranzo è a Genova una cosa inaudita…
… Quei bei palazzi sono in realtà, fino al terzo piano, magazzini per le merci. Tutti esercitano il commercio, e il primo mercante è il Doge. Tutto questo rende gli animi della gente assai bassi, anche se molto vani. Hanno palazzi non perché spendano, ma perché il luogo fornisce loro il marmo. Come ad Angers, dove tutte le case sono coperte di ardesia. Hanno tuttavia dei piccoli casini lungo il mare, abbastanza belli; ma la bellezza è dovuta alla posizione e al mare, che non costano nulla. I Genovesi di oggi sono tardi quanto gli antichi Liguri. Non voglio dire con questo che non intendano i loro affari: l’interesse apre gli occhi a tutti …
… C’è una cosa ancora: che i Genovesi non si raffinano in nessun modo: sono pietre massicce che non si lasciano tagliare. Quelli che sono stati inviati nelle corti straniere, ne son tornati Genovesi come prima”.
Probabilmente nelle intenzioni del celebre giurista e filosofo francese questo lapidario giudizio finale non suonava di certo come un complimento, a me invece pare un meraviglioso quanto involontario omaggio alla tenacia dei nostri avi.
Che Montesquieu non provasse simpatia e stima per la nostra stirpe è confermato da altri appunti annotati nel suo “Viaggio in Italia” del 1728:
“C’è sempre un nobile Genovese in viaggio per chiedere perdono a qualche sovrano delle sciocchezze che fa la sua repubblica”.
Addirittura disprezzo per i diplomatici della Repubblica…
“Non c’è stato in Europa che sia stato sottoposto a tanti soprusi come quello di Genova, e che si sia comportato con tanta bassezza nei vari intrighi in cui sia venuto a trovarsi”
E se i genovesi non erano di suo gradimento figurarsi le loro donne di cui lamenta spocchia e superbia…
“I Genovesi sono molto paurosi, anche se orgogliosissimi.
Le signore sono molto altezzose…
… Ed io dicevo che mettere le signore di Genova al rango delle principesse di Francia era come mettere dei pipistrelli sullo stesso piano delle aquile”.
Nemmeno il soggiorno ha soddisfatto il filosofo..
“Io sono stato otto giorni a Genova e mi sono annoiato a morte: è la Narbonne d’Italia. Non vi è nulla da vedere salvo un bel porto, ma assai pericoloso; case costruite in marmo perché la pietra è troppo cara; e degli ebrei che vanno a Messa”…
Insomma la Superba non gli è proprio piaciuta:
“Non è una gran fortuna abitare in questa città. Per prima cosa, il popolo è oppresso da monopoli sul pane, sul vino e su tutti i generi alimentari. È la Repubblica stessa che vende questi generi. La punizione dei crimini è così mal organizzata che risulta minor disgrazia aver ucciso un uomo che aver frodato su un’imposta”.
Certo non si è speso in descrizioni dettagliate, anzi è stato proprio essenziale, ma anch’egli non è rimasto indifferente al fascino della città vista dal mare
“La città, vista dal mare, è molto bella. Il mare penetra nella terra, e fa un arco, intorno al quale è la città di Genova”.
Seguendo la tradizione San Siro, vissuto per alcuni nel quarto secolo d. C, per altri nel sesto, sarebbe il secondo Vescovo di Genova.
La sua storia giunge ai giorni nostri tramandata dalla “Historia Genuae” di Jacopo da Varagine, autore, fra l’altro, anche della ben più celebre “Legenda aurea”.
Secondo questo racconto, in un pozzo poco distante dalla cattedrale dei Dodici Apostoli, appunto odierna S. Siro (dove, per altro sarà battezzato un altro apostolo, quello della libertà, il Mazzini), viveva un terribile serpente (rappresentato anche come un gallinaccio) che, con il suo alito pestilenziale, infestava la città.
Dopo inutili preghiere, penitenze e digiuni, Siro si recò al pozzo e, calatovi un secchio gli intimò di salirci dentro per farsi tirare fuori.
Il basilisco, ammansito, si raggomitolò nel secchio e così il Vescovo poté mostrarlo al popolo.
Senza minaccia alcuna gli impose di raggiungere il mare, cosa che il mostro fece, senza opporre resistenza.
