Le Mura del ‘500…

Nel ‘500 dopo il nefasto Sacco della città avvenuto nel 1522 Genova dispone l’ampliamento della precedente e obsoleta cinta muraria affidandone la realizzazione all’ingegnere Olgiati e all’architetto Sangallo. Si tratta della sesta delle sette cinte murarie della storia della città:

la prima risalirebbe all’epoca romana in risposta alla distruzione operata nel 205 a. C da Magone, la seconda del 935, a seguito del saccheggio musulmano predetto dal leggendario episodio della fontana del Bordigotto, la terza, la più celebre, quella detta del Barbarossa perché eretta come deterrente per le bellicose mire dell’imperatore tedesco, la quarta del 1276 – 1287, al tempo delle lotte fra le Repubbliche marinare in pieno periodo di scontro con Pisa e Venezia, la quinta del 1320, sorta dopo “la congiura dei moccolotti” e la minaccia della marcia di Castruccio signore di Lucca, promossa dalla fazione ghibellina, la settima del 1626 – 1639 detta delle “Mura Nuove”.

L’ultima, l’ottava, al tempo della dominazione piemontese, in pieno ‘800 merita un discorso a parte perchè legata principalmente ai forti.

Uno dei principali sostenitori dell’opera è l’ammiraglio Andrea Doria che, dopo aver liberato nel 1528 la Superba dai Francesi, intende proteggerla con mura e bastioni adeguati, da possibili futuri attacchi.

Fu così che, a partire dal 1536, vennero erette o rinnovate sei porte: Porta di S. Tomaso che da allora sarà anche detta del “Principe” in omaggio all’ammiraglio Andrea (sita più o meno nella zona in cui sorge oggi la Stazione Marittima), di Carbonara lungo il corso dell’omonimo rivo in zona tra S. Agnese e il Carmine, del Portello a protezione della zona delle Fontane Marose, dell’Acquasola o di Santa Caterina, del Molo o Cibaria e dell’Arco o di S. Stefano.

Quest’ultima un tempo situata all’incirca dove oggi si trova il Ponte Monumentale, trovandosi nelle vicinanze della chiesa di S. Stefano, nel linguaggio comune ne aveva assunto il nome.

    “Porta degli Archi o di S. Stefano nella sua originaria collocazione presso l’attuale Ponte Monumentale. In alto si riconoscono le forme e il campanile dell’omonima chiesa”. Cartolina tratta dalla Collezione di Stefano Finauri.

Alla costruzione della porta lavorarono i maestri Giovanni Orsolino, Pietro Antonio, e Giacomo da Corona. Nel 1605 il Senato commissionò a Taddeo Carlone la statua di S. Stefano da apporre sul frontespizio. Nel 1897 con la realizzazione del Ponte Monumentale, come ricordato da apposita targa, venne trasferita, o meglio nascosta, nell’odierna Via Banderali presso le Mura delle Cappuccine dove la si può ancora ammirare in tutta la sua imponente e rassicurante presenza.

“Porta degli Archi o di S. Stefano nella sua attuale collocazione di Via Banderali in Carignano”. Foto di Leti Gagge.

Questa Porta / Disegnata da Gio Maria Olgiato /

decorava il Varco orientale della Mura cittadine del 1536/

Fu demolita per Sostituirvi il Ponte Monumentale/

e qui ricomposta /

per deliberazione della giunta municipale /

10 giugno 1896

“Santa Caterina posta a custodia della Porta dell’Acquasola:  La scultura regge nelle mani la palma e la ruota simboli che stanno a ricordare il martirio.. Ai piedi la testa dell’imperatore Massimino che ne aveva decretato la morte”. Foto di Franco Risso

La Porta Murtedo (sita nell’odierno Largo Lanfranco) appartenente alla cerchia del tempo del Barbarossa nel 1511 venne atterrata e sostituita da quella detta dell’Acquasola. La nuova porta (locata dove oggi si staglia la discussa statua equestre del re sabaudo in Piazza Corvetto) venne rinnovata per meglio adattarsi al nuovo assetto murario e decorata con una preziosa statua di Santa Caterina d’Alessandria, opera di Guglielmo della Porta (oggi conservata in una nicchia di fronte allo scalone del primo piano dell’accademia Ligustica) e da un bassorilievo, opera di Gian Giacomo della Porta, raffigurante il Salvatore oggi conservato a Palazzo Bianco.

