Gli approdi della nostra regione sono costellati di spontanee edicole, sorte a ringraziamento per il ritorno dei naviganti.
Speranza, sussistenza, pescato, ignoto, viaggio, tempesta, guerra, bottino, paura… di non farcela… per questo, i marinai liguri lo sanno bene, prima e dopo aver affrontato il mare è sempre bene affidarsi alla Madonna.
Di tutte la più cara ai genovesi è “A Madonnin-a dei pescoei” di Sturla per la costruzione della quale hanno contribuito tutti i marinai del borgo: “O Maria i pescatori di Sturla ti hanno portato tutti una pietra ora ti diranno sempre un’Ave Maria”. Intorno, incastonate fra le conchiglie, altre lapidi riportano alcuni versi della Stella Maris, l’Ave Maria in genovese di Piero Bozzo.
“Ave Maria da questo altare guarda sempre chi è per mare” e ancora “Ave Maria, Campana che suoni in mezzo al verde con una voce secolare tanto cara; in questa pace l’anima si perde e i tuoi rintocchi invitano a pregare”.
Un’altra targa rammenta invece i versi della canzone di Costanzo Carbone intitolata appunto ” la Madonnin-a dei pescoei patrimonio delle esecuzioni dialettali dei Trallalero.
“Lazzu un lumin lontan, ne o mà de Sturla” (Laggiù un lumino lontano, nel mare di Sturla)
“O brilla, o scomparisce, o s’allontann-a”. (Brilla, poi si spegne, s’allontana)
Nel 1607 i Serenissimi Collegi al fine di disciplinare la discutibile condotta di molti nobili, rei di non comportarsi in maniera conforme al loro status, introducono la legge di “biglietti di calice”.
Il piccolo consiglio si riunisce così una volta al mese per giudicare ed eventualmente esiliare i patrizi ritenuti colpevoli. Si stabilisce di aprire delle buche nei muri perimetrali dei cortili di palazzo Ducale e di disporre, durante le riunioni del Collegi, dei calici in cui i cittadini avrebbero potuto consegnare in modo anonimo le proprie rimostranze.
I biglietti di calice erano così chiamati per via della forma dei recipienti che venivano utilizzati per contenerli. Fra gli argomenti si trovava un po’ di tutto: consigli, suggerimenti, proposte, ma anche lamentele, delazioni e mugugni insomma una sorta di prototipo di cassetta delle idee.
Fatta la legge trovato l’inganno infatti, se da un lato questo tipo di denuncia anonima permise ai Supremi Sindacatori di intervenire con risolutezza nelle situazioni più scabrose, dall’altro, molto più spesso, le fitte relazioni e i legami di potere fra le famiglie ne attenuarono la funzione punitiva.
Il 9 febbraio del 1941 Genova subisce il secondo bombardamento navale inglese di una certa portata, un grande proiettile calibro 381 sfonda il tetto della cattedrale durante una funzione religiosa ma, miracolosamente, rimane inesploso.
“Questa Bomba/ lanciata dalla flotta inglese/ pur sfondando le pareti/ di questa insigne cattedrale/ qui cadeva inesplosa/ il IX febbraio MCMXLI./ A riconoscenza perenne/ Genova/ città di Maria/ volle incisa in pietra/ la memoria di tanta grazia.”
In realtà l’ordigno inesploso il 18 febbraio venne rimosso dai Vigili del Fuoco e artificeri, caricato su un autocarro, trasbordato su di una chiatta e rigettato in mare al largo del golfo. Un altro invece, caduto poco distante, non risparmiò il vicino edificio dell’Archivio di Stato.
Quindi la bomba che ammiriamo in chiesa, seppur corrispondente alle stesse caratteristiche, non può essere la stessa piovuta dal cielo in quella drammatica circostanza, più probabilmente si tratta di un’altra granata, trovata nelle vicinanze, anch’essa non scoppiata e posta dai fedeli nella navata laterale a eterno ricordo dell’offesa subita.
all’inizio del 1100 Genova si presentava come una roccaforte turrita munita di sessantasei poderosi torrioni.
