Nel 1706 in una raccolta intitolata “Perfetta Poesia Italiana” apparvero i versi di uno sconosciuto poeta genovese, tal Giovanni Battista Pastorini. Lo scrittore compose un appassionato quanto addolorato sonetto in onore della sua città, ancora scossa e ferita dalle recenti vicende belliche. L’autore infatti, sull’onda emotiva del nefasto bombardamento del 1684 ad opera del Re Sole, annotò:
“Genova mia, se con asciutto ciglio
Lacero e guasto il tuo bel corpo io miro
Non è poca pietà d’ingrato figlio
Ma ribello mi sembra ogni sospiro.
La maestà di tue ruine ammiro,
trofei della costanza e del consiglio;
ovunque io volgo il passo o l’guardo io giro,
incontro il tuo valor nel tuo periglio.
Più val d’ogni vittoria un bel soffrire,
e contro ai fieri alta vittoria fai
con il vederti distrutta, e nol sentire.
Anzi girar la libertà mirai,
e baciar lieta ogni ruina e dire:
ruine si, ma servitù non mai”.
In quell’occasione Genova mostrò fiera e tenace tutto il suo orgoglio. Sola e abbandonata da tutti, lei piccola Repubblica, seppe opporsi alla tracotanza del più potente regno terreno. “Frangar non Flectar” (“Mi spezzerò ma non mi piegherò”) meritandosi in quel frangente, più che mai, l’appellativo di Superba.
Poco più di un secolo fa, all’inizio del ‘900, accanto al teatro “Garibaldi” v’era un piccolo caffè frequentato da un tale a tutti noto con il nome di “Baccicin de l’aegua”. Ovviamente si trattava di un soprannome ironico visto l’inesistente rapporto che il nostro eroe aveva con l’acqua alla quale preferiva senza dubbio alcuno il nettare di Bacco. Baccicin soleva spesso dire: “Se io fossi il conte Raggio, metterei i recipienti del vino sul tetto del palazzo, al posto delle cisterne dell’acqua. Pensate che bello, aprire il rubinetto del lavandino e veder venir giù del Barbera”.
Baccicin sovente brillo si appostava all’angolo dei vicoli di Via Garibaldi dove teneva comizi e sproloqui su qualsiasi argomento fino a che non veniva costretto dai vigili a sloggiare. “Se fuise u cunte Raggio non me mandiesci via..” rispondeva risentito al cantunè di turno e nell’allontanarsi barcollante verso la Maddalena canticchiava:
“O Baccicin vattene a ca, to moè a t’aspeta.
Baccicin vattene a ca.
E a t’ha leasciou u lumme in ta scaa..”.
Il suo sogno era diventare ricco, ormai l’avete capito, come il conte Raggio per riempire di vino i recipienti del suo palazzo e per questo giocava al lotto tutto quello che, tra guadagni ed elemosine, riusciva ad arraffare qua e là. Non sapendo leggere chiedeva ai passanti di comunicargli la sequenza dei tre numeri estratti. Fu così che un giorno gli amici gli giocarono un brutto scherzo. Riuscirono ad impadronirsi del cappello del malcapitato dove era nascosta la ricevuta dei numeri giocati ed inscenarono un tiro mancino molto ben orchestrato alle sue spalle al quale presero parte diversi personaggi..
Uno sconosciuto con in bella vista il giornale “Il Balilla” interrogato dal Baccicin lesse, guarda caso, i numeri giocati dal poveretto che, superato il momento di incredulità, strappò dalle mani del tizio il giornale e corse euforico giù per il caruggio, irrompendo nel piccolo caffè dove tutti, a conoscenza dello scherzo, lo attendevano.
L’oste e gli avventori lessero e confermarono l’estrazione sulla ruota di Genova. Baccicin era al settimo cielo e si precipitò al botteghino del lotto per riscuotere la sua agognata vincita. Lo scherzo era sfuggito di mano e chi l’aveva ordito già si era pentito quando vide il titolare della ricevitoria uscire trafelato mentre si tamponava il naso sanguinante. Ai presenti implorò, mentre si udivano i rumori della vetrina infranta e i tonfi di sedie e tavoli sfasciati, di fermarlo perché “u l’è mattu, acciapelu..”. Un vigile accorso per sedare la questione subì un calcione nelle parti “nobili” di un furibondo Baccicin al quale nulla potè impedire l’arresto con tanto di permanenza in Torre (Grimaldina) prima e in Pretura, poi.
