Presso il Museo Nazionale di Stoccolma è conservato questo splendido quadro, datato 1561, opera dell’artista fiammingo Jean Massys. La tela denominata “Flora con veduta di Genova” ritrae in primo piano la Dea del mondo vegetale con sullo sfondo il panorama della Signora di quello marino.
Per questo motivo io l’avrei intitolato “Flora e la Regina del mare” oppure “Le due Dee”, o ancora, “Le due Regine”. Ma si sa, io sono di parte.
L’immagine che ritrae la città ripresa dal ponente, più o meno dall’odierna Villa Rosazza, è ricca di spettacolari dettagli: in primo piano, vicino alla dea, vasi di fiori e un piccolo pavone. Sullo sfondo, a testimonianza dell’opulenza della ricca dimora, tempietti, statue e balaustre di marmo.
Nel 1914 lo scrittore polacco Joseph Conrad capitò a Genova rimanendone profondamente colpito. A tal punto da ambientarvi lui, uno dei più importanti autori legati al mare, un romanzo rimasto incompiuto e pubblicato postumo nel 1925, intitolato “Suspense”.
Conrad infatti fra il 1878 e il 1894 aveva a lungo navigato sui velieri britannici e avuto occasione di frequentare il nostro mare e la riviera di levante. Così descrisse nel romanzo il panorama del porto della Superba.
“Un cupo bagliore porpureo arrossava le facciate marmoree dei palazzi inerpicati sulle falde delle montagne sassose i cui crudi contorni si profilavano alti e spettrali nel cielo che si andava oscurando.
Il sole invernale tramontava sul golfo di Genova. Oltre la costa a oriente il cielo era come vetro scuro… Le vele di alcune feluche alla fonda apparivano rosee e allegre, immobili nell’oscurità crescente. Tutte puntavano verso la Superba. All’interno del molo, che era lungo, e terminava con una tozza torre quadrata, l’acqua del porto si era fatta nera. Un veliero più grande volgeva la prua al disco rosso del sole”.
Il centro storico, la zona di caruggi intorno all’Annunziata e i quartieri del Molo Vecchio, dove un tempo sorgeva la Torre dei Greci, diventano protagonisti del racconto. Forse davvero il protagonista immaginando una misteriosa torre quadra nella zona di levante del porto ottocentesco, o conosceva la precedente esistenza della sorella della Lanterna o, molto più probabilmente, si riferiva al Lanternino del Mandraccio.
“A uno slargo al quale convergeva una selva fitta di vicoli si fermò e guardandosi intorno si chiese se tutti quegli imponenti palazzi erano disabitati o se invece era lo spessore dei muri ad impedire che vi trapelasse il pur minimo segno di vita; non poteva credere, infatti, che a quell’ora gli abitanti fossero tutti sprofondati nel sonno”.
Il vecchio lupo di mare proseguì il suo percorso nell’intricato dedalo medievale meravigliandosi della silenziosa magnificenza delle dimore patrizie.
Albert Camus s’infatuò di Genova perché, grande ammiratore di Nietzsche, decise di seguirne le orme e ripercorrerne le tappe in Italia. Come non sostare quindi nella città dove il filosofo tedesco, ascoltando la “Carmen”di Bizet aveva maturato il suo distacco da Richard Wagner e, soprattutto, aveva composto il suo capolavoro “Così parlò Zarathustra”?
Tra l’8 e il 15 settembre del 1937 per la prima volta il celebre letterato franco algerino approdò a Genova e, in una delle sue prime raccolte intitolata ”Nozze”, annotò:
”Ma è facile perdere la felicità perché è sempre immeritata. Così per l’Italia. E la sua grazia spesso improvvisa, non sempre è immediata. Perché fin da principio essa prodiga poesia per nascondere meglio la sua verità. I suoi primi sortilegi sono riti di oblio: gli oleandri di Monaco, Genova piena di fiori e di odori di pesce e le sere turchine sulla costa ligure. Poi Pisa finalmente e con lei un’Italia che ha perso il fascino volgare della riviera”.
Quel “volgare” di primo acchito sprezzante, è da intendersi invece nel significato di “verace”, “primitivo”, “spontaneo”.
