Opera dello scrittore sestrese Mario Antoniettiè la suggestiva fiaba che affonda le sue radici nella leggenda e che narra le vicende di due giovani innamorati, Riva e Trigoso. La storia è ambientata ai tempi in cui Riva era un piccolo borgo di pescatori oggetto spesso delle incursioni dei pirati saraceni.
Il protagonista del racconto è un giovane molto coraggioso ed aitante, tale Trigoso, il quale amava la sua bella, dalle bionde trecce color dell’oro, di nome Riva, I due decisero di sposarsi ma, il giorno delle nozze, durante i festeggiamenti, il paese fu invaso dai pirati Saraceni, che saccheggiarono il villaggio e rapirono le donne più giovani e belle. La scena del ratto rievoca i trecenteschi versi di Cecco Angiolieri: “torrei le donne giovani e leggiadre, le vecchie e laide lasserei altrui”.
Nel tentativo di difendere la sua promessa sposa Trigoso si scagliò coraggiosamente contro i pirati e, nello scontro, mentre Riva veniva caricata a forza sulla capitana degli infedeli, perse i sensi.
Quando Trigoso riaprì gli occhi i legni saraceni stavano prendendo il largo e, realizzato quanto era successo, corse sulla rena dove iniziò a urlare a gran voce il nome di Riva ma, non appena i pirati lo udirono, venne colpito da una sventagliata di frecce che lo trafissero in pieno petto e lo fecero cadere a terra agonizzante. “Cadesti a terra senza un lamento e ti accorgesti in un solo momento che la tua vita finiva quel giorno e che non ci sarebbe stato ritorno” proprio come nella “Guerra di Piero”, la celebre ballata di Faber. Riva assistette alla scena dalla nave e quando vide il suo sposo morire si gettò contro il comandante che la uccise con ripetute pugnalate al ventre; i pirati ne gettarono il corpo in mare.
L’acqua si tinse del rosso del sangue e dal mare sorse un’enorme onda che colpì la nave dalla quale fece cadere diversi forzieri e bauli contenenti una gran quantità d’oro e di preziosi. I pirati non riuscirono però ad individuare il punto esatto dove era affondato il tesoro e, dopo giorni di ricerche, decisero di desistere e di salpare. La notte stessa degli Angeli discesero dal cielo e collocarono, nel punto in cui Riva era morta, un grande scoglio a forma di campana (l’attuale scoglio dell’Asseu), per ricordare ai posteri la giovane fanciulla e il suo coraggio. Contemporaneamente, nel punto dove cadde Trigoso, i ciottoli intonarono un canto d’amore.
Secondo gli esperti di storia locale il toponimo dello scoglio asseu deriverebbe dalla traduzione genovese di assiolo, un piccolo rapace notturno, molto simile alla civetta, che vi nidificava sopra.
Passarono gli anni, i pirati non tornarono più e mentre il borgo iniziava ad ingrandirsi, i ciottoli continuavano inconsolabili a cantare la loro canzone d’amore, la baia dove i pirati persero il loro tesoro (forse al largo dell’attuale spiaggia di Renà) venne, per questo, chiamata la Baia dell’Oro e i pescatori decisero di intitolare il loro paese alla memoria dei due giovani e della loro romantica storia d’amore.
Genova di mio fratello. Cattedrale. Bordello. Genova di violino, di topo, di casino.
Genova di mia sorella. Sospiro. Maris Stella. Genova portuale, cinese, gutturale.
Genova di Sottoripa. Emporio. Sesso. Stipa. Genova di Porta Soprana, d’angelo e di puttana.
Genova di coltello. Di pesce. Di mantello. Genova di lampione a gas, costernazione.
Genova di Raibetta. Di Gatta Mora. Infetta. Genova della Strega, strapiombo che i denti allega.
Genova che non si dice. Di barche. Di vernice. Genova balneare, d’urti da non scordare.
Genova di “Paolo & Lele”. Di scogli. Furibondo. Vele. Genova di Villa Quartara, dove l’amore s’impara.
Genova di caserma. Di latteria. Di sperma. Genova mia di Sturla, che ancora nel sangue mi urla.
Genova d’argento e stagno. Di zanzara. Di scagno. Genova di magro fieno, canile, Marassi, Staglieno.
Genova di grige mura. Distretto. La paura. Genova dell’entroterra, sassi rossi, la guerra.
Genova di cose trite. La morte. La nefrite. Genova bianca e a vela, speranza, tenda, tela.
Genova che si riscatta. Tettoia. Azzurro. Latta. Genova sempre umana, presente, partigiana.
Genova della mia Rina. Valtrebbia. Aria fina. Genova paese di foglie fresche, dove ho preso moglie.
Genova sempre nuova. Vita che si ritrova. Genova lunga e lontana, patria della mia Silvana.
Genova palpitante. Mio cuore. Mio brillante. Genova mio domicilio, dove m’è nato Attilio.
Genova dell’Acquaverde. Mio padre che vi si perde. Genova di singhiozzi, mia madre, Via Bernardo Strozzi.
Genova di lamenti. Enea. Bombardamenti. Genova disperata, invano da me implorata.
Genova della Spezia. Infanzia che si screzia. Genova di Livorno, Partenza senza ritorno.
Genova di tutta la vita. Mia litania infinita. Genova di stocafisso e di garofano, fisso bersaglio dove inclina la rondine: la rima.
“I miei versi sono nati in simbiosi con il vento” diceva il poeta Giorgio Caproni a proposito del suo componimento “Litania”, “sono cresciuti cadenzati e cullati dall’onda del mare”, aggiungo io.
Lo scrittore livornese di nascita, ma genovese d’adozione, nutriva infatti un amore sconfinato ed incondizionato per Genova, per i suoi caruggi, il suo cielo in salita, il suo mare, i suoi colori e profumi.
Non a caso Litania di Giorgio Caproni è una nenia per una città che di mare odora e che di mare assapora, un mantra ossessivo, una formula magica e sacra che si ripete all’infinito.
Litania pulsa d’amore; è una melodia jazz senza musica, quasi una cantilena blues per Genova madre, sorella, fidanzata, moglie, figlia, bagascia… Genova ch’è tutto dire, sempre e comunque, imprescindibile paesaggio interiore dell’anima.
In copertina panorama di Genova. Foto di Stefano Eloggi.