Il miracolo è raffigurato in un meraviglioso affresco del diciottesimo secolo nel coro della chiesa ad opera del Carlone. Questi, ricercato per omicidio, si era lì rifugiato, godendo del diritto di asilo del luogo sacro e, con il suo affresco, aveva inteso sdebitarsi.
S. Siro e il basilisco anticipa alcuni dei temi e dei segni che caratterizzeranno il simbolo militare di Genova, S. Giorgio e il drago.
In realtà Siro apparteneva alla corrente religiosa che si opponeva all’arianesimo, qui dal serpente rappresentato, sconfitto dalla verità e capacità di persuasione del Vescovo.
Le notizie sulla chiesa di S. Michele Arcangelo e Santa Maria dell’Incoronata si perdono nella notte dei tempi allorquando, una misteriosa Madonna lignea comparve sulla spiaggia di Caput Arenae e, spostandosi continuamente, si lasciò cogliere solo sulla collina di Coronata.
Al suo interno, fra le tante opere d’arte, interessante come testimonianza dal punto di vista storico una tela ottocentesca raffigurante il Doge Tomaso di Campofregoso in pellegrinaggio al Santuario in segno di ringraziamento per una battaglia navale contro gli Aragonesi, avvenuta nel 1420.
Nel 1887 padre Persoglio, rovistando negli archivi, ci trasmise in stretto genovese, una curiosa storiella accaduta, pare, in pieno Medioevo:
Paciuga, ogni sabato, dalla sua abitazione nel borgo di Prè si recava, dopo lungo scarpinare, al Santuario per pregare e chiedere il ritorno, sano e salvo, di Paciugo, il marito marinaio catturato dai Turchi.
I vicini, malelingue, pensarono subito ad una tresca e sparsero in giro tale menzogna.
Un bel giorno Paciugo, sfuggito ai Musulmani, riapparve in Darsena ma, prima che gli abbracci della moglie, lo accolsero le altrui calunnie.
Il marinaio, con il cuore gonfio d’odio, corse a casa e, per festeggiare il suo avventuroso rientro, invitò la sua bella ad una gita in barca. Giunto al largo, accusò la moglie e, nonostante le sue accorate smentite, la affogò.
Appurato, in seguito, che Paciuga era stata sincera, non sapeva darsi pace per l’orrendo assassinio.
Fu allora che la Madonna, colpita dal suo sincero pentimento, lo condusse al Santuario dove poté riabbracciare la sua fedele sposa.
Nel gennaio del 1636 il porto di Genova è devastato da una terribile mareggiata che, di fatto, spazza via tutte le navi. A Zena si sa, non si butta via niente così i rottami delle imbarcazioni vengono messi all’asta.
Due marinai acquistano una prosperosa polena appartenuta ad una nave d’alto bordo irlandese e, in attesa di decidere cosa farne, la ripongono in un magazzino di un palazzo della famiglia Lomellini.
Lì rimarrà dimenticata per settanta lunghi anni fino a quando un bambino cadrà dall’ultimo piano di quell’edificio rimanendo illeso.
Il fanciullo alla gente accorsa incredula racconterà di essere stato preso in braccio da una bella signora vestita d’azzurro, uscita dal magazzino.
Sfondata la porta, trovarono l’azzurra polena e subito la vestirono con abiti sacri e la portarono nella vicina chiesa.
Ancora oggi, per chi ci crede, è venerata nella chiesa di San Carlo in Via Balbi, con il nome di “Madonna della Fortuna” perché fu un vento di fortunale a portarla nella nostra città e porta fortuna a chi la onora.
“Genova, aria senza uccelli, mare senza pesci, monti senza legna, uomini senza onore e donne senza pudore.”
Questo proverbio viene erroneamente attribuito a Dante, in realtà è molto più recente e di origine meno nobile.
Il primo che ne dà notizia è lo scrittore russo Sylvester Scedrin che, nel 1829, lo annota fra i suoi appunti affermando di averlo sentito recitare da marinai del posto.
Qualche anno più tardi nel 1837, nelle sue “Memorie di un turista” Stendhal sosterrà di aver fatto proprie queste parole riprendendole da Montesquieu.
Non è chiaro se viaggiatori inglesi, prima ancora di russi e francesi, abbiano udito questo detto dai naviganti genovesi o viceversa.
In ogni caso questo proverbio da lungo tempo fotografa l’asprezza dell’ambiente nostrano.
