Quando per andare allo stadio si usava dire “vado al Campo” (il “Tempio” lasciamolo per le funzioni religiose)… operai ed impiegati ci andavano a piedi o in tram, i signori in auto stile gangsters di Chicago… quando in piena epoca fascista non si poteva dire Genoa 1893, bensì Genova 1893… quando i cugini non esistevano ancora se non sotto forma di continue fusioni e trasformazioni… quando non v’erano dubbi su quale fosse l’unica vera squadra cittadina.
Tag: Italia
… Quando rombavano i motori…
Quando, costruita fra il 1909 e il 1915 su progetto dell’ingegnere Dario Carbone, Corso Italia non era ancora meta delle passeggiate domenicali … quando i padri di famiglia non avevano ancora sottobraccio la moglie e dovevano, con la mano libera, ninnare le carrozzelle dei pargoli… quando, nei primi decenni del Novecento davanti al Lido, sfrecciavano bolidi degni delle formula uno e si correvano gran premi da far invidia a Montecarlo… quando il rombo dei motori sovrastava quello delle cronache della radio.
… Quando in Piazza Rossetti…
Quando l’architetto Daneri, dove un tempo sorgeva il cimitero musulmano e il Lazzaretto prima, i cantieri navali Odero poi, concepì il suo prototipo di piazza moderna (1933), Piazza Rossetti.
Nel primo venivano sepolti i turchi, nel secondo internati in quarantena gli equipaggi dei vascelli a rischio contagio di peste (vi fu ospite anche Jean-Jacques Rousseau), dall’ultimo si forgiavano lamiera su lamiera le imbarcazioni più prestigiose della penisola… Quando, inaugurato nel 1947, al posto di tutto ciò, in Piazza Rossetti c’era un campo di calcio, intitolato “Libertà”, in onore di quanto accaduto un paio d’anni prima.
… Quando… frangeva il mare…
“La casa delle mogli”…
Camogli è senza alcun dubbio uno dei borghi marinari più incantevoli della riviera di Levante e non solo, patria secolare dei migliori marinai italiani, da sempre compagna inseparabile delle primaverili passeggiate domenicali dei genovesi.
Di Camogli se ne ha per la prima volta menzione in un inno liturgico del 1018 e la sua storia si dipana parallela a quella della Repubblica di Genova per la quale divenne inestimabile e proficua fucina di uomini di mare. Nei secoli successivi, a conferma della sua indiscutibile vocazione marittima, venne identificata come la “Città dei Mille Velieri Bianchi”.
In relazione all’origine dell’etimo di questa località numerose sono le interpretazioni, alcune fantasiose e leggendarie, altre basate su studi ed ipotesi glottologiche.
Una delle prime teorie si rifà a Camulo, il corrispondente etrusco del dio Marte o a Camolio omologo nell’ambito gallo celtico. Secondo altri storici invece il nome deriverebbe dalla popolazione che abitava quei luoghi, prima della conquista romana, i Casmonati, argomentazione quest’ultima, recentemente smentita dagli studiosi moderni.
I glottologi, inoltre, dissentono sostenendo la teoria secondo la quale “Cam” significherebbe nell’antico greco ligure, “in basso” e “gi” terra, ovvero “terra in basso” (che procede lungo alla costa rispetto al valico della strada “Rua”, la Ruta).
Queste le spiegazioni storiche e linguistiche più accettate, ma esistono anche un paio di favole, miti, leggende che meritano di essere raccontate:
La prima, forse quella più credibile, racconta di “Ca” case a “moggi” a mucchi a sottolineare la particolare e suggestiva conformazione delle abitazioni camogline ammucchiate ed addossate le une alle altre, sia sul mare che verso il monte, lungo l’Aurelia.
La seconda, quella che preferisco, anche se di pura fantasia, si riallaccia ad un ambito più strettamente marinaro. “Ca” casa “mugge” delle mogli poiché il borgo, con i suoi marinai spesso impelagati in qualche mare foresto, era abitato in prevalenza da donne. Una volta doppiato il promontorio di Portofino il marinaio camoglino era un uomo libero e, affrancato da vincoli terrestri, il mare diventava la sua sposa. Quando tornava, magari dopo mesi di lunga navigazione, veniva accolto in maniera coreografica. Avvistando all’orizzonte i legni rientrare, le donne esponevano infatti alle finestre dei drappi o lenzuola colorate in modo che gli uomini potessero, associando il colore prestabilito alla propria dimora, riconoscere la propria abitazione -dicono le male lingue- senza incorrere in spiacevoli equivoci.