Lo scrittore, futuro premio Nobel per la Letteratura nel 1957, tornerà dopo la guerra nel nostro Paese per un ciclo di conferenze programmato a Torino, Milano, Roma e, nell’inverno del 1954, proprio a Genova.
Di quel soggiorno Camus nei suoi taccuini annotava:
”Lunga passeggiata per Genova. Città affascinante e assai simile a quella che ricordavo. I monumenti sontuosi esplodono da uno stretto busto di viuzze brulicanti di vita. Qui la bellezza nasce sul posto, irradia nella vita di ogni giorno. Ad un angolo di strada un cantante improvvisa sugli scandali d’attualità. E’ il giornale cantato. Piccolo chiostro di san Matteo. Il vento schiaccia la pioggia a raffiche sulle grandi foglie del nespolo. Un breve attimo di felicità. Ora bisogna cambiar vita. Sera; partenza per Milano sotto la pioggia”.
Nel suo primo romanzo, pubblicato postumo, “La morte felice” il poeta ci regala una descrizione che è un acquerello della Superba, al tempo del suo primo viaggio, degli anni Trenta:
“Decise di raggiungere Algeri da Genova. Sul treno che lo portava a Genova attraverso l’Italia del nord ascoltava le mille voci che dentro di lui cantavano verso la felicità. Sentiva ancora la sua debolezza e la sua febbre. Subito man mano che il sole si avanzava nel giorno e si avvicinava al mare, sotto il gran cielo fiammeggiante e ansante che riversava fiumi d’aria e di luce sugli olivi frementi, l’esaltazione che agitava il mondo si univa all’entusiasmo del suo cuore. Il rumore del treno, il cicaleggio puerile che lo circondava nello scompartimento stipato. tutto ciò che rideva e cantava intorno a lui ritmava e accompagnava una specie di danza interiore che lo portò per ore immobile ai confini del mondo e finalmente lo scaricò giubilante e interdetto in una Genova assordante, che scoppiava di salute davanti al suo golfo e al suo cielo in cui fino a sera lottavano il desiderio e la pigrizia. Aveva sete, fame di amare, di godere e di baciare. Gli dei che gli bruciavano dentro lo gettarono in mare, in un angolo del porto dove assaggiò un miscuglio di sale e di catrame e perse l’orientamento a furia di nuotare. Si smarrì poi nelle strade strette e piene di odori della città vecchia, lasciò che i colori urlassero per lui, che il cielo si consumasse sopra alle case sotto il suo peso di sole e che i gatti si riposassero per lui nell’immondizia e nell’afa. Andò sulla strada che domina Genova e lasciò salire verso di lui in una lunga lievitazione, tutto il mare carico di profumi e di luci.
Chiudendo gli occhi stringeva la pietra calda su cui stava seduto e poi li riapriva su questa città in cui l’eccesso di vita urlava in un esaltante cattivo gusto. Nei giorni seguenti gli piaceva anche sedersi sulla scalinata che scende al porto e a mezzogiorno guardava passare sulla banchina le ragazze di ritorno dall’ufficio. Coi sandali ai piedi, i seni liberi nei vestiti leggeri e sgargianti, lasciavano a Mersault (il protagonista del romanzo) la lingua arida e il cuore in subbuglio per un desiderio in cui ritrovava al tempo stesso libertà e giustificazione. Di sera incontrava per strada le stesse donne e le seguiva, con nelle reni la bestia calda del desiderio che si muoveva con selvaggia dolcezza. Per due giorni bruciò in questa inumana esaltazione. Il terzo giorno lasciò Genova per Algeri”.
Di sicuro aveva valutato, in maniera meno romantica ed elegante rispetto a Dickens, la bellezza delle dame genovesi.
D’altra parte come poteva il filosofo con un passato da portiere di calcio nella squadra del Racing universitario algerino, esperienza dalla quale aveva tratto l’arguta similitudine sportiva – “Ho capito subito che la palla non arriva mai da dove te l’aspetti. Mi è servito più tardi nella vita, soprattutto a Parigi, dove non ci si può fidare di nessuno”- non apprezzare quel sano individualismo genovese tanto ammirato dall’illustre predecessore tedesco?