Sul finire del secolo nel 1196 però, a causa delle continue lotte intestine, il console Drudo Marcellino decretò che fossero tutte mozzate e avessero altezza massima di ottanta palmi (venti metri).
Quella dell’Embriaco, dominatore di Cesarea e conquistatore di Gerusalemme, alta ben centosessantacinque palmi (circa quarantuno metri) venne invece, probabilmente per rispetto al prestigio della famiglia, risparmiata.
Dal ‘500 risulta accorpata all’attiguo Palazzo Brignole Sale ma in realtà, secondo molti storici sarebbe solo una delle diverse torri, e nemmeno quella più antica, presenti nel nucleo originario di Sarzano, di proprietà non dell’Embriaco bensì dei De Castro, un’altra nobile schiatta di quel tempo.
La torre, di pietra bugnata proveniente da materiale di recupero della precedente cinta muraria anteriore al nono secolo d.C., alla sua sommità è costituita da tre fregi di archetti dentellati in laterizio con peducci in pietra. La posticcia merlatura di tipo guelfa è stata aggiunta successivamente dall’architetto Grosso nel 1927 in occasione dei lavori di ristrutturazione. Nel 1996, causa un fulmine, è rimasta mutilata da un lato conferendole l’attuale fisionomia.
Sul basamento della torre è stato affisso, per volere degli allora proprietari della costruzione, i Brignole Sale, il decreto del Podestà che recita:
“Opera degli Embriaci, Coetanea al Patrio Comune/ dalle Leggi dell’Eccedente Sua Altezza Rispettata/ Benché Trapassata in Cattaneo, in Sale, in Brignole Sale/ Recando ai Posteri/ in un Colla Piazza Palagio e Via il Nome dei Fondatori/ Sta/ di Pietoso Eroismo e di Civile Grandezza/ Monumento e Testimonio/ Ludovica Brignole Sale in Melzi d’Eril/ v’Appose Quest’Epigrafe. Nel MDCCCLXIX. (1869).
Qui si trovava il primitivo “Castrum” cittadino la cui relativa porta di accesso era localizzata sulla collina di Castello. Nelle antiche descrizioni degli Annali e sul “genovino”, la moneta ufficiale del Comune, tale zona era infatti raffigurata come un doppio porticato puntellato da tre torri, i resti delle quali, nonostante diversi ritrovamenti, non sono mai stati identificati con certezza.
A tal proposito nel dopoguerra, durante i lavori di recupero della zona bombardata, sono stati rinvenuti i ruderi di due torri utilizzate come basamenti per le costruzioni sovrastanti. La prima lungo il lato orientale delle mura, la seconda all’interno di quello che, un tempo, era il Palazzo del Vescovo, poi convento della chiesa di San Silvestro.
E allora dove e quale sarebbe la vera torre Embriaci?
Secondo un’ipotesi ormai condivisa dalla maggior parte degli studiosi, il vanto di “Testa di maglio” sarebbe invece riconducibile al basamento che funge oggi da varco nell’attigua Piazza Santa Maria in Passione. Tale teoria, suffragata da recenti ritrovamenti e scoperte, ha sostituito e soppiantato la precedente vulgata tramandata per secoli.
Entrando infatti nella sala delle conferenze della vicina Casa Paganini (ex chiesa del convento di S. Maria delle Grazie la Nuova) attraverso una botola si può accedere allo scavo che ha portato alla luce la sottostante originaria base della primitiva torre.
Sul lato del portale di San Gottardo angolo Via San Lorenzo, alzando lo sguardo si nota la familiare statua colonna, di fattura provenzale detta dell’ “arrotino”, in cui il protagonista regge in mano una curiosa pietra tonda.
La struttura poggia su un leone stiloforo del XIII sec. a sua volta sostenuto da una mensola recante l’effige di S. Matteo. Ai piedi della statua due teste attaccate di figure antropomorfe. Ai tre lati del basamento sono scolpite in sequenza una scena di lotta con un leone, un cane che bracca una preda e una scena di lotta con un altro cane. Altri animali magici alati sulla schiena del leone stiloforo si mordono il corpo vicino ad un animaletto rampante attaccato all’anello della colonna.