La vicenda finì sulla bocca di tutti e persino il Balilla pubblicò una parodia del mancato vincitore. Oltre al danno anche la beffa da “macchietta” a “zimbello”.
Passarono gli anni e con essi anche la prima guerra mondiale e Baccicin, incurvato dagli anni e afflosciato dalle delusioni era ormai l’amara caricatura di se stesso. Continuò, fino all’ultimo dei suoi giorni a chiedere l’elemosina, bofonchiando una nenia incomprensibile, nella zona antistante il palazzo della Meridiana.
Quella nenia recitava: “O Baccicin, vattene a ca, o Baccicin vattene a ca…”
Il Castello venne edificato a partire dal 1886 sulla collina di Montegalletto, sui resti dei bastioni del XII sec. e dei fortilizi cinquecenteschi.
I lavori furono affidati agli ingegneri Matteo Graziani e Filippo Maria Parodi (reduce garibaldino), e all’architetto portoghese Alfredo D’Andrade.
Fautore di questo ambizioso progetto fu il capitano Enrico Alberto D’Albertis, personaggio eclettico e geniale, promotore e protagonista di mille imprese, marinaio ineguagliabile, signore di tutti i mari.
Il vecchio lupo di mare volle costruire una dimora, giocoso miscuglio di stili neogotici e moreschi, come una sorta di casa museo dove raccogliervi le immense e variegate collezioni che aveva accumulato nei suoi viaggi in giro per il mondo. Il capitano infatti aveva fatto parte di quel coraggioso manipolo di esploratori che avevano fornito materiale e lustro alle spedizioni scientifiche italiane di fine ‘800.
Alla sua morte nel 1932 D’Albertis stabilì che il castello e le sue preziose collezioni fossero donate alla città di Genova.
All’interno dei locali sono esposte collezioni etnografiche, archeologiche e marinaresche sia del capitano stesso che del cugino, anch’egli esploratore e studioso, Luigi Maria. Sono inoltre presenti delle collezioni delle Missioni Cattoliche Americane e una raccolta di strumenti musicali etnici allestita dall’associazione Echo Art.
Ma il castello, per quanto grande, non sarebbe bastato a conservare tutto il materiale del capitano che si trova in parte anche presso il Museo Archeologico di Pegli, Il Museo di Storia Naturale Giacomo Doria, Il Galata Museo del Mare e nell’Archivio Fotografico del Comune di Genova nella succursale di Palazzo Rosso.
Sui bastioni si staglia la statua di un angelo armato di una spada d’oro con in mano una bilancia e inciso il motto “Cvstos et Vltor”. Si tratta di una scultura cinquecentesca di San Michele che in origine era collocata sulle mura in prossimità della Porta di San Tommaso, il varco destinato all’Arsenale.
Dal parco si accede al castello attraverso una galleria in curva con un bel portale in conci bicromi a sesto acuto. Ai lati sono posti due leoni in pietra istriana con sopra l’arco lo stemma della famiglia: due catene incrociate, un elmo e un leone rampante con il motto “Tenacior Catenis”.
A fianco una lapide, concepita sul modello di quelle scolpite per i grandi ammiragli della Repubblica marinara, testimonia la costruzione del castello:
“Ad Memoriam Gloriae Servandam / Haec Libertatis Propvgnacvla Prima Patriae Decora / Temporis Hominvmque Injvria Pene Dirvta / Henricvs Albertvs ex Albertiis Navarchvs / Fvnditvs Instavravit / Aptamqve in Loco Sibi (testo abraso) Condidit Sedem / Anno D. MDCCCLXXXVI-XCCII. (Per conservare la memoria della gloria degli avi, questi monumenti della libertà, ornamenti della patria distrutti dal tempo e dagli uomini, E. A. D’Albertis, comandante di navi ricostruì e adattò a sua dimora. 1886).
Lì accanto un’altra piccola lapide riprende l’incipit di quella più celebre affissa su Porta Soprana: “Si Pacem Portas Licet Has Tibi Tangere Portas / Si Bellvm Queres Tristis Victvsque Recedes” (Se porti pace, ti è permesso toccare queste porte, se porti guerra ti ritirerai triste e vinto”).