La più antica traccia relativa alla birra risale a circa 6000 anni fa e consiste in una tavoletta sumera che raffigura delle persone che, a mezzo di una cannuccia, sorseggiano la dissetante bevanda da un recipiente comune.
In una poesia a lei dedicata, la dea mesopotamica Ninkasi, ce ne fornisce addirittura la ricetta:
« Ninkasi, tu sei colei che cuoce il bappirnel grande forno,
Che mette in ordine le pile di cereali sbucciati, Tu sei colei che bagna il malto posto sul terreno… Tu sei colei che tiene con le due mani il grande dolce mosto di malto… Ninkasi, tu sei colei che versa la birra filtrata del tino di raccolta, È come l’avanzata impetuosa del Tigri e dell’Eufrate »
Il più remoto ritrovamento archeologico invece, che attesta la produzione della birra (termine sumero “se-bar-bi-sag” ossia, “colui che vede chiaro”), è avvenuto in Mesopotamia e risale all’epoca predinastica sumera, circa 4000 anni a.C.
Sono delle tavolette di argilla scoperte dall’archeologo francese Blau (per questo chiamate “monumento Blau”) vicino al fiume Eufrate e conservate al British Museum di Londra.
In esse sono raffigurati i doni propiziatori offerti alla dea Nin-Harra (dea della fertilità).
Persino nel celeberrimo Codice di Hammurabi, la più arcaica raccolta di leggi mai pervenuta, vi sono elencate alcune norme che ne regolano detenzione, commercio e produzione.
Il consumo di birra si diffonde presso gli egizi, i greci, i fenici, gli etruschi e i romani. Questi ultimi prediligeranno l’espansione, anche per motivi legati al culto religioso, del vino.
Da qui in poi i barbari popoli del Nord, Vichinghi, Alemanni, Sassoni, Pannoni e Celti in generale, ne saranno i principali custodi.
Gambrinus, l’origine del cui nome è molto dibattuta (probabilmente contrazione da Jan Primus, leggendario re fiammingo per alcuni, semplice mastro birraio, per altri), nel Medioevo diviene patrono protettore della birra.
Cosa c’entra tutto ciò con Genova e la Liguria direte voi?
C’entra eccome e non solo per il secolare rapporto commerciale della Repubblica marinara con le Fiandre, che da quelle lande ne importerà barili su barili, ma perché la più antica testimonianza fisica di questa bevanda in Europa non riguarda i nordici bensì gli antichi Liguri. Nel 1994 infatti a Pombia in provincia di Novara, odierno Piemonte, un tempo territorio abitato dai nostri avi, è stato rinvenuto un singolare reperto datato 560 a.C. :
una coppa posta sopra un’urna funebre, contenente i resti di una birra di luppolo scura, probabilmente rossa di media alta gradazione, risalente in piena civiltà proto celtica ligure di Golasecca, all’età del Ferro.
Ulteriori studi ed analisi hanno confermato trattarsi di birra rossa. Essa è forse da identificare con la cervesia/cervisia citata da Plinio (Storia naturale, XXII, 82) e Isidoro di Siviglia (Origini, XX, 3, 17) se, come supposto, il termine deriva dall’indoeuropeo “kerewos “(cervo/rosso).
D’altra parte a proposito dei nostri antenati annotava Strabone , Geografia, IV, 6, 2: “I Liguri vivono perlopiù delle carni dei greggi, di latte e di una bevanda d’orzo ed occupano delle terre vicino al mare e specialmente i monti” aggiungendo poi che “il loro vino è scarso, resinato ed aspro”. Tesi quest’ultima adottata, secondo la tradizione, come pretesto da Magone nel 218 a. C. per distruggere Genova poiché, a suo dire, “una città dove non cresceva una buona vite, non meritava di essere risparmiata”.
Secondo Ateneo i Liguri, come i Frigi e i Traci, chiamavano la loro birra Bryton (ricostruito sulla base di “bracis”, tipo di farro celtico), come riporta Plino, dunque anche l’area ligure produceva verosimilmente una propria birra d’orzo a fianco ai vini locali.
Il ritrovamento di Pombia non solo costituisce la più antica attestazione materiale europea di birra presumibilmente ad alta gradazione, ma addirittura potrebbe retrodatare di molto l’utilizzo del luppolo come aromatizzante e conservante della birra stessa, spiegando così il mantenimento di un ampio gradimento e consumo popolare della birra nell’Europa Occidentale ancora in età romana nonostante la crescente concorrenza del vino. per cui pare legittimo supporre che la birra stessa in partenza fosse abbastanza scura e rossastra (dunque corrispondente alla cervisia delle fonti classiche).
Dalla Mesopotamia l’arte della fabbricazione della birra passò in Egitto, per poi diffondersi in Europa: oggi, grazie ai ritrovamenti nella necropoli di Pombia, sappiamo che anche i Celti vi si dedicarono con successo. Furono bevitori di birra pure gli Etruschi ed anche all’epoca delle civiltà ellenica e romana la birra, spesso chiamata vino d’orzo, era più conosciuta di quanto comunemente si pensi o creda.
In questa lunghissima storia che attraversa i millenni anche i Liguri hanno avuto la loro parte…
Che derivi dal norvegese “stokkfisk”, dall’olandese “stocvisc” con il significato di pesce bastone, o dall’inglese “stockfish” con quello di pesce da stoccaggio, il termine stoccafisso indica il merluzzo essiccato all’aria secondo un preciso procedimento consolidato nei secoli dai Vichinghi. I navigatori nordici infatti, compresero che il pesce disidratato, non solo riduceva i rischi di contrarre infezioni virali e che occupava meno spazio a bordo, ma che aumentava addirittura, a parità di peso, quasi del triplo la resa proteica. Un alimento quindi ideale da trasportare, facile da conservare nei lunghi viaggi per nutrire gli equipaggi e da utilizzare come merce di scambio.
Non va confuso con il baccalà che, pur avendo origine dallo stesso pesce, è ottenuto con una tecnica diversa, quella della salagione. Questa basica distinzione comporta delle eccezioni lessicali a seconda della regione in cui viene elaborato: ad esempio il famoso “baccalà alla vicentina” è in realtà preparato in prevalenza con lo stoccafisso, quindi con il merluzzo essiccato e non con quello salato.