Dall’altro lato, verso Scurreria, in corrispondenza del portale di San Giovanni il Vecchio un altro leone stiloforo poggia su una mensola con sopra scolpita un’aquila, simbolo di San Giovanni Evangelista. Si presume perciò che l’arrotino, come la Lanterna, avesse una statua gemella andata perduta.
Ma chi è il misterioso personaggio che sorveglia il nostro andirivieni quotidiano? dell’identificazione con San Giovanni Evangelista la più plausibile, abbiamo già detto. Tuttavia secondo altri invece rappresenterebbe Jacopo da Varagine, il celebre arcivescovo, incontrastato signore dell’influente curia genovese, autore della “Legenda Aurea” (una sorta di biografia di santi un vero best seller per tutto il Medioevo) e del “Chronicon Ianuense” (un importante resoconto storico sulla città dalle origini al 1297) oppure, più banalmente il ritratto di uno dei tanti scultori che lavorò al prospetto della cattedrale.
Per altri ancora sarebbe Janus, il principe troiano dal quale deriverebbe il mito del Giano fondatore della città.
Anche sul cerchio, parafrasando il poeta “avrei poi da ridire”; per taluni è una semplice meridiana circolare o, al limite, un piatto con una croce scalpellata che rappresenterebbe simbolicamente la pietra di fondazione del tempio.
Ma i genovesi, si sa, sono gente pragmatica e da sempre l’hanno interpretato come la mola di un arrotino, a campione dei tanti artigiani che collaborarono all’erezione del loro amato duomo cittadino.
quando il giovane marchese Musso Piantelli cedette al Genoa, di cui era socio, i terreni occupati dal suo galoppatoio per costruirvi nel 1911, parallelo al prato della Cajenna utilizzato dai rivali dell’Andrea Doria, il primo stadio di football in Italia. I due campi confinanti erano divisi da uno steccato di proprietà dei rossoblù per il quale ricevavano dai biancoblù un canone di affitto e un rimborso per la manutenzione.
Quando nel 1910 una delle manenti del marchese a cui era stata, a causa dei lavori per l’erezione del nuovo stadio, preclusa la luce del sole necessaria alla prosperità dei suoi orti pronunciò la famosa maledizione: “Genoa non vincerai nulla per i prossimi cent’anni; non vedrai più la luce delle vittorie, così come io non vedo più la luce del sole”.
Quando nel 1926 la Cajenna venne dichiarata inagibile ed il Grifone, approfittando della situazione ne entrò in possesso, liquidando con una congrua somma gli indesiderati rivali.
Il nuovo campo venne disposto parallelamente e non più perpendicolarmente al Bisagno e, dove un tempo sorgeva il campo della Doria, venne eretta la gradinata nord, cuore indomito della tifoseria genoana.
Il primo dell’anno del 1933 venne inaugurato il nuovo impianto che aumentò la sua capienza da ventimila a trentamila spettatori e che venne intitolato a Luigi Ferraris capitano del “Vecchio Balordo”, medaglia d’argento al valor militare, caduto durante la Prima guerra mondiale. Nei decenni successivi la capacità venne adattata alle nuove esigenze della passione cittadina fino a ben oltre la soglia delle cinquantacinquemila presenze ospitando anche dal 1946, la neonata Sampdoria.
Quando in occasione di Italia Portogallo fu stabilito il record di affluenza con oltre sessantamila tifosi anche se i 57815 paganti (più circa duemila non paganti) del derby del 28/11/82 terminato 1-1, restano un dato di tutto rispetto.
Negli anni successivi non ci furono particolari stravolgimenti fino alla ristrutturazione dell’architetto Gregotti in occasione dei mondiali di Italia ’90, da allora, complici le restringenti normative di sicurezza, la capienza è andata progressivamente riducendosi fino a quella attuale di circa trentaseimila spettatori.
A Genova capita anche questo, passeggiando nella zona della Maddalena, d’imbattersi all’angolo fra l’omonima piazza e Vico Libarna in un curioso palazzo, soprannominato per via della sua originale forma, dello “Spicchio”.