Venne purtroppo sacrificata nel 1830 dall’architetto Carlo Barabino per ampliare la scenografica passeggiata che collegava l’omonimo parco con la villetta del marchese Gian Carlo Di Negro. La struttura venne definitivamente rimossa negli anni ’70 dell’ottocento. Di passeggiata e Porta sono rimasti solo i  ricordi.

La lapide attribuita all’umanista Pietro Bembo su incarico del Senato recitava:

DUX GUBERNATORES PROCURATORESQUE /

AMPLISSIMI ORDINIS DECRETO  UT TUTELA AD HOSTI

BUS REPUBBLICA /

JUCUNDISSIMA LIBERTATE FRUATUR  SUMMA IMPEN

SA / INGENTIQUE STUDIO MONTIBUS

EXCISIS, / ET LOCI NATURA SUPERATA

PER DIFFICILI OPERE URBEM FOSSA/

MOENIBUS  AGGERIBUS  PROPUGNACULISQUE

INCREDIBILI CELERI MUNIERUNT/

ANNO DOMINI MDXXXVIII / RESTITUITAE
VERO LIBERTATIS X.

“Il Doge, i Governatori e i Procuratori, / per decreto di tutto il Senato,

Onde proteggere la Repubblica di nemici, /

E poter godere della carissima libertà,

con ingentissima spesa, / scavati i  monti con grande cura, / e vinta la natura del luogo con lavori assai difficili, / i confini della città di mura, bastioni e baluardi, con incredibile velocità munirono. /

Nell’anno del signore 1538 /

Anno decimo della restaurata libertà”.

“Brani delle mura cinquecentesche nel tratto dell’Acquasola dietro il Palazzo di Giustizia”. Foto dal web.
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“Stampa ottocentesca della Porta di San Tomaso vista dall’interno”.

Analoga lapide venne posta sopra Porta di San Tomaso che, esistente già dal 1345, assunse caratteristiche simili a quelle della Porta dell’Arco. Anche la statua del Santo, raffigurato nell’atto di toccare il costato del Salvatore, venne scolpita da Guglielmo della Porta. Nel 1749, per celebrare la cacciata degli austriaci in memoria dell’eroica impresa del Carbone, venne arricchita con una statua raffigurante la Madonna. La porta e l’omonimo attiguo monastero, furono demoliti a metà dell’800  nell’ambito dei lavori di ampliamento di Ponte dei Mille e Ponte Federico Guglielmo per far posto a fine secolo alla Stazione Marittima. La statua del santo è stata preservata ed è custodita nella chiesa di San Tomaso in Via Almeria, quella della Madonna, presso il Seminario del Righi.

“Lo scomparso Monastero di S. Tomaso”.

Infine Porta Siberia, o meglio Porta del Molo Vecchio, che venne costruita su progetto dell’Alessi fra il 1553 e il 1555 per fungere da raccordo fra le mura del Mandraccio e quelle della Marina e chiudere così la cinquecentesca cinta a levante. Ornata in pietra di Finale sul fornice alla sommità dell’arco reca una lapide attribuita al letterato Jacopo Bonfadio:

AUCTA EX S.C. MOLE EXTRUCTAQ.

PORTA PROPUGNACOLO MUNITA

URBE CINGEBAT MOENIBUS

QUACUMQUE ALLUITUR

MARI ANNO MDLIII.

“Per decreto del Senato, dopo aver prolungato il molo, costruita la porta e averla munita con difese (i cittadini) cingevano con mura la città lungo tutta la parte ove è bagnata dal mare”.