Nella nostra penisola giunse nel sud, in Calabria e Sicilia in particolare, grazie ai Normanni anche se è solo ad inizio del ‘500 che inizió ad essere importanto regolarmente. Qualche decennio più tardi si diffuse anche al nord, a Venezia e Genova, le due regine dei traffici marittimi.
Merito dell’espansione dello stoccafisso fu anche della chiesa che, dopo il Concilio di Trento avvenuto a metà del ‘500, prescrisse un maggiore consumo, rispetto al canonico venerdì, di piatti di magro. Complice il suo prezzo accessibile, unito alle indubbie qualità organolettiche e nutrizionali, l’uso dello stoccafisso si propagò facilmente. Ancora oggi il Bel Paese, è il principale importatore mondiale (quasi il 90%) di merluzzo. In particolare Calabria, Campania, Sicilia, Liguria, Livorno e Ancona risultano esserne i maggiori acquirenti.
I veneti raccontano di un naufragio avvenuto nel 1431 di una nave di S. Marco sotto il comando del capitano Pietro Querini, partita da Creta, carica di Malvasia, alla volta delle Fiandre. Con i suoi 49 membri di equipaggio, ruppe il timone nel Golfo di Biscaglia e, in balia delle correnti, andò alla deriva a sud delle isole Lofoten in Norvegia. I naufraghi una volta esaurite le scorte, si cibarono di un grosso pesce del peso di quasi un quintale, rinvenuto morto sulla rena. Sopravvissero grazie ai soccorsi della popolazione locale giunta attirata dall’enorme falò che i marinai avevano imbastito sulla spiaggia per cuocere la gigantesca bestia. Fu così che, rimasti sull’isola in attesa che l’inverno passasse, i veneziani cominciarono ad apprezzare il “Gadus morhua”, ovvero il merluzzo. Secondo questa versione lo stokke sarebbe approdato in Italia, l’anno successivo, di ritorno da quell’avventuroso viaggio. Tuttora le isole Lofoten, patria della qualità “ragno” la più pregiata, costituiscono il maggiore produttore mondiale di stoccafisso.
Al sud viene cucinato alla messinese in Sicilia, alla mammolese in Calabria, all’anconetana, nelle Marche, in Basilicata alla lucana, al nord invece, in Veneto viene consumato alla vicentina.
In Liguria giunse intorno al ‘600 in virtù dei traffici della Repubblica di Genova con il Portogallo, probabilmente importato dalle imbarcazioni dei Pessagno che, con quel paese, intessevano rapporti privilegiati. La nobile famiglia di marinai genovesi infatti, originaria delle valli alle spalle di Chiavari, si distinse alla corte del regno lusitano, a tal punto da ricoprire e tramandarsi per più di tre secoli la carica di “Almirante maggiore”.
Nella nostra regione viene preparato semplicemente bollito, accomodato, alla badalucchese, a brandacujun o con i bacilli (piccole fave secche). Quest’ultima elaborazione, come ricordato nel proverbio “A-i Morti, bacilli e stocchefisce no gh’é casa chi no i condisce”, in particolare per la ricorrenza dei morti visto che, fin dal tempo degli egizi, a questo legume era associato il culto dei defunti.
A Badalucco una località della Valle Argentina dell’entroterra imperiese, la popolazione costiera si era rifugiata per sfuggire alle scorrerie piratesche. Leggenda narra che sopravvisse all’assedio nemico grazie alle scorte di stoccafisso come rievocato nell’annuale manifestazione in costume medievale di cui è protagonista.
Il brandacujun deve invece il nome al singolare modo di mescolamento con cui viene preparato nel ponente ligure: lo stokke e le patate bollite, cosparsi di aglio e prezzemolo, limone, olio e olive taggiasche vengono energicamente “brandati” cioè, scossi a coperchio chiuso fino ad ottenere una armonica amalgama degli ingredienti.
Cucinatelo come vi pare ma assecondatelo con un rosso corposo, come ad esempio un bel Rossese di Dolceacqua o un Refosco veneto e il vostro palato ve ne sarà grato.
“Mare in burrasca, vento forte,
bollito o accomodato la sua morte,
in serate come queste, a Zena,
con lo stoccafisso si cena…
ultimo consiglio, se posso,
accompagnarlo con il rosso”.
ma se volete andare proprio sul sicuro, ascoltate questi goliardici versi di mezzo secolo fa.
O l’é lungo, o l’é dûo, o l’é tosto
o l’é bon se piggiòu in quello posto,
s’o l’é appenn-a sciortïo d’in te balle
(ma attension ch’o no l’agge e farfalle),
o sta ben con e sò due oïve
(se no son tanto passe, ma vive)
e magnificamente o s’adatta
o s’accomoda con a patatta;
ma beseugna ûn pö mettilo a bagno
(finn-a in fondo, ch’o segge ben stagno).
Se capisce ch’o ven feua mollo
(specialmente in ta zona do collo). Ciò non toglie ch’o piaxe ûn pö a tûtte
zoene, vëgie, ciû belle ò ciû brûtte.
A sposinn-a a no o piggia mä invïo
quande a casa ghe o porta o marïo.
Pe-a zitella o boccon o l’é ghiotto
(anche mollo ò ûn pö bazanotto).
E, scibben ch’a mugugne pe-a spûssa,
anche a nonna sdentä ûn pö a s’o sûssa!
Me ricordo ancon quande mae poae
o metteiva in te man a mae moae,
ritornando a-o porto in sce o tardi:
lê a o trattava con tûtti i riguardi,
e dixendoghe: – bello o mae ragno! –
a o metteiva lì sûbito a bagno.
E a-a mattinn-a, che l’ëa ancon scûo,
a l’ammiava s’o l’ëa ancon dûo,
e a ghe diva: – ti o lasci ancon drento? –
E mae poae: – mi saieiva contento,
ma n’öriae ch’o m’andesse in malôa,
te gh’òu lascio, ma solo pe ‘n’ôa. –
E mae seu? Me sovven comme vei:
no gh’ëa verso de fâgheo piaxei.
A no o poeiva nemmeno toccâ:
«son segûa che a mi o me fa mä!»
Fin a quande a s’é faeta o galante
(ûn portuale lê ascì, carenante)
ch’o l’aveiva bello grosso e gûstoso
e o ghe l’ha regalòu d’arescoso,
e chissà, forse pe-a qualitae
differente da quella do poae,
ò magara pe-o semplice faeto
ch’o l’ëa quello che lê o gh’aiva daeto,
ò soltanto pe fâlo contento…
faeto sta che da quello momento
a figgieua a s’é decisa a assazzâlo,
continuando poi sempre a piggiâlo!