Nella galleria si trova un murales permanente a mosaico realizzato da “Terre des Hommes” e “Fondazione Rigoberta Menchù”. Subito dopo la galleria, sul muraglione, i resti di una meridiana andata perduta. Più avanti quelli di una seconda meridiana detta delle “Danzatrici” sotto la quale campeggia un motto firmato da Gabriele D’Annunzio. Sul piazzale d’onore sono accatastate varie palle di cannone in pietra con le scritte:”Assedio di Rodi / Sultano Solimano / 1522/ Dono del Sultano / Abdul Amid / 1907. Su un’altra palla si legge la dicitura: “Castello di Voltaggio”.
All’esterno, sparse in vari punti, si trovano dieci meridiane. Il Capitano ne era un vero e proprio cultore e ne costruì 107 in tutto. Quella posta sul bastione è dedicata all’impresa di Cristoforo Colombo. Alla base di questa una pietra con l’epigrafe: “Questo masso / Divelto / dalle Scogliere di San Salvador / Addi XX Luglio MDCCCXCIII / Ricorda / Il Votivo Pellegrinaggio del “Corsaro” / Nella prima Terra Scoperta / Da / Cristoforo Colombo / Cap. E. A. D’Albertis”.
Fra le aiuole s’incontrano manufatti marmorei, una fontanella con una testina di leone e due gigantesche costole di balena. Vari capitelli, una panchina in marmo con su scolpita una caravella. Alcune statue e, fra queste, una Venere con alla base il goliardico motto “Quid Facies Facies Veneris Si Veneris Ante?”.
Sull’angolo a sud del bastione la statua dell’Araldo annuncia le prossime meraviglie.
Il quinto è il Re saraceno Abu-Yahya Muhammad che nel 1208 governava l’isola di Maiorca. Da questo avamposto infastidiva i commerci dei catalani che chiesero l’intervento del Re d’Aragona Giacomo I. Le forze spagnole congiunte nel 1230 tornarono così in possesso della città di Palma. Temendo che i Genovesi, visto i precedenti accordi (in passato avevano stipulato con il saraceno favorevoli patti commerciali), avessero interesse ad intervenire in favore di costui, gli spagnoli contattarono Il Papa in persona perché chiedesse loro di mantenersi neutrali. In questo modo le Baleari sarebbero tornate sotto l’influenza cristiana e i Genovesi ne avrebbero tratto comunque beneficio. Infatti Giacomo I, per premiare il mancato intervento delle galee di San Giorgio, concesse nel 1233 ai Genovesi analoghi privilegi commerciali e daziari, nonchè il terreno per la costruzione di un fondaco e la costituzione nelle principali città marittime spagnole di consolati che tutelassero gli interessi della Dominante.
Il sesto è il Principe Enrico d’Aragona, fratello del Re Alfonso d’Aragona e di Giovanni, delle cui vicende ho già raccontato a proposito del Duca di Sessa, catturato anch’egli durante la battaglia di Ponza del 1435. Come il fratello Sovrano sbarcò a Savona e non a Genova ma, probabilmente vista l’incredibile risonanza che ebbero i fatti, Genova volle lo stesso, rappresentandolo, gloriarsene per l’eternità.
Il settimo è Alberto Morosini l’ammiraglio veneziano a cui i Pisani nel 1284 affidarono il comando della loro flotta e il titolo di Podestà nell’epico e decisivo scontro della Meloria. Il valente condottiero dei pisani verrà sconfitto dall’abilità dei due comandanti genovesi, Oberto Spinola e Benedetto Zaccaria che lo condurranno in catene insieme ad altri 9000 prigionieri in quella che, da allora, si chiamerà Campo Pisano. Dopo tredici lunghi anni di prigionia il Morosini farà ritorno nella sua natia Venezia dove trascorrerà il resto dei suoi giorni.
L’ottavo è il Re di Cipro Giacomo I che venne catturato e imprigionato dai nostri avi per dieci lunghi anni. I Genovesi infatti, invitati dagli aragonesi che ne avevano chiesto l’intervento per vendicare la morte di Pietro I, nel 1373 occuparono l’isola. I nobili del luogo elessero Re Giacomo I, figlio del fratello di Pietro I, per contrastare l’ingerenza genovese. Una parte di ciprioti parteggiò invece per l’altro nipote Pietro II. I genovesi, ottenuta Famagosta, portarono a Genova come garanzia Giacomo I. Verrà incarcerato insieme alla moglie nelle segrete della Lanterna dove la suasposa darà alla luce diversi figli, fra i quali Giano e Ugo, il primo futuro Re, il secondo Arcivescovo venturo di Nicosia. Alla morte di Pietro II, rimasto senza eredi, i ciprioti designeranno Giacomo I suo legittimo successore. I Genovesi, in cambio di un congruo riscatto, della conferma della sovranità su Famagosta e di rinnovati privilegi commerciali, ne acconsentiranno la liberazione.