Di sagoma triangolare termina strettissimo sul lato dello slargo. Venne così progettato sul terrapieno per fare da quinta scenografica al giardino sul retro del palazzo Lazzaro e Giacomo Spinola affacciato in Via Garibaldi ai numeri 8 e 10.
Proprio in corrispondenza infatti del civico n. 10, sul muro del retrostante palazzo dello Spicchio poggia un cinquecentesco ninfeo. Il giardino invece, con l’abbattimento di una grande pianta, è stato ristrutturato, per ospitare un posteggio privato sotterraneo.
Nel 1815 in seguito al Congresso di Vienna finalmente i piemontesi riescono a mettere le mani sulla nostra città, di fatto comprata dagli inglesi, i quali a loro volta, l’avevano tolta a Napoleone.
I sabaudi si dimostrano presuntuosi e ostili ma, soprattutto secondo i genovesi, completamente inetti alla gestione del porto, dei commerci e delle questioni marittime.
Così che, quando nel 1849 i Savoia sono costretti all’armistizio con gli austriaci, stufi dei soprusi subiti, i Genovesi insorgono e restituiscono la libertà alla Repubblica.
Il re Vittorio Emanuele II ordina al generale Alfonso La Marmora di sedare la rivolta: mentre una nave britannica inizia a cannoneggiare la Darsena il generale, fingendo di trattare con i ribelli, scaglia loro contro circa venticinquemila fra soldati e bersaglieri.
L’assedio dura sei giorni e, nonostante la coraggiosa resistenza della Guardia Civica, forte di circa diecimila effettivi comandati dal Pareto e dal De Stefanis, Genova è riconquistata, violentate le sue donne, uccisi i suoi figli, violate le sue dimore e chiese.
Nemmeno gli infermi e gli anziani ricoverati in ospedale vengono risparmiati, in tutto si contano centinaia di morti (secondo alcuni almeno un migliaio), la maggior parte fra la popolazione inerme.
Nel testo in francese di congratulazioni inviato all’alto ufficiale per l’esito della repressione il re non esita a definire la classe dirigente mazziniana, rea di aver istigato la rivolta, “gente vile, razza infetta di canaglie” e ancora più in generale “i Genovesi son tutti Balilla, non meritano compassione, dobbiamo ucciderli tutti”.
Al generale dei Bersaglieri, per questa mirabile impresa, viene conferita da un re raggiante la Medaglia d’oro al valor militare.
Per queste ragioni fino al 1994, anno della riconciliazione con il Corpo con la tesa rotonda e le piume di gallo, ospite a Genova in occasione del proprio raduno nazionale, la Superba si è poi sempre rifiutata di arruolarvi i propri figli.
I Genovesi, “obtorto collo” furono costretti ad erigere la scultura bronzea in onore del primo re d’Italia incaricando nel 1886 l’artista milanese F. Barzaghi proprio, ironia della sorte, in Piazza Corvetto poco distante dal suo acerrimo nemico politico di sempre, Giuseppe Mazzini.
In realtà la statua del grande genovese, ritratto in un atteggiamento pensieroso, era già presente dal 1882 vicina a quella di Maria Drago, l’intrepida madre sostenitrice.
Il re, rappresentato a cavallo, è immortalato nell’atto di togliersi il cappello in segno di saluto.
Per alcuni il significato che la scena sottintende è un bonario segno di scuse, un gesto di riconciliazione.
Per altri, ed io condivido, invece i genovesi in una sorta di rivincita morale, lo hanno voluto raffigurare in un gesto di ossequio rivolto al vero padre della patria e alla sua genitrice, nonché alla Torre Grimaldina, simbolo del potere repubblicano cittadino (in effetti il sovrano si leva il cappello in quella direzione).
Bisognerebbe chiedere l’opinione delle centinaia di vittime sacrificate all’altare delle ambizioni sabaude.
Dal 2008 per volontà della comunità e del Movimento Indipendentista Ligure sul basamento è stata posta una targa che rammenta il “vergognoso sacco di Genova”.