Anche mi da piccin me credeivo
ch’o dovesse fâ mä, e no ne voeivo,
ma ‘na votta, ch’aveiva bevûo,
assazzâne ûn tocchetto ho vosciûo,
lì pe lì o m’ha daeto disgûsto,
poi però gh’o sentïo in çerto gûsto,
e, d’allôa, devo dî che o gradiscio…
(a propoxito: o l’é… o STOCCHEFISCIO!!)
Poesia dialettale scritta nel luglio ’71 da Luigi Vacchetto, detto “O Bacillo”.
Nel 1909 l’architetto Gaetano Poggi modificò le scale di accesso e sostituì con ringhiere in ferro, il muretto al quale venivano legati i cavalli. La sproporzionata scalinata al sagrato fuinvece l’ultimo, fallito tentativo, di Orlando Grosso di risistemazione degli spazi.
La piazza non ospita solo la chiesa e il chiostro ma, essendone la roccaforte, anche le principali dimore dei più importanti esponenti del casato:
Al civ. 16 Palazzo Domenicaccio Doria del XIV sec. con la loggia a tre arcate a sesto acuto, oggi tamponate. Alle originarie triforedel piano nobile sono state sostituite tre normali finestre con relativi balconetti del XVII sec.
Al civ. 15 Palazzo Lamba Doria l’unico con il porticato aperto sulla piazza. Per un certo periodo le quadrifore vennero chiuseperché gli spazi vennero destinati alle botteghe. In seguito ai bombardamenti del 1942 restò in piedi solo la facciata e venne recuperato e restaurato a partire dal 1950.
Al civ. 17 Palazzo Andrea Doria donato dalla Repubblica all’ammiraglio riconosciuto come “Padre della Patria” per averla liberata dall’occupazione francese. Il prestigioso portale di scuola toscana è per taluni opera di Niccolò da Corte e Gian Giacomo della Porta per altri, di Michele D’Aria e Giovanni da Campione. Ricco di animali esotici e fantastici quali pavoni, lucertole, teste di montoni e leoni, sirene danzanti, uccelli che beccano fiori, grifoni, pesci mostruosi e altri animaletti.
Sopra l’architrave è scolpita l’epigrafe relativa alla donazione: “Senat. Cons Andreae De Oria PatriaeLiberatori Munus Publicum”.
Il palazzo fu fatto costruire nel 1460 da Lazzaro Doriafatto testimoniato dal sovrapportanell’atrio, in pietra di Promontorio del 1480raffigurante, in omaggio al committente, la Resurrezione di Lazzaro. Al suo interno alcune parti sono ricoperte in azulejos, il rivestimento di stile moresco, molto in voga in quegli anni e molto apprezzato dal Signore del mare. In realtà il Principe non abitò mai in questa dimora perché preferì la strategica e scenografica Villa che si era fatto costruire, appena fuori dalle mura, in località Fassolo.
Al civ. 13 Palazzo Branca Doria da cui si accede al chiostro. Dante rese famoso Branca per averlo messo, ancora vivo, all’Inferno reo di aver ucciso il suocero Michele Zanchè che si era rifiutato di concedergli la cospicua dote della figlia Caterina. Secondo il Poeta gigliato il corpo del patrizio genovese sarà posseduto in terra da un diavolo e a lui è rivolta la celebre invettiva: “AhiGenovesi, d’ogni costume e piend’ogni magagna, perché non siete voi del mondo spersi?”. Versi 151-153 del XXXIII canto dell’Inferno.
Al civ. 19 della Salita ecco Palazzo Doria Danovaro con la copia dello splendido sovrapporta di S. Giorgio che uccide il Drago. L’originale è stato rubato.
Per chiudere in bellezza all civ. 1 di Via Chiossone si può ammirare il raffinato portale con il “Trionfo dei Doria” del XV sec., opera di Elia Gagini.
Al centro un carro ornato di ghirlande con due guerrieri che reggono lo scudo araldico del casato. Il carro è trainato da centauri che impugnano l’insegna del comando. Dietro al centauro un putto alato e, sotto fra le zampe, un cagnolino. Sullo sfondo due soldati con angioletti alati spingono il barroccio. Al centro della cornice il trigramma di Cristo.
Franco Battiato ancora non era natoquando i Doriaavevano già fatto loro Il verso della “Cura” del cantautore catanese “Più veloci di aquile imiei sogni attraversano il mare”… Visto che i loro sogni di gloria le aquile genovesi li avevano già ottenuti dettando legge in tutti i mari!
In Copertina: Piazza e chiesa di San Matte. Foto di Stefano Eloggi.
L’antica abbazia fu fondata nel 1125 da Martino Doria che, rimasto vedovo, prese i voti presso il cenobio di Capodimonte e stabilì che la nuova chiesa, a questo dovesse rimanere soggetta.
Come per l’abbazia di S. Fruttuoso anche per quella di S. Matteo i Doria, divenuta nel frattempo dominio gentilizio, si riservarono il perpetuo diritto di nomina dell’Abate.
Professando la famiglia Doria “Illi de Auria” (quelli della porta aurea) a ridosso della Porta Aurea il mestiere dei gabellieri la intitolarono a S. Matteo riscossore di tasse e, quindi, lo assursero a loro patrono.
Il nuovo luogo di culto venne consacrato nel 1132 alla presenzadel Vescovo Siro II e del Papa Innocenzo II.
Nonostante la vicinanza alla Cattedrale, il prestigio di questi illustri padrini, conferma l’importanza di questo edificio e la potenza della schiatta dei Doria.
La costruzione in stile romanico venne completamente rivisitata nel 1278 in chiave gotica.Risalgono a quest’epoca sia l’arretramento della facciata che la sopraelevazione della piazza.
Fra il 1308 e il 1310 venne infine realizzato, come testimoniato dall’incisione “MCCCVIII Aprilis Magister Marcus Venetus FecitHoc Opus”, per mano di un maestro veneto anche lo splendido attiguo chiostro, oggi proprietà privatadell’Ordine degli Architetti.
Costruita in marmo bianco di Carrara e pietra nera di Promontorio, privilegio concesso solo ai Doria, Fieschi, Spinola e Grimaldi, reca incise sui blocchi bianchi le grandi imprese degli ammiragli della casata.