“Porta del Molo Vecchio”. Foto di Leti Gagge.

Ho lasciato volutamente per ultime le restanti due porte di Carbonara e Portello perché sono quelle le cui notizie e testimonianze sono più scarne.

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“Porta di Carbonara in una veduta  ottocentesca di P. Domenico Cambiaso. Da notare il casotto delle guardie e l’immancabile edicola votiva”.

Della prima si sa che, come la Porta di San Tomaso, esisteva già nel 1345 costruita nell’ambito del progetto di ampliamento delle mura verso ponente che prevedeva l’erezione di tre nuove porte (oltre a S. Tomaso e Carbonara, Pietraminuta). La porta era affiancata da una torre che controllava la porzione di territorio lungo l’omonimo rivo, compresa tra S. Agnese e il Carmine sotto il Castelletto.

“Cartolina di inizio novecento di Via Caffaro al cui imbocco nel ‘500 si trovava la Porta del Portello”. Immagine tratta da genovacollezioni.it”.
“Il Ponte Reale con l’omonima Porta di accesso proprio di fronte a Palazzo S. Giorgio”.

Anche della seconda si conosce poco. Si sa che si trovava nell’odierna omonima piazza all’imbocco dell’attuale Via Caffaro, al di fuori della quale v’erano ulivi e terreni coltivati. Posta a protezione e accesso, tramite un caruggio tra i palazzi Imperiale Lercari e Cambiaso, alla monumentale Strada Nuova, odierna Via Garibaldi. Da una parte la semplicità di oliveti ed orti, dall’altra l’opulenza della famiglie patrizie e della borghesia mercantile.

“I Ponti Calvi e Spinola. Acquaforte settecentesca.  Collezione topografica del Comune”.
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“Il Molo Vecchio con sulla destra la Porta del Molo e quella dei Cattanei”.
“Il Ponte Reale e quello della Mercanzia. Acquaforte settecentesca, Collezione topografica del Comune”.
“I Ponti Spinola, Reale e Calvi. Acquaforte settecentesco. Collezione topografica del Comune”.

Oltre alle principali sei porte citate ve ne erano altre cinque minori in porto collocate in corrispondenza degli omonimi moli: Porta Ponte Cattanei, Porta della Mercanzia, Ponte Reale, Ponte Spinola e Ponte Calvi.

In Copertina: “Porta degli Archi o di S. Stefano nella sua attuale collocazione di Via Banderali in Carignano”. Foto di Leti Gagge.

Portale in Vico dei Ragazzi 7r.

Poco prima dell’archivolto che immette in piazzetta Invrea sul fianco del palazzo a cui si accede dal civ. n. 3, si incontrano vestigia di un lontano passato.

Si tratta dei residui al 7r di un portale in pietra di Promontorio risalente addirittura al XIII secolo.

Ormai distrutto resta solo il trave in pietra nera che ritrae in rilievo una Madonna col Bambino racchiusa in una corona di fiori sorretta da due angeli.

Dalle descrizioni precedenti si evince che ai lati erano scolpiti candelabri, uccelli, mostri e figure alati.

In alto sul lato destro dello stipite si nota un medaglione imperiale.

In Copertina: Portale di Vico dei Ragazzi 7r. Foto di Giovanni Cogorno.

L’Archivolto Baliano

In Piazza Matteotti proprio poco prima di immettersi in via San Lorenzo sulla sinistra si incontra un passaggio che collega la piazza con il budello di via di Canneto il Lungo.

Questo varco è noto come archivolto Baliano e prende il nome dall’omonima famiglia che qui aveva le sue proprietà.

L’Archivolto Baliano ripreso da Canneto il Lungo verso Piazza Matteotti.

Tale archivolto, oggi semi tamponato e sovrastato da ulteriori successive costruzioni, è una delle porte della prima cinta muraria di cui si ha traccia del X secolo.