Nelle nicchie sopra il cornicione della settecentesca facciata del Palazzo Ducale, disegnata dall’architetto Cantoni, sono presenti otto singolari sculture. Si tratta di otto statue realizzate (1777) dall’artista Giacomo Maria da Bissone che immortalano, incatenati e sottomessi alla Repubblica, otto grandi nemici di Genova. Da sinistra a destra sono lì posti ad eterna ed imperitura gloria della Superba:
La prima figura, partendo da sinistra, è quella del pirata Mujaid, meglio noto con il nome italianizzato Musetto. Costui, a cavallo dell’anno mille comandava una numerosa e pericolosa flotta di predoni che aveva la sua base alle Baleari e che non mancava di procurar fastidi e devastazioni lungo le coste, fino ad occupare, ai danni dei pisani, la Sardegna. Nel 1016 il predone addirittura rase al suolo la città di Luni costringendo il Papa Benedetto VIII, genovesi e pisani ad allearsi per far fronte al comune nemico. Nonostante il pirata fosse stato sconfitto e costretto alla ritirata da Luni, tornò all’assalto con una flotta rinnovata, questa volta della Sardegna. Nello scontro contro le due Repubbliche ebbe la peggio e i genovesi ne ottennero la testa issata su un palo, a mo’ di trofeo.
Il secondo è Giacomo da Marsano, Duca di Sessa un personaggio legato alla corte aragonese che venne fatto prigioniero dai genovesi, insieme al Re Alfonso d’Aragona e a molti nobili e principi ispanici, nella battaglia di Ponza del 1435. A seguito di questo scontro i genovesi, condotti dall’ammiraglio Biagio Assereto, catturarono 5000 prigionieri fra i quali, appunto, Re Alfonso e due dei suoi fratelli Enrico e Giovanni e numerosi altri nobili, compreso il Duca di Sessa. La loro madre Eleonora, al solo pensiero dei suoi tre figli in mano dei genovesi, morì dal dolore. In realtà il Re e gran parte del suo seguito, causa gli imperscrutabili intrecci del potere, per ordine dei Visconti di Milano, al servizio dei quali erano i nostri marinai, vennero rilasciati a Savona e non misero mai piede in città. Giacomo da Marsano fu tra coloro ai quali toccò la triste esperienza della permanenza a Genova. La sua figura simboleggia la vittoria sugli aragonesi (la vicenda è narrata nel racconto “Storia di due grandi ammiragli).
Il terzo è il corsaro Dragut che fece la sua fortuna navigando prima al servizio e poi divenendone il successore, di Khayr Al Din, il famigerato ammiraglio degli Ottomani, a tutti noto come il Barbarossa. Le gesta del corsaro che per anni aveva funestato il litorale tirrenico terminano con la cattura avvenuta per mano di Giannettino, nipote di Andrea, in una baia della Corsica dove aveva cercato rifugio braccato dalle galee di S. Giorgio. Andrea Doria lo fece incatenare quattro lunghi anni al remo della sua ammiraglia prima di venderlo come schiavo, dietro lauto compenso, proprio a quel Barbarossa del quale sarebbe divenuto successore. Per molti non fu una scelta felice quella dell’Ammiraglio genovese poiché Dragut divenne “la spada vendicatrice dell’Islam” funestando per circa un ventennio il “mare nostrum”. In realtà, secondo alcune fonti, durante la sua prigionia consumata in parte nella Torre Grimaldina, in parte nelle sfarzose stanze della Casa del Principe, il corsaro venne trattato con tutti i riguardi riscuotendo, a detta delle male lingue, grande consenso presso le nobildonne del palazzo. A mio modesto e personale parere invece l’ammiraglio, liberandolo, si era assicurato il lavoro per gli anni a venire. I due erano profumatamente pagati dai rispettivi stati (Spagna e Impero Ottomano) per combattersi a vicenda e la scomparsa di uno dei due avrebbe significato la parola fine sui loro affari.Dragut morì in uno scontro presso Malta nel 1565 quando una scheggia lo colpì alla testa e pose fine alla sua inimitabile carriera. Per rispetto o scherno, questo non so, Andrea chiamò con il nome del pirata il suo gatto di casa.