A metà del ‘500 Andrea Doria affidò al Montorsoli la ristrutturazione della chiesa, nello specifico di cupola e presbiterio. Particolare riguardo ebbe l’artista fiorentino nel concepimento della cripta che costituirà sepolcro e monumento funebre dell’ammiraglio e dei suoi cari. Negli interventi decorativi venne coinvolto anche Luca Cambiaso che dipinse episodi della vita del santo. La chiesa sempre più fuse e sovrappose i precedenti stili evolvendoin chiave rinascimentale prima e barocca poi.
In facciata, pezzo unico del genere nella nostra città, merita menzione il mosaico che raffigura S. Matteoopera di maestranze venete del XIII sec.
Sempre nel prospetto principale è inserito un sarcofago romano che illustra “L’allegoria dell’autunno”, in cui è sepolto Lamba Doria, l’eroe della battaglia di Curzola nel 1298 quando i genovesi sconfissero i veneziani. In quell’occasione venne catturato Marco Polo e condotto nelle galere patrie di palazzo S. Giorgio dove dettò a Rustichello da Pisa, il suo celebre “Milione“. La lapide posta sotto il sarcofago recita: “Hic Iacet Lambe De Auria Dignis Meritis Capitaneus et Admiratus Comunis et Populi Ianue Qui Anno Domini MCCXXXXXVIII die VII Septembris Divina Favente Gratia Venetos Superavit et Obiit MCCCXXIII die XVII Octuber”.
Come testimoniato da un’altra epigrafe conservata nel chiostro Lamba catturò anche l’ammiraglio nemico, il temutissimo Dandolo, distrusse 84 navi e fece 7400 prigionieri:
“Ad Honorem Dei et Beate Verginis Marie Anno MCCLXXXXVIII die Dominico VII September Iste Angelus Captus Fuit in Gulfo Venetiarum in Civitate Scurzole et Ibidem Fuit Prelium GalearumLXXXVI Ianuensium cum Galeis LXXXXVI Veneciarum Capte FueruntLXXXIIII per Nobilem Virum Dominum Lambam Aurie Capitaneum et Admiratum Tunc Comunis et Populi Ianue cum Omnibus Existentibus in Eisdem de Quibus Conduxit Ianue Homines Vivos Carceratos VIIMCCCC et Galeas XVIII Reliquas LXVI Fecit Cumburi in Dicto Gulfo Veneciarum Qui Obiit Sagone in MCCCXXIII”.
All’ interno della chiesa sono custodite opere di pregio quali, nella navata centrale “il Miracolo del dragone d’Etiopia” di Luca Cambiaso e la “Vocazione di S. Matteo” di G.B. Castello. Sull’altare di destra risalta una “Sacra Famiglia” di Bernardo Castello e, a sinistra, un “Cristo tra i santi e i donatori” di Andrea Semino.
Sotto l’altare maggiore, in corrispondenza della cripta, è custodita in una teca fedele copia della spada di “difensore della Cristianità” che Andrea Doria ricevette in dono da Papa Paolo III. L’originale venne rubata a metà del ‘500 e ne venne recuperata solo la lama. Dell’elsa incastonata di pietre preziose non se ne seppe più nulla.
Nella navata di sinistra si trova invece uno dei capolavori del Maragliano, la “Deposizione di Gesù nel sepolcro”.
Insieme alla cripta il Montorsoli decorò di statue anche l’abside. Nel sepolcro accanto all’ammiraglio riposano la moglie Peretta e il nipote Giannettino, l’erede vittima della congiura dei Fieschi.
Oltre ai già citati Lamba e Andrea, qui sono sepolti Oberto, il vincitore dei pisani alla Meloria nel 1284, Luciano dei veneti a Pola nel 1380, Filippino dominatore degli spagnoli e Pagano anch’egli trionfatore sui veneziani.
Per gli amanti della musica particolare interesse riscuote, collocato in corrispondenza del transetto sinistro, l’organo tardo settecentesco di scuola romana.
All’interno ecco il chiostro progettato da un artista veneto, probabilmente prigioniero di guerra, in cui sono conservate numerose lastre e lapidi tombali della casata provenienti dal demolito convento di S .Domenico chesi trovava un tempo nella zona occupata dall’attuale teatro Carlo Felice.
Una tomba fatta costruire a metà del ‘300 racchiude le spoglie, restituite poi nel 1934, dei martiri Mauro ed Eleuterio patroni di Parenzo e trafugati dai Doria agli istriani.
Una lapide racconta di Oberto che il 6 agosto del 1284 fece prigionieri l’ammiraglio veneziano al comando dei pisani, il Morosini e il figlio del Conte Ugolino nonché della solenne consegna dello stendardo della capitana pisana nella chiesa:
“In Nomine Individue Trinitatis Anno Domini MCCLXXXIIII Die VI Augustis Egregius PotensDominus ObertusDe Auria Tunc Capitaneus et Admiratus Comunis et Populi Ianuensis in Portu Pisano Triunfavit de Pisanis Capiendo ex eis Galeas XXXIII et VII Submersis et Ceteris Fugatis Multisque Ipsorum Murtuis Ianuam Reversus Fuit Cum Maxima MultitudineCarceratorum Ita Qui Tunc VIII MiliaCCLXXII Carceribus Ianue Fuerunt Inventi in Quibus fuit Captus Albertus Molexinus de Veneciis Tunc Potestas et Dominus Generalis Guerre Comunis Pisarum cum Stantario Dicti Comunis Capto per Galeas Illorum De Auria et in hac Ecclexia Asportato cum Sigilo Dicti Comunis et Loto Quondam Comitis Ugolini et Magna ParsNobilitatis Pisarum”.
Una seconda lapide riferisce della distruzione di Porto Pisano avvenuta il10 settembre 1290, per mano di Corrado:
“MCCLXXXX Die X Septembris Conradus Auria Capitaneus et AdmiratusReipublice Ianuensis Destruxit Portum Pisanum”.