La copertura è stata realizzata nel primo decennio del 2000 per mascherare l’ingombrante struttura di consolidamento con travi metalliche necessarie alla sua stressa staticità.

L’Archivolto Baliano ripreso da Piazza Matteotti verso Canneto il Lungo.

L’esponente più famoso di tale schiatta fu senza dubbio il fisico e matematico Giovanni Battista Baliani o Baliano (Genova, 1582 1667).

La lapide che ricorda il rapporto di amicizia con Galileo Galilei

I suoi studi di meccanica e di astronomia gli valsero, testimoniata da una fitta corrispondenza epistolare, la stima e una venticinquennale amicizia con Galileo Galilei.

L’archivolto prima della copertura. Foto di Mario Caraffini.

Gio Batta Baliano fu anche uno dei principali artefici della costruzione delle Mura Nuove del 1639.

In Copertina: L’Archivolto Baliano ripreso dalla parte di Canneto il Lungo.

Vico Teatro delle Vigne

Tutta la zona contraddistinta dal toponimo delle Vigne ha origine antichissime e presenta continue vestigia medievali.

I nomi dei caruggi rimandano infatti alla vocazione agreste della contrada e omaggiano la millenaria basilica di Santa Maria delle Vigne – per i genovesi- semplicemente le Vigne.

In questo vicolo nel ‘600 aveva sede un’osteria che nel 1702 si trasformò in un teatro popolare.

La struttura interamente di legno contava ben 39 palchetti più un loggione.

Gli spettacoli di dubbia moralità che vi si rappresentavano costrinsero le autorità a numerosi interventi repressivi.

Il teatro, sotto la giurisdizione della nobile famiglia dei Durazzo, si convertì alle rappresentazioni di burattini e di storie sacre fino alla chiusura nei primi anni del ‘800 per motivi di igiene e sicurezza.

Qui ad inizio ‘800 si esibì la Compagnia di Giambattista Sales e Gioacchino Bellone ignari inventori in quel frangente della maschera piemontese Gianduja.

Il nome del loro personaggio principale Gerolamo infatti venne, per non offendere l’omonimo doge (Girolamo Durazzo) cambiato in Giuanin d’la douja (Giovanni della Foglietta) che per contrazione si trasformò in Gianduja.

In Vico Teatro delle Vigne rimane curiosa testimonianza invece di un passato molto più recente in un vecchio cartello di latta inchiodato al muro che avverte:

Contravvenzione £ 1000 e Risarcimento Danni Contro Chiunque non Rispetti i Muri di questi Edifizi Dichiarati Monumenti Nazionali e Contro Chiunque Versi Immondizie o Rifiuti in Questo Transito, Senza Riguardo alla Salute Pubblica e Contro la Moralità… Art. 726-733 Codice Penale.

Banali regole di buona educazione, per altro attuate dalla Repubblica di Genova già in pieno Medioevo, che oggi tra presunti writers e degrado diffuso, sono lettera morta di costante inciviltà.

In Copertina: Vico Teatro delle Vigne con scorcio su Piazza della Lepre. Foto di Giovanni Cogorno.

Vico della Prudenza

In quest’area della zona del Carmine sorgeva in epoca pagana il Tempio della Prudenza.

Da qui l’origine del nome del caruggio dove si presume avesse sede il tempio.

Secondo la tradizione il simbolo della prudenza era la giuggiola.

La giuggiola infatti (zizzoa in genovese) rappresentava la virtù del silenzio e forniva gli ornamenti per il tempio stesso.
Ancora oggi un secolare esemplare di questa pianta fa bella mostra di sé e dà il nome all’ omonima vicina piazza.

In Copertina: Vico della Prudenza. Foto di Stefano Eloggi.

L’Eden è qui… a Genova.

La trasmissione di ieri “Eden un pianeta da salvare” condotta da Licia Colò sulla Sette ha avuto come protagonista in prima serata Genova.

Nel complesso la narrazione non mi è dispiaciuta e l’ho trovata, in linea con il target ecologico del pubblico a cui si rivolge, senza infamia e senza lode.