Il quarto è Niccolò Pisani, ammiraglio dei veneziani, durante la terza guerra contro i leoni di San Marco. Nella battaglia avvenuta nel 1354 presso l’isola di Sapienza, nel Mare Adriatico, subì una incredibile sconfitta ad opera di Pagano Doria che, seppur in forze numericamente inferiori, inflisse al collega veneziano una lezione di tattica. Quattromila veneziani tinsero di rosso le acque della baia, le navi superstiti furono condotte a Genova come bottino di guerra, il Pisani imprigionato.
Alla notizia della disfatta il doge veneziano Andrea Dandolo morì di crepacuore.
Verrà liberato l’anno seguente a seguito della pace firmata fra le due Repubbliche e tornerà in laguna fino alla fine dei suoi giorni.
Recita una lapide affissa all’angolo fra Scurreria e Campetto:
“Io, Iacobvs Imperialis Vincentii F. / Pvblico Privatoq. Comodo ac Vrbis Decori / Prospiciens Qvam Plvrimis Domibvs Coemptis, / et Dirvtis. Viam Hanc, Cvi Ab Avctoris / Familia Nomen Inditvm, Aere Svo / Faciendam Ornandam Sternendamq. / Cvravit. An. Sal. MDXIIIC.”
La via venne aperta nel XVI sec. per volontà di Gio. Giacomo Imperiale per dare un accesso più consono al suo sontuoso palazzo di Campetto. La zona infatti anticamente nota con il nome di contrada scutaria perché sede delle officine degli scudai, era un dedalo intricato di stretti caruggi. In un secondo momento nel quartiere si aggiunsero anche le botteghe dei “Toscani”, come erano comunemente indicati i setaioli. L’inizio della via, dove oggi si trova la farmacia del Duomo, costituiva infatti la piazzetta dei Toscani. Durante alcuni lavori di ripristino della sede stradale avvenuti nel 1843 vennero rinvenute in questo tratto di strada tombe, urne cinerarie in terracotta di epoca preromana e monete romane. La famiglia Imperiale, molto ricca ed influente anche in oriente, possedeva, come testimoniato dalle iscrizioni sparse qua e la, quasi tutti i palazzi della strada.
All’angolo con Campetto s’incontra un’immagine della Madonna dell’Immacolata Concezione del XVII sec., una delle edicole più note e meglio conservate del centro storico: la Vergine è rappresentata in posa estatica fra ondulati drappeggi con trionfo di angeli in cornice. Sul cartilio alla base il celebremotto: “Imperet et Impetret”.
Sopra la vetrina di un negozio di abbigliamento si scorge un fregio marmoreo fra due cornucopie che rappresenta l’allegoria dell’Italia che porta il tricolore con l’epigrafe “Italia Libera Lo Vuole e Lo Sarà”. Il rilievo con relativo motto ispirato dalle crociate (Deus Vult…) venne posto nel 1847 come auspicio divino del Risorgimento per l’unità d’Italia.
Al civ. n. 1 Madonna col Bambino del sec. XVII, un medaglione in marmo con Maria che regge il bambino in piedi mentre benedice.
Ai civici. n. 2 e n. 5 sui portaledel XVI sec. con stipiti in bugnato con timpano curvo e spezzato, lo stemma della famiglia Imperiale. Al civ. n. 3 si notano, ai piani alti, i resti di sfarzosi affreschi che abbellivano la facciata con motivi architettonici.
Proseguendo, al civ. n. 6, la Madonna della Misericordia, un altro medaglione in marmo bianco che ritrae i personaggi in bassorilievo. La scultura del XVIII sec. è attribuita all’artista genovese Giacomo Antonio Ponsonelli.
All’angolo del palazzo ecco la Farmacia del Duomo, locale aperto nel 1849 e in precedenza ritrovo dei giacobini genovesi che tramavano l’insurrezione popolare. All’interno gli arredi, il vasellame, le decorazioni e i pavimenti sono quelli originali. Del primo novecento sono invece i soffitti lignei.