Un’epigrafe è dedicata a Pagano che nel 1352 a Costantinopoli e nel 1354 a Parenzo sconfisse le flotte veneziane-catalane e che, insieme al cospicuo bottino, prese le reliquie dei martiri Mauro ed Eleuterio:
“Ad Honorem Dei et Beate Marie MCCCCLII die VIII Marcii Nobilis vir Dominus Paganus De Auria Admiratus Comunis et Populi Ianue cum Galeis LX Ianuensium Prope Costantinopolim Strenue Preliando cum Galeis LXXXCatalanorum Gregorum et Venetorum de Omnibus Campum et Victoriam Otinuit Idem Eciam Dominus Paganus MCCCClIII die III Novembriscum Galeis XXXV Ianuensium in Insula Sapiencie in Portu Longo Debelavit et Cepit Galeas XXXVI cum Navibus III Venetiarum et Conduxit Ianuam Vivos Carceratos VMCCC cum Eurom Capitaneo”.
Ancora un’altra iscrizione ricorda Luciano vincitore a Pola nel 1380, dove perse la vita in mare, dei veneti:
“Ad Honorem Dei et Beate Marie MCCCLXXVIII die V Madii in Gulfo Veneciarum Prope Polam Fuit Prelium Galearum Ianuensium cum Galeis XXII Veneciarum in Quibus Erant Homines Arnorum CCCCLXXV et Quam Plures Alii de Pola Ultra Ihusman Dictarum Galearum de Quibus Galeis Capte Fuerunt XVI cum Hominibus Existentibus in Eisdem per NobilemDominum Lucianum De Auria Capitaneum Generalem Comunis Ianue Qui in Eodem Prelio Mortem Strenue Belando Sustinuit que Galee XVI Venetorum Conducte Fuerunt in Civitatem Jadrae cum Omnibus Carceratis IIMCCCCVII”.
Un’ultima lapide annovera fra i grandi anche Filippo che, nel 1528 al comando della flotta affidatagli da Andrea, per conto dei francesi schiantò gli spagnoli nel golfo di Napoli.
“Deo Optimo Maximo Philippus Doria Comes Vestigia Majorum Sequens sub Vexillo Francisci Primi Francorum Regis Christianissimi pro Praefecto Triremes Andreae Avuncoli in Regno Siciliae Citra Duxit in Sinu Salernitan cum Hostium Triremibus Legitime Felicissimeque Vario Marte Conflixit Gloriosam Tandem Mirabilenque Victoriam Deo Auspice Adeptus est MDXXVIII Aprilis Maxime Virtutis Monumenti”.
In copertina Piazza e chiesa di San Matteo. Foto di Stefano Eloggi.
Il 10 giugno 1940 l’Italia entra in guerra e Genova si prepara a difendersi, anche proteggendo i propri simboli e monumenti, dagli attacchi ostili. Quattro soli giorni dopo Savona e Genova sono le prime città italiane, a subire l’oltraggio nemico. Proprio come già avvenuto nel lontano 1684 quando la Superba si oppose all’affronto del Re Sole, anche stavolta una flotta francese, si dispone minacciosa all’orizzonte delle coste liguri. Intorno allequatto del mattino appare la terza squadra navale francese, guidata dal Contrammiraglio Duplat. Composta da 4 incrociatori da 10 mila tonnellate (Algerine, Foch, Dupleix, Colbert) scortati da 11 caccia e 4 sommergibili, era partita dalla rada di Tolone alle 21 e 10 della sera prima. La copertura aerea era garantita dai 9 bombardieri al loro seguito. Come obiettivi aveva le fabbriche di Vado Ligure, Savona e l’area industriale-portuale di Genova. Giunta a 20 miglia a sud di Capo Vado alle ore 3 e 48, la squadra francese si divide in due gruppi, con bersaglio rispettivamente Vado/Savona e Genova.
Ha inizio così l’operazione chiamata ”Alba di fuoco”: alle 4 e 26 l’incrociatore Algerie apre il fuoco sugli insediamenti industriali di Vado. Due minuti dopo il Foch colpisce l’Ilva di Savona. Contemporaneamente i caccia si fanno sotto costa e colpiscono i depositi e le altre officine della rada. Alle 4 e 48 l’attacco su Savona cessa. Il nefasto bilancio è di sei morti e 22 feriti. Le navi francesi si ritirano indisturbate. Nel frattempo, la seconda squadra navale si dirige su Genova; dalle 4 e 26 alle 4 e 40 incrociatori e caccia francesi bombardano il porto e gli stabilimenti dell’Ansaldo, nel ponente cittadino.
All’improvviso però, dalla bruma mattutina del porto della Superba, sbuca una nave da guerra italiana, i cui sfuocati contorni disegnano una piccola, obsoleta torpediniera, la Calatafimi. La vecchia nave, 967 di tonnellaggio, armata con pezzi di piccola artiglieria, si trovava di scorta ad un posamine. Individuata la squadra francese, il comandante della Calatafimi, il tenente di Vascello Giuseppe Brignole, malgrado la sproporzione delle forze, non ha esitazioni e si lancia contro la formazione nemica sparando colpi di modesto calibro e lanciando due siluri. Una seconda coppia di siluri si inceppa nei tubi di lancio ma il nolese, per nulla scoraggiato, insiste nella sua audace impresa. Un proiettile colpisce il caccia francese Albatros. Alle 4 e 48, anche il secondo gruppo francese si ritira riunendosi alle navi della prima divisione.
Nonostante l’eroica azione dell’ufficiale di Noli la spedizione francese rese evidente la fragilità e la pochezza dell’apparato militare italiano, incapace di provvedere alla difesa delle proprie città e dei loro abitanti. L’assenza di ricognizioni aeree e di navi da guerra di peso, nonché il mancato intercettamento delle navi nemiche sulla via del ritorno avevano permesso che una flotta nemica potesse arrivare indisturbata davanti a Genova e ritirarsi impunita.
Al comandante Giuseppe Brignole venne conferita la Medaglia d’oro al valor militare con la seguente motivazione:
“Comandante di torpediniera di scorta ad un posamine avvistava una formazione di numerosi incrociatori e siluranti nemici che si dirigevano per azioni di bombardamento di importanti centri costieri, ordinava al posamine di prendere il ridosso della costa e attaccava l’avversario affrontando decisamente la palese impari lotta. Fatto segno ad intensa reazione manovrava con serenità e perizia attaccando fino a breve distanza con il siluro e con i cannoni le unità nemiche. La sua azione decisa e i danni subiti dalle forze navali dell’avversario costringevano questi a ritirarsi. Esempio di sereno ardimento e sprezzo del pericolo e di consapevole spirito di assoluta dedizione alla patria. Mar Ligure 14/6/1940”.