In Vico dietro il coro delle vigne, nei pressi dell’omonima chiesa, aveva sede sul finire del ‘600 un’osteria che, nel 1702 si trasformò in un teatro molto popolare.
Spesso offriva spettacoli di girovaghi scatenando, per questioni di moralità, la repressione delle autorità cittadine: “si permettono gesti, motti, atteggiamenti ed anche abbracciamenti che non sono degni di una nazione civile e gentile”.
Ad inizio ‘800 vi si esibì la Compagnia di burattini Sales Bellone famosa per le gesta del vivace contadino piemontese Gerolamo, personaggio da loro creato.
Essendo Girolamo anche il nome del Doge dell’epoca (Durazzo) la polizia impose, per scongiurare imbarazzi, il mutamento del nome in “Giuanin d’la douja”(Giovanni della Foglietta) che, nel tempo, si trasformò in Gianduja.
Così nacque la più famosa maschera piemontese e, più tardi, l’accostamento al celebre cioccolatino.
In Copertina: immagine di Gianduja maschera piemontese (Asti, Torino). Tratta dal sito castellalfero.net
Nella versione originale nata nel ‘400 la “Pizza di Andrea”, “Piscialandrea”o “Pissaladiera” era una focaccia cotta in tegame, ricoperta di acciughe distese su uno strato di cipolle.
In seguito fu arricchita di altri ingredienti come il pomodoro (proveniente dal Nuovo Mondo), l’origano, i capperi e le olive (fra cui le odierne taggiasche) liguri della riviera.
Questa, secondo la leggenda, sarebbe la versione cara all’ammiraglio Andrea Doria.
400 g di farina 00 • 15 g di lievito di birra fresco • 150 ml di latte • 2 cucchiai di olio d’oliva • sale q.b.. 1 kg di pomodori pelati • 2 cipolle • 100 g di acciughe sott’olio • 100 g di olive
. 1 spicchio d’aglio ed una manciata di capperi dissalati.
Nel corso dei secoli in tutto il ponente, Francia compresa, si sono diffuse numerose varianti, la più celebre delle quali è la “Sardenaira” sanremese, nota anche con il nome di “focaccia o pizza di Sanremo”.
A Ventimiglia “Pisciadèla, nel nizzardo “pissaladiera”, pissaladière in Francia.
Per quanto affascinante sia, va detto che la vicenda legata ad Andrea Doria non ha alcun fondamento.
Non esistono infatti documenti storici che attestino la predilezione di Andrea per questo piatto. Secondo i linguisti la genesi del termine non avrebbe dunque nulla a che fare con la fantasiosa associazione. Il vocabolo “pissaladiera, pissaladiėre” deriverebbe dal nizzardo “pes (o pis) salat”, pesce salato che sarebbe quindi, con buona pace della suggestiva versione legata al grande onegliese Principe di Melfi, l’interpretazione corretta.
In Copertina: la Sardenaira. Foto e preparazione di Yurick Balbo.
I Crociati nostrani, insieme a quelli fiamminghi e provenzali, rimasti a guardia del Tempio, diedero origine al secolare ordine dei Templari.
Si esercitavano nella zona del Vastato (o “Guastato”), dove oggi sorge la chiesa dell’Annunziata, partecipavano a veri e propri tornei di selezione banditi in tutta la Repubblica.
Dovevano avere una certa prestanza e soprattutto una notevole mira per utilizzare la “manesca” (nome della balestra genovese) e scagliare i loro dardi fino a quattrocento metri di distanza con precisione assoluta.
La paga era cospicua ma i contratti rinnovati annualmente. Per poter issare lo stendardo di S. Giorgio dovevano salpare almeno cinque galee in assetto da guerra con almeno una “Bandiera” per legno, a bordo.
La “Bandiera” era una formazione di venti balestrieri comandata da un “Conestabile”. I francesi in particolare, ma anche quasi tutti gli altri eserciti europei, li noleggiavano pagando lauti compensi alla Repubblica.
I contingenti potevano raggiungere anche qualche migliaio di individui e, fino all’avvento della polvere da sparo, erano considerati un po’ i “marines” del loro tempo.
Addirittura Federico II, catturatone una formazione nel 1247, fece loro mozzare le dita e orbare gli occhi perché non potessero più nuocere in battaglia.
Il loro utilizzo toccò l’apice durante la Guerra dei Cent’anni a fianco dei francesi e perdurò ancora per gran parte del Cinquecento.