La Via di Scurreria originaria, per distinguerla dalla nuova, voluta dagli Imperiale, assunse così il titolo di “la Vecchia”. Qui aveva sede la bottega del doge popolare Paolo da Novi la cui attività era di tingere le stoffe. Eletto doge nel 1507 a furor di popolo dopo la cacciata dei Fieschi e dei francesi quando questi ripresero il potere venne imprigionato nella torre Grimaldina e, dopo sommario processo, pubblicamente decapitato il 10 aprile 1507, davanti a palazzo Ducale. I tintori Toscani, per omaggiare degnamente la processione del Corpus Domini, usavano ricoprire il selciato del caruggio con stoffe di velluto e arazzi finemente ricamati. Curiosa la conformazione del civ. n. 5 un susseguirsi confuso e sovrapposto di stili ed interventi nei secoli: il portale in marmo venato presenta un falso timpano a volute, il mascherone centrale con due listarelle di marmo vuote. Sul fronte del palazzo sono murate due colonne in pietra con capitelli marmorei, una finestra bifora con archi tondi, alcuni poggioli in ferro battuto ed i resti di un arco in conci bicromi, ora tamponato. Murata è anche la loggia al civ. n. 1 all’angolo con Vico Indoratori.
Di fronte al civ. n. 5 un’edicola vuota di Madonna col Bambino che conteneva un dipinto su tavola del XVII sec., oggi scomparso.
Svanito però non è il suo fascino medievale; Scurreria, per mantenerlo, s’è fatta in due.
Si tratta indiscutibilmente di uno dei luoghi di culto più affascinanti della città. Collocata sotto la collina di castello, a ridosso del Mandraccio, la chiesa dei SS. Cosma e Damiano nella sua lineare architettura romana, gioca a nascondino fra i caruggi.
Un tempo la zona era nota con il nome di “contrada serpe” ed era puntellata di abitazioni turrite, dimore strategiche delle famiglie più in vista dell’epoca: Malloni, Della Volta, Della Chiesa, Zaccaria, Castello.
La struttura, come del resto gran parte della zona, venne pesantementedanneggiata durante il bombardamento del re Sole del 1684, il chiostro distrutto. I bombardamenti dal 1942 al 1944 completarono lo scempio causando la perdita d’importanti dipinti, come elencato nell’inventario della chiesa, di Giovanni Roos, Domenico Castello e Domenico Fiasella.
Interessanti sono le sculture poste sul portale datate intorno al 1155, le più antiche dell’edificio. L’architrave è il reimpiego di una cornice romana arricchita da un motivo a mosaico in marmi policromi. Particolari poi, sui capitelli del vestibolo di destra, le sculture di una sirena-uccello e di una sfinge dal volto femminile. Il resto della costruzione è risalente al ‘200.
La storia di questa chiesa risale alla notte dei tempi, intorno al VII sec. d. c. quando venne intitolata una cappelletta al vescovo di Pavia San Damiano. La fabbricazione vera e propria del tempio avvenne, come testimoniato dai documenti di fondazione, solo nel 1049. Durante il secolo successivo la chiesa raggiunse il suo apogeo con la costruzione del portale, l’erezione della torre nolare e l’inserimento del rettore fra gli aventi diritto alla votazione per l’elezione del Vescovo.
Nel 1296 le famiglie Mallone e Spinola donarono le reliquie, provenienti da Costantinopoli, dei due fratelli martiri, Damiano e Cosma che divennero così i santi cointestatari dell’edificio. Essendo i due i patroni dei chirurghi e dei barbieri, dal 1476 le relative corporazioni vi stabilirono la comune cappella della propria consorteria.
La facciata a capanna, in pietra, tripartita da lesene nella parte superiore, presenta in basso un basamento nel quale sono ricavate tre tombe ad arcosolio con arcate a tutto sesto del XII sec. ed una con arco acuto retto da colonnine gotiche, con decorazione a bande bianche e nere, detta “tomba del Barisone”, realizzata durante la ristrutturazione del XIII sec. Durante l’anno è spesso abbellita da addobbi floreali, nel periodo natalizio nobilitata da un grazioso presepe.
Nella facciata si aprono due monofore in alto un finestrone semicircolare, realizzato nel XVII sec., quando venne costruito il tetto in muratura in sostituzione di quello originario a capriate lignee, distrutto dal bombardamento francese del 1684.