Anche lo stendardo della Calatafimi venne nobilitato e decorato dalla medaglia d’argento.
Dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 l’ufficiale ligure rifiutò di servire la Repubblica di Salò, venne internato in Germania per rimpatriare solo nel settembre del 1945 e ottenere il titolo di Capitano di Corvetta prima, di Fregata poi.
Ma se l’antico adagio recita: “Voto da mainâ presto o se scorda, passâ a buriann-a ciû o no se ricorda” il tenente il suo giuramento ha onorato e Genova e Noli non hanno dimenticato!
Nel solco dei grandi uomini di mare della nostra terra Noli onora orgogliosa il suo coraggioso concittadino morto ottantaseienne a Genova nel 1992.
In Copertina: la lapide commemorativa sulla casa natia del Comandante Giuseppe Brignole.
Sull’elegante slargo si affacciano importanti edifici come quello, ad esempio, del civ. 2 della famiglia Interiano Pallavicino. La cinquecentesca e sontuosa dimora progettata da Francesco Casella con affreschi architettonici e allegorie in facciata di Pantaleo e Benedetto Calvi. Nell’atrio e nel giardino che sale verso la collina della Villetta di Negro, oltre a quelli di pregevole fattura realizzati da G.B. Carlone, risaltano anche alcune statue di Filippo Parodi e di altri scultori della rinomata scuola genovese.
Al civ. 4 ecco Palazzo Negrone ingrandito e ristrutturato nel ‘600 sulla base della precedente costruzione del 1560. A fine ‘700 l’architetto Antonio Barabino gli conferì l’attuale aspetto. Nella cappella al suo interno sono custoditi strepitosi affreschi di Giovanni Andrea Ansaldo, uno degli insuperati maestri del Barocco genovese. Nella galleria nobiliarele “Storie di Enea” opera di G.B Carlone, i salotti affrescati da G. Assereto e da Domenico Parodi, un trionfo di energia e colori, purtroppo ammirabili solo in foto perché, in quanto abitazioni private, non visitabili al pubblico.
Al civ. 6 forse la dimora più facilmente identificabile, quella a lesene bianco nere, il Palazzo dei “Marmi” di Giacomo Spinola, oggi sede di una banca, dall’inconfondibile prospetto. Il privilegio di edificare in marmo bianco di Carrara e pietra nera di Promontorio, per uso privato, era accordato solamente alle alle quattro più prestigiose famiglie patrizie genovesi: Grimaldi, Fieschi, Doria e, appunto, Spinola.
Attorno al toponimo di questa piazza nel corso dei secoli sono fiorite diverse leggende.
Secondo alcuni l’origine risalirebbe al fatto che divenne luogo d’incontro fra i soldati che alloggiavano nel vicino Castelletto e le loro leggiadre fanciulle che qui si recavano a lavare i panni. Molto meno romanticamente, secondo altri, si trattava invece di prostitute degli attigui postriboli. Quindi “fons morosus o amorosa”, la fonte dell’amore.
Altro racconto ne farebbe derivare l’origine dal cavaliere teutonico Benedictus Van Rosen. Costui, di passaggio nella nostra città, in attesa d’imbarcarsi per la crociata, decise invece di restare a Genova e di impiantare nella piazza una fabbrica di birra. Per storpiatura dal cognome si sarebbe arrivati a “Marose”.
Infine, a dar credito all’ultima leggenda, l’etimo farebbe capo a “Stea Mou Rousu” (Stefano moro litigioso) che qui aveva un’osteria chiamata “Ostaia de figge du Mou Rousu”.
Per quanto gradevoli e credibili siano queste storie sono, non trovando conferme scritte, niente più che favole o supposizioni. La spiegazione c’è, basta leggerla affissa nelle tre lapidi incastonate all’angolo del palazzo Interiano, accanto alla farmacia, che narrano le vicende della “Fontana Marosa”. La prima risale al 1206, la seconda al 1427, l’ultima al 1609.
Da queste si evince come la piazza, nonostante dal ‘400 fino al 1868 fosse intitolata “Fontane amorose”, debba in realtà il suo nome alla sorgente medievale del 1206 chiamata, per la potenza dei suoi getti, “Fons marosus”. La fontana viene descritta come un imponente monumento a tre arcate, provvista di numerose vasche e abbellita con diverse statue sul fastigio.
Sotto l’attuale pavimentazione stradale esiste ancora la cisterna profonda 17 metri che ne raccoglieva le acque. La monumentale fontana venne demolita nella seconda metà del ‘500 per dare spazio all’accesso a Strada Nuova e a Piazza del Portello. Dal XVI sec. divenne la piazza più elegante e mondana della Superba. Sede di spettacoli teatrali, tornei e giostre cavalleresche che sfruttavano come impareggiabile quinta lo sfarzo dei palazzi affrescati. Ospitò diverse manifestazioni durante il Carnevale e, soprattutto, in occasione delle visite dei potenti del tempo.
Come testimoniato dalla ringhiera, detta “i faeri da posta” che si affaccia sul lato di Via Luccoli, nell’800 costituiva il luogo per la sosta dei cavalli dei corrieri.
Al di là della storia, ognuno faccia proprio il racconto che maggiormente lo soddisfa…
In Copertina: Un torneo in Strada Nuova. Genova Collezione Orso Serra. Il quadro di autore ignoto risale al primi decenni del XVII secolo. Qui, odierna Piazza Fontane Marose, fino al secolo precedente si allestivano per celebrare ricorrenze particolari I tornei.
“Le cinque statue, da sinistra a destra Oberto, Corrado, Opizzino, Galeotto, Giacomo”.
… storie di consoli, capitani, ammiragli…
Affacciato su Piazza Fontane Amorose (questa dal ‘400 al 1868 l’antica denominazione di Piazza Fontane Marose) al n.6 è impossibile non notare il palazzo caratterizzato dalla facciata a fasce bicrome di marmo e pietra, il classico bianco del marmo di Carrara alternato al nero della pietra di Promontorio. Venne costruito fra il 1445 e il 1449 nell’area dove si ergeva un’antica torre della famiglia. Si tratta del Palazzo di Giacomo Spinola, meglio noto, per il suo particolare aspetto, con l’appellativo “dei Marmi”.