Che il suo etimo tragga origine da divinità etrusche o galliche, dalla particolare conformazione del suo fronte mare, o dalla suggestiva accoglienza muliebre, ciascuno scelga la versione che più lo soddisfi, Camogli, esercita sempre il suo immutato fascino pronta ad arruolare, sui suoi velieri, persino il marinaio più indisciplinato, la mia fantasia.
… Quando Corso Buenos Aires…
Quando, per allinearla con la nascente Via XX settembre, sul finire dell’800 Corso Buenos Aires venne letteralmente abbassata di circa tre metri. In realtà, ad inizio dello stesso secolo si chiamava “Strada Reale”, poi “Via Minerva” ed era stata rialzata di circa cinque metri, per non coinvolgerla nelle piene del Bisagno.
… Quando onda del mare e borgo…
quando onda del mare e borgo si carezzavano vicendevolmente… quando bagnanti e pescatori coesistevano a pochi metri di distanza… quando scogli e spiaggia si arrembavano al muraglione sotto la chiesa di S. Pietro. Quando anche nel nostalgico bianco e nero dell’immagine i colori sembrano irrompere per dipingere ed eternare panorami della Foce cancellati per sempre.
… Quando il ponte di Sant’Agata…
Quando il ponte di Sant’ Agata, la cui erezione risaliva almeno al 1100, presentava ancora cinque delle sue ventotto arcate originarie, integre… A quel tempo ciascuna arcata di 13 metri copriva gli oltre 300 metri di larghezza dell’alveo del fiume…. Le alluvioni del 1970 e del 2011 erano ancora da venire.
Appunti di un Sir inglese…
Non so se il primo in assoluto, ma certamente è stato uno dei primi viaggiatori anglosassoni a documentare il suo viaggio a Genova. Fynes Moryson giunse a Genova a fine ‘500 partendo da Livorno a bordo di una feluca che aveva costeggiato il litorale. Una volta doppiato il monte di Portofino l’imbarcazione, sbattuta come un fuscello sulle rocce della costa, s’imbattè in una violenta tempesta inducendo i passeggeri ad affidarsi alla clemenza divina. Il britannico invece, evidentemente esperto nuotatore, si tuffò in mare riuscendo a mettersi in salvo sugli scogli. Da qui la compagnia nuovamente ricostituitasi si mise in viaggio verso Genova, in silenzio, facendo attenzione anche al proprio calpestio, intimorita dal fatto di aver incontrato un villaggio distrutto e bruciato di recente dai turchi.
“All’entrata di Genova scorgemmo due palazzi signorili, uno di Giorgio d’Auria, l’altro di un signore chiamato Cebà. Mentre ci si avviava dentro la città e prima di entrarne alle porte v’è il sontuoso palazzo di Andrea d’Auria. L’edificio stesso, il giardino, le scale digradanti al mare, la sala dei banchetti, e diverse pinacoteche sono di magnificenza regale. Non lungi da lì, a una parete c’è una statua eretta ad Andrea Doria, l’ora defunto ammiraglio della flotta ispana… In persona io vidi il palazzo di Gian Battista d’Auria la cui dimora era assai maestosa e il giardino non solo assai piacevole ma adorno di statue e di fontane. Genova s’è fortificata verso il mare con ogni e verso terra sia attraverso la natura che l’arte essendo l’accesso alla città uno solo e impervio. Le strade sono strette, i palazzi eretti magnificamente, con marmo e le altre costruzioni di pietra libera, a cinque o sei piani e le finestre sono vetrate cosa rarissima in Italia. Le vie sono lastricate con silice e le case dei sobborghi sono quasi belle come quelle cittadine. Verso le isole della Corsica e della Sardegna nel mare genovese si pescano coralli… Ora proprio in pieno dicembre i mercati erano pieni di fiori estivi, erbe e frutti. Si dice proverbialmente di questa città: “Montagne senza legni, mare senza pesci, Huomini senza fede, Donne senza vergogna, Mori Bianchi, Genova Superba”…
“Gli uomini genovesi, nel loro festeggiare, danzare e in una libera conversazione e le donne nei loro abbigliamenti si avvicinano più ai francesi che agli italiani”.