Nella parte superiore della facciata restano tracce del primitivo rosone. L’interno a tre navate puntellate da sei colonne bianco nere, in marmo di Carrara e di pietra di Promontorio con capitelli a forma di foglia di acanto, si presenta spoglio ed essenziale. I mattoni a vista sono frutto d’interventi settecenteschi posteriori al bombardamento. Lo scarno aspetto non deve trarre in inganno perché sotto le navate sono custodite pregevoli opere d’arte quali: “La Madonna del Soccorso” del XIV sec. di Barnaba da Modena, autore anche della più nota “Madonna del Latte” ricoverata oggi in San Donato, “Ester e Assuero” del XVI sec. di Bernardo Castello, “La Madonna col Bambino e i Santi Cosma e Damiano che guariscono i malati” di Gioacchino Assereto e “Il Transito di San Giuseppe” del XVII sec. di Giovanni Andrea De Ferrari.
Nell’abside di sinistra è situato il fonte battesimale medievale scolpito nel marmo mentre sull’altare spicca la statua marmorea della Madonna Immacolata del XVII sec. del marsigliese Pierre Puget, apprezzato autore di simili opere nell’Albergo dei Poveri e nell’Oratorio di San Filippo Neri.
Per gli amanti della musica merita menzione il settecentesco organo a canne.
Sul pavimento si nota un disegno particolare: il teschio e le tibie incrociate il simbolo del jolly roger adottato dai pirati.
Ma le sorprese non finiscono qui perché una volta usciti nella piazza al civ. n. 2r ecco un antichissimo sovrapporta con San Giorgio e il drago in pietra nera di Promontorio. Il rilievo purtroppo risulta ormai abraso mentre la cornice marmorea con motivi floreali risulta ben conservata. Passato l’archivolto che conduceva un tempo allo scomparso chiostro si notano due nicchie vuote e, svoltando a sinistra s’incontra una lapide del XVI sec. raffigurante due angeli nell’atto di sorreggere un medaglione col volto di un santo non ben identificato. Imboccato il Vico dietro il Coro ecco due edicole: la prima, al civ. n. 6r quella del XVII sec. della Madonna della Misericordia. La Vergine che appare al Beato Botta è contenuta in un rilievo tondo delimitato da una pesante cornice alla cui sommità campeggia un cuore elaborato con fregi e riccioli con al suo interno il trigramma di Cristo e il monogramma di Maria con la corona. Poco dopo, la seconda, una Madonna di città in un tabernacolo a tempietto marmoreo classico, con una volta arcuata e testina di cherubino alato. Ai lati delle lesene decori con ampi riccioli e fogliami. La statua della Madonna è mancante.
Ai SS. Cosma e Damiano il gioiello incastonato nella pietra, dove un tempo l’onda frangeva sulla scogliera, si respira ancora l’odore di salsedine e si raccontano ancora storie di pirati.
non era ancora stata intitolata alla moglie dell’eroe dei due mondi… quando il Promontorio di Portofino e la Torre Gropallo si sorvegliavano a vicenda… intenti a scrutare l’orizzonte.
La passeggiata a mare infatti, portava allora il nome, in onore dei Savoia, “Principessa di Piemonte” (fino al 20/4/1944) poi, durante la Repubblica di Salò, “X Flottiglia Mas”, in omaggio al valoroso corpo militare della Marina. Poco dopo la Liberazione di Genova la Promenade venne definitivamente dedicata ad Anita Garibaldi (19/6/45), coraggiosa e fedele compagna del Generale.
La cinquecentesca torre che ospita oggi alcune associazioni (Lega Navale e Alpini del quartiere) era nota invece con il nome di “torre del fieno”, per via del combustibile usato per produrre segnali di fumo e comunicare a tutto il litorale gli avvistamenti di pirati e nemici. Mutò nome a metà dell’800 in onore del promotore della scenografica passeggiata, il Marchese Gropallo che l’aveva acquistata.
Coppie che passeggiano mano nella mano, eleganti signori che discutono amabilmente, mare mosso e spumeggiante, il sentiero che s’inerpica sulla scogliera, la torre immobile ma vigile e là, in fondo, il gigante sdraiato a protezione… negli ultimi due secoli, in fondo, non è cambiato granché… manca solo la sagoma, oggi abbandonata, della Marinella.
Giacomo Doria c’erano dei giardini botanici, serre e frutteti… quando in tempo di guerra gli orti vennero adibiti alla coltivazione della patata, alimento indispensabile nell’indigenza del momento… quando Viale Brigata Bisagno non era stata ancora intitolata all’omonima formazione del Regio Esercito della prima guerra mondiale e il rettifilo allora si chiamava Via del Prato.