Forse proprio per via di questo aspetto “green” si è dato ampio risalto alla pista ciclabile ed al trasporto pubblico, temi che in città non riscuotono proprio un consenso bulgaro.

Da Boccadasse con i suoi inconfondibili scorci e relativi racconti legati ai cantautori si è passati poi alle affascinanti atmosfere del centro storico con il suo inestricabile dedalo di caruggi e la magia delle sue botteghe storiche rappresentate, queste ultime, dalla confetteria più antica d’Europa, quella dei Romanengo.

Pazienza se non si è scollinato Capo Santa Chiara per mostrare un altrettanto meraviglioso e incorotto borgo marittimo come quello di Vernazzola.

Un plauso alla buona creanza di aver interpellato, per spiegare ai foresti la meraviglia dei Rolli, il Prof. Giacomo Montanari che ne è l’appassionato curatore.

Il viaggio è poi proseguito alla Spianata di Castelletto da dove, in pieno centro città, è possibile ammirare uno dei panorami più suggestivi della Superba.

Finalmente si è spiegato ai foresti che, come cantavano Fossati e De Andre’:

“Chi guarda Genova sappia che Genova
si vede solo dal mare”

E che l’altra chiave di lettura è quella della verticalità. Pazienza se una volta preso l’ascensore di Castelletto non si è ricordato che, proprio con quell’ascensore, Giorgio Caproni avrebbe voluto andarci in Paradiso.

Quel paradiso, ovvero quell’Eden, che Licia Colò rincorre nei suoi programmi, noi genovesi lo viviamo tutti giorni, privilegiati testimoni della sua incommensurabile bellezza.

La tappa all’Acquario è stata invece abbastanza scontata ma visto appunto il taglio naturalista del racconto, è comprensibile.

Così come comprensibile è stata la citazione di Colombo, la cui abitazione è stato omesso però essere un falso storico ad uso e consumo dei turisti.

Perdonata comunque per aver ribadito l’inconfutabile, documenti alla mano, genovesità dell’esploratore.

Giustificata invece, per via dell’importanza del museo stesso, la sosta al Gàlata, (non Galàta come erroneamente pronunciato) con tutto quel che riguarda la storia della navigazione e relativa testimonianza sull’emigrazione del Direttore Pierangelo Campodonico.

Dell’Antico Porto che poi in realtà è il Porto Antico si è raccontato del Bigo, dipinto solo come un ascensore panoramico senza spiegare cosa rappresenti (sistema di gru per la movimentazione delle merci sulle navi) e del sommergibile Nazario Sauro.

Pazienza se non si è parlato della Biosfera, dei Magazzini del Cotone, di quelli del Sale e dell’Abbondanza, della Città dei Bambini, del vascello pirata Neptune, della pista di ghiaccio in Piazza delle Feste.

Almeno la cinquecentesca porta alessiana del Molo Vecchio però due parole le avrebbe meritate.

Accenno che invece, per fortuna, è stato destinato alla banca più antica del mondo, quella del Banco di San Giorgio.

Interessante invece la bucolica escursione a Pegli nei giardini, di quello che è stato votato come il più bel parco d’Italia, di Villa Pallavicini.

Apprezzabile infine la scenografica chiosa sulle alture da uno dei sedici forti (Forte Begato) che fanno da corona alla città e alla secentesca cinta muraria delle Mura Nuove.

Insomma tutto sommato un gradevole spot pubblicitario che invita il turista a visitare la nostra città con l’augurio di comprendere perché noi genovesi la si ritenga la più fascinosa di tutte.

D’altra parte molti viaggiatori hanno professato la loro predilezione per Genova come ad esempio Cechov che nella sua commedia “Il Gabbiano” ci ha regalato questo inequivocabile dialogo:

Medvedenko: Posso chiedervi, dottore, quale città straniera vi è piaciuta di più?

– Dorn: Genova.

– Trepliov: Perché Genova?