In origine l’edificio e fino al 1832 sorgeva, sullo stile di Piazza S. Matteo, sopra una piazzetta sopraelevata che fiancheggiava la prosecuzione di Via Luccoli verso Salita Santa Caterina dove si trovava l’omonimo varco.
Con l’apertura ottocentesca di Via XXV aprile le sue caratteristiche vennero significativamente stravolte non solo nel prospetto esterno ma anche negli ambienti interni.
Il recupero del palazzo nella versione in cui oggi lo possiamo ammirare è stato avviato dagli architetti Calza e Badano a partire dal 1989.
Al primo piano nobile si alternano quattro quadrifore e cinque nicchie con le quattrocentesche statue di illustri personaggi del Casato: Corrado, Opizzino, Oberto, Galeotto e Giacomo. Sulla facciata sono poste le relative lapidi che ne raccontano le eroiche gesta e ne permettono l’identificazione.
La prima di queste inerente Oberto recita ad esempio:
“Sum Spinula Obertus Loculo Qui Cognitus Astris/
Imperio Obtinui Ianuam Comitante Popello/
Attamen Aurigenam Socium Sme Marte Posci”.
Oberto, Console e Capitano del Popolo, insieme al suo omonimo appartenente ai Doria diede origine alla ventennale diarchia dei “due Oberti”. A costoro si deve l’edificazione del primitivo nucleo del futuro Palazzo Ducale.
La seconda ricorda Corrado, tre volte eletto Console della Repubblica e Ammiraglio di Aragona e Sicilia per conto del re di quelle terre.
La terza celebra Opizzino, capitano del Popolo, figura diplomatica e uomo di punta dell’Impero in città.
La quarta menziona Galeotto, ultimo capitano del popolo insieme a Raffaele D’Oria, dal 1335 al 1339, prima della rivoluzione “popolare” che portò all’elezione, nel 1339 appunto, del primo Doge Simone Boccanegra.
La quinta e ultima racconta di Giacomo il committente del palazzo. Costui fece predisporre la nicchia vuota pronta per ospitare, post mortem, la propria statua auto celebrativa.
Le sculture di Oberto, Giacomo, Galeotto e Opizzino sono contemporanee: realizzate da Domenico Gagini le prime tre, da Giovanni Gagini la quarta.
L’ultima invece, quella relativa al padrone di casa, posteriore di circa 40 anni rispetto alle altre, è opera di Giovanni Antonio Amadeo.
Durante i bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale tutta l’area di Sarzano subì gravi danni, nemmeno le chiese di S. Salvatore, S. Agostino e S. Silvestro, vennero risparmiate dalle incursioni aeree e navali degli alleati.
Di quest’ultima, eretta nel XVII sec., sulle fondamenta del precedente edificio sacro fondato nel 1160, non restò che in piedi, come ultimo eroico baluardo, un mozzicone del campanile, oggi restaurato.
Un anonimo viaggiatore la descrive come piuttosto piccola con tre altari in marmo e colonne rosse ritorte. Per quanto riguarda l’interno scrive: «è […] tutta riccamente indorata. Fra le immagini che si espongono per rappresentare la Deposizione del Signore nel Santo Sepolcro la Settimana Santa, bella è sopra ogni altra, quella che si vede in questa chiesa, opera al certo di Gio Battista Bissone, e tale per la sua leggiadria, per la finezza estrema, ed esatta proporzione di tutte le sue parti con cui è ammirabilmente condotta, che è gran peccato sia in legno e non in marmo eseguita»
Nel decennio successivo al termine della guerra le macerie di S. Silvestro vennero abusivamente occupate dai senza tetto che ne fecero la propria disastrata dimora, abitando in baracche e improvvisati tuguri. Purtroppo, in questo periodo, complice il disinteresse delle autorità cittadine, il Convento venne depredato di gran parte delle sue opere d’arte, andate ad arricchire qualche preziosa collezione privata.
Fra il 1948 e il 1949 le rovine di S. Silvestro furono utilizzate come ambientazione principale per le riprese del film di René Clement “Au delà des Grilles” (liberamente tradotto in italiano “Le Mura di Malapaga”) interpretato da Jean Gabin e Isa Miranda. Tutta la storia è ambientata nel centro storico della nostra città e costituisce un documento imperdibile per la conoscenza della Genova del dopo guerra.
A metà degli anni ’60, finalmente, si iniziò a ragionare su come recuperare l’area e , durante i relativi scavi archeologici, vennero alla luce importanti resti dei primi insediamenti etrusco-liguri, romani e medievali del Colle.
Nel 1990 gli architetti Gardella e Grossi Bianchi restaurarono il complesso, ricostruendo le parti crollate come il chiostro, mantenendo i volumi originari, vedi la chiesa e valorizzando le strutture medievali, soprattutto brani di muri e uno dei torrioni all’interno del palazzo del Vescovo. Il monumentale Complesso è divenuto così impareggiabile sede della Facoltà di Architettura dell’Università di Genova.
Di particolare interesse è il percorso di accesso all’aula “Benvenuto” che costeggiail “muro lungo”, la più antica struttura, ancora visibile, delle fortificazioni del IX e X secolo. Sopra la porta di accesso all’aula, di quello che un tempo, oltre che refettorio delle monache, era stato anche l’alloggio del Vescovo, una graziosa crocifissione marmorea. In questo locale vennero custodite le secentesche sculture della distrutta chiesa di S. Silvestro.
Nella zona verso S. Maria di Castello i giardini che degradano sul colle in quell’epoca facevano parte del confinante complesso di S. Maria in Passione. Quest’area, oggi chiusa da una grata di ferro, costituiva l’antica piazza di S. Silvestro, l’originario ingresso di Convento e Chiesa, dotato di un ricco portale barocco scolpito con due splendidi angeli opera di Giacomo Gaggini e dei maestri Angelo Maria Mortola e Carlo Cacciatori.
Il maestoso portale, recuperato e restaurato, oggi fa bella mostra di sé nel cortile di Palazzo Rosso in Via Garibaldi.
Sullo scenografico lato verso Stradone S. Agostino si elevano invece maestosi i familiari bastioni in pietra, incastonati di formelle di marmo con fregi e rilievi.
In questa piazza, l’antico “Castrum”, a due passi dalla millenaria cattedrale di S. Maria di Castello, sopra l’approdo del Mandraccio, non poteva mancare, a vegliare sulle sorti della “Dominante”, il Palazzo del Vescovo.