Il museo venne istituito nel 1867 (il primo domicilio fu presso Villetta Dinegro, nel 1912 venne trasferito nell’attuale sede) per volontà di Giacomo, l’ultimo membro di tal nome, degno della schiatta dei Doria, che volle donare alla città la sua inestimabile collezione di animali, rocce, fossili, minerali e varietà botaniche unica in Italia a quel tempo, di oltre quattro milioni di esemplari.
Il tribunale del Sant’Uffizio venne istituito a Genova nel 1256, anno in cui “obtorto collo”, per via dei rapporti diplomatici con il Vaticano, i genovesi accolsero la richiesta di Papa Alessandro IV.
Le leggi della Repubblica, in realtà, bastavano ed avanzavano per adempiere alle attività di controllo sugli eretici per cui il suddetto istituto non ebbe mai particolare rilevanza agli occhi dei Serenissimi Collegi.
A testimonianza di ciò nel 1669 l’inquisitore di stanza in città, il domenicano Fra Michele Pio dei Pazzi, (gli inquisitori erano quasi sempre membri dell’Ordine domenicano) fece affiggere in diversi luoghi cittadini l’elenco dei libri all’Indice stilato dalla Curia Romana. Ai reggenti della città, non essendone stati informati, la cosa non piacque affatto. Pertanto fecero rimuovere e distruggere gli avvisi e cacciarono l’inquisitore con il suo segretario. Curioso l’atteggiamento dell’alto funzionario quando, durante la lettura della sentenza di espulsione, iniziò a dar di matto e non trovando appiglio nelle autorità civili, lanciò una pesante scomunica. Terminato lo sfogo venne scortato insieme al suo seguito fuori dai confini della Repubblica. Onde evitare che incresciose situazioni di siffatta specie potessero ripetersi, venne emanata una legge che istituiva l’entrata in vigore di una nuova carica, quella dei Protettori, due senatori, del Sant’Uffizio, che vigilassero sull’operato dell’Inquisitore di turno.
Il tribunale ecclesiastico, come risaputo, si occupava oltre di libri all’Indice, di giudicare in materia di sortilegi, stregoneria e superstizioni e di vagliare l’abiura degli eretici. Tutti ambiti poco pratici per un popolo, quello genovese, dedito al commercio e alla finanza, per cui nel carcere del sant’Uffizioin San Domenico, nel 1746 si registrava la presenza solo di tre ospiti, per altro foresti: il primo un dottore milanese, tal Ferretti, il secondo un certo Basilio, piemontese. Quest’ultimo era stato originariamente condotto nel Palazzetto Criminale, accusato di omicidio ma, poiché continuava a professarsi innocente e ad ingiuriare la religione cristiana, venne trasferito nelle segrete di San Domenico.
I genovesi presero a cuore la situazione dei due disgraziati, prova ne è la richiesta di liberazione dei due detenuti, pervenuta sulla cattedra dei Protettori: “Serenissimi Signori sarebbe finalmente tempo che il povero dottor Ferretti milanese dopo un sì lungo e penoso carcere ne fosse rilasciato. Lo stesso potrebbe meritare il povero Basilio che, quantunque passato per disperazione alle carceri del Sant’Uffizio, ne sarebbe facilissimo il rilascio se lo conseguisse anche da Vostre Signorie Serenissime. Le circostanze dei tempi non possono per ambedue essere più favorevoli”.
I Protettori del Sant’Uffizio, su mandato dei Serenissimi Collegi, si attivarono e riuscirono a liberare sia Basilio che il Ferretti e a rimandare quest’ultimo a Milano.
Rimaneva, incarcerato dal 1740, un solo prigioniero un altro medico Carlo Riva, di Sestri Levante accusato di aver più volte pubblicamente affermato: “essere la confessione stata istituita da’ pontefici, per avere il modo di sapere tutto ciò che fanno e pensano gli uomini ed essere i martiri gente uccisa da’ stessi seguaci di Dio, perché non volevano seguitare la loro fede”. Non solo, il medico aveva anche negato l’esistenza della terza persona nel dogma Santissima Trinità. Fu convinto da un amico ad abiurarecon la promessa che, una volta libero, non avrebbe dovuto fare pubblica ammenda ma solo non tornare più ad occuparsi di tali argomenti.
Nel 1797 con la fine della Repubblica oligarchica e la nascita di quella effimera democratica, sotto l’egida di Napoleone, la Santa Inquisizione terminò la sua attività a Genova.
In Copertina: Visitare i carcerati quadro di Palazzo Bianco 1643. Cornelis de Wael pittore fiammingo (1592-1667).