– Dorn: Per le strade di Genova cammina una folla meravigliosa. Quando si esce, di sera, dall’albergo, tutta la strada è colma di gente. Poi te ne vai a zonzo, senza una meta, di qua e di là, a zig-zag, tra quella folla; vivi della sua vita, ti confondi a lei nell’anima; e cominci a credere che possa esistere una sola anima universale …

Genova è la città più bella del mondo”.

In Copertina: La conduttrice di “Eden” Licia Colò con sullo sfondo le imponenti torri di Porta Soprana.

Respublica superiorem non recognoscens

La Compagna Communis nata probabilmente già prima, fu a partire dal 1099 l’embrione della Repubblica di Genova.

Fu con la riforma degli Alberghi istituita nel 1528 da Andrea Doria che si ebbe i il passaggio formale dalla Compagna alla Repubblica.

E’ in occasione di tale trasformazione che Genova assume il suo glorioso e inequivocabile motto :

“Respublica superiorem non recognoscens” che tradotto dal latino significa:

“La Repubblica (di Genova) non riconosce nessuno che le sia superiore”.

Con questa categorica affermazione Genova proclama la propria inalienabile sovranità e lo fa con tutto il suo incommensurabile orgoglio che le deriva da una, già a quel tempo, plurisecolare storia.

Dal punto di vista giuridico e politico Genova enuncia così il primato del proprio Stato in quanto originario (non derivante da altro), assoluto (perché superiorem non recognoscens), esclusivo (perché indivisibile), inalienabile e imprescrittibile (in quanto di funzione pubblica, necessaria a ogni organizzazione politica).

Quando poi a inizio ‘600 le arroganti monarchie straniere oseranno, forti del loro strapotere militare e strategico, sfidare la Superba, Genova escogiterà un geniale artifizio:

l’elezione nel 1637 della Madonna a Regina della città che permetterà ai Serenissimi Collegi di sostituire nello stemma e nel titolo la corona dogale in vigore all’incirca dal 1570 (seppur il dogato esistesse già dal 1339) con quella regale.

Le statue della Vergine saranno poste sulle principali porte delle Mura Nuove recanti l’epigrafe: “Posuerunt me Custodem”.

“Hanno messo me a protezione”.

Fine di ogni discorso.

Respublica superiorem non recognoscens!

In Copertina: lo stemma di Genova recante il motto “Respublica superiorem non recognoscens”.

Vico del Gallo

Vico del Gallo fa parte di quella serie di corti caruggi che uniscono via Gramsci a via Prè.

A fine ‘800 il Comune decise di chiamare alcune vie con nomi di animali (ad esempio vico chiuso del Leone, o vico della Tartaruga).

Ecco quindi vico del Gallo il cui toponimo nulla ha a che vedere, né con il Don Partigiano, né con l’omonima famiglia di origine medievale.

Di quest’ ultima va ricordato Antonio, poeta e, soprattutto cancelliere del Banco di San Giorgio, che scrisse un’apprezzata biografia di Cristoforo Colombo.

Dei Gallo già dal 1150 si ha notizia in quel di Levanto. Nel 1528 con la riforma degli Alberghi voluta da Andrea Doria furono ascritti al “Libro della Nobiltà”e confluirono in parte nei dei De Marini, in parte nei Lercaro.

In Copertina: Vico del Gallo.

Via di S. Croce

E’ uno degli scorci più suggestivi di Genova, un luogo sospeso nel tempo dove luci ed ombre ingannano lo spazio giocando a nascondino.

Si tratta di Via e Piazza di Santa Croce incastonate fra Sarzano e la collina di Santa Maria di Castello, il fulcro più antico del centro storico.

Quest’area costituiva un tempo l’originario complesso di Santa Croce, vicino all’attigua omonima porta, una delle tante strutture del litorale cittadino, atte al ricovero dei pellegrini da e verso la Terrasanta.

In Copertina: Via di Santa Croce. Foto di Anna Armenise.