La Liguria non ha mai partecipato ad alcun plebiscito di annessione né al Regno di Sardegna né di quello d’Italia quindi, formalmente la gloriosa e mai doma Repubblica, nonostante proprio a Genova siano nati sia il concetto d’Italia che l’unità del Paese, non si è mai sciolta.
Il glorioso gonfalone della Repubblica simbolo millenario della città veniva, dopo solenne cerimonia e processione, consegnato dal Doge (Podestà, Consoli o Capitano del Popolo a seconda della forma di governo in vigore al momento) al comandante della galea madre prima di ogni impresa militare.
Il corteo partiva da Palazzo Ducale, attraversava San Lorenzo, proseguiva a San Giorgio e terminava in Darsena dove il Capitano (se al comando di cinque navi) o l’Ammiraglio (se le navi erano almeno dieci) ricevevano al grido di “Pe Zena e pe San Zorzo”, con l’impegno che fosse difeso e onorato ad ogni costo, il sacro vessillo.
Nonostante le sconfitte a volte subite, lo stendardo è sempre tornato a casa sano e salvo e veniva custodito e riposto nell’omonima chiesa.
Ironia della sorte furono proprio i Genovesi a fine ‘700, invasati dalle nuove idee rivoluzionarie giacobine, a distruggerlo insieme ad altri preziosi simboli della Repubblica marinara e dell’oligarchia militare e mercantile della città. Di lì a poco Napoleone avrebbe mostrato il suo vero tirannico volto e i Genovesi avrebbero a lungo rimpianto il loro santo guerriero protettore.
Oggi se ne può ammirare fedele copia come sfondo delle riunioni comunali o come prezioso testimone ad importanti celebrazioni cittadine.
Nel corso dei secoli artisti, poeti, viaggiatori hanno raccontato di Genova nelle loro opere; alcuni l’hanno lodata, altri disprezzata, molti amata, ma nessuno come lui.
Al primo gruppo appartengono Petrarca (“Vedrai una città…”), R. Wagner musicista tedesco (che arriva al punto di dire “Parigi e Londra al confronto impallidiscono”), P. Valery poeta francese (che le dedica il tempestoso componimento “La nuit de Genes), A. Cechov novelliere russo (che la definisce “la città più bella del mondo”).
Nel secondo novero si distinguono il sommo Dante (“Ahi Genovesi uomini diversi…”), E. Hemingway scrittore americano che, attraversando l’operosa Sampierdarena in una piovosa giornata, la paragona con spregio ai sobborghi di Manchester, A. Rimbaud “poeta maledetto” che ne lamenta la sporcizia e il degrado dei vicoli.
All’ultimo aderiscono, fra gli altri, E. Montale innamorato dei suoi paesaggi, E. Firpo dei suoi caruggi, C. Sbarbaro delle sue bagasce, G. Caproni dei suoi aromi, F. Nietzche del suo clima, M. Twain dell’eleganza delle sue donne e dell’opulenza dei suoi palazzi.
G. De Maupassant vi ha ambientato un suo romanzo, C. Dickens vi ha tratto ispirazione per uno dei suoi cinque celebri “Racconti di Natale”, il compositore G. Verdi la scelse a lungo come dimora prediletta (soggiornò, fra l’altro, anche nella Villa del Principe), rapito dalle paste, intitolate in suo onore,
“Falstaff”. Potrei continuare a lungo con altri illustri personaggi ma nessuno ha saputo amarla, viverla e comprenderla come F. De André che, prima di andarsene, le ha dedicato il verso più bello, a mio parere, su di lei mai scritto e che racchiude duemila anni di cultura:
“Bacan d’a corda marsa d’aegua e de sa che a ne liga e a ne porta ‘nte na creuza de ma”. Tradotto per i foresti: “Padrone della corda marcia d’acqua e di sale che ci lega e ci porta in una mulattiera di mare”.
Se tutte le strade, dicevano gli antichi, portano a Roma, a Genova portano al mare.
In Copertina: Creuza di Pieve Ligure. Foto di Cristina Campus.