“Questa intera contrada trabocca, nel suo crescere, di questo magnifico, insaziabile egoismo…” (IV libro della Gaia Scienza) aveva scritto Nietzsche nel 1882.
Camus scrisse nel 1947 “La Peste”, forse la sua opera più celebre, ma Genova da tempo lo aveva già contagiato.
C’era una volta, tanto tanto tempo fa, un buon vecchio gigante. Era seduto sul cocuzzolo di una montagna lungo le coste della nostra penisola, ed i suoi piedi si bagnavano nel mare. Se ne stava così seduto, con il gomito sul ginocchio ed il mento nella mano, pensando al suo triste destino. Era l’ultimo della sua specie, aveva girato il mondo in lungo ed in largo, ma non aveva trovato più nessuno come lui.
Era rimasto solo e per di più la gente aveva paura di lui per via della sua mole. Non che fosse cattivo, anzi, era un gran bonaccione e gli sarebbe piaciuto parlare con la gente e avere amici, ma tutti fuggivano appena sentivano avvicinarsi il suo passo rimbombante.
Era ancora immerso nei suoi pensieri quando si rese conto che in mare, tra i suoi piedi, infuriava una tempesta e che una piccola goletta, sballottata dalle onde e con le vele strappate, rischiava di affondare.
Spinto dal suo buon cuore il gigante allungò istintivamente una mano e sollevò la barca per salvarla dalla furia delle onde. Ma i marinai, quando videro quel gran faccione che li guardava, si misero a correre urlando sul ponte, e qualcuno si sarebbe anche buttato di sotto se in quel momento non fosse uscita dalla cabina la figlia del capitano, che vide l’espressione benevola sul volto del loro salvatore e gridò all’equipaggio:“Ma che razza di uomini siete! Non fatevi prendere dal panico, non capite che questo, qualunque cosa sia, ci ha salvati dal naufragio? Dovremmo essergli grati”. A quel punto tutti si calmarono e cominciarono a guardare quell’enorme mole con curiosità mista a timore, ma quando il gigante aprì l’enorme bocca in quello che doveva essere un sorriso amichevole, la paura si placò, e tutto l’equipaggio rispose con altrettanto amichevoli gesti delle mani.
La goletta rimase sul palmo di quella grossa mano per il tempo necessario alla riparazione dei danni allo scafo ed alle vele. Era una grande piazza d’armi quella mano, e ogni tanto qualcuno scendeva da bordo per sgranchirsi le gambe tra un lavoro e l’altro e intanto, alzando la voce il più possibile, scambiava due parole con quella montagna umana, che raccontò a tutti la sua storia e che ora non faceva più paura a nessuno.
La tempesta si era placata ed i danni erano ormai riparati, ed era giunto quindi il momento di ripartire, ma sembrava che nessuno avesse fretta. La figlia del capitano, che era una ragazza molto intelligente, trovò il modo di fare tutti contenti. Era molto benvoluta, sia a bordo che a terra, e sapeva che la sua decisione avrebbe trovato tutti d’accordo, quindi propose al gigante di seguirli verso nord, alla terra dei Liguri, dove loro vivevano in un paese chiamato Camuli.
Il gigante, contento di avere trovato degli amici, rispose di sì con un gesto della testa ed una risata di contentezza che fece traballare la barca, mandando più d’uno a gambe all’aria sul ponte, poi scese in mare fino alla cintola, seguendo la barca e soffiando dolcemente nelle vele per rendere più facile il viaggio.
Nel piccolo villaggio di pescatori tutta la popolazione si era radunata sul molo ad attendere la goletta, che era stata data ormai per dispersa, ma quando videro da cosa era seguita, tutti si misero ad urlare per lo spavento tra un fuggi fuggi generale.
La ragazza saltò velocemente sul molo e richiamandoli indietro a gran voce, disse: “Non fuggite, questo è l’ultimo dei giganti ed è buono, ha salvato le nostre vite. Potrà restare qui con noi e sarà un amico per tutti”. Gli abitanti rimasero un po’ perplessi, poi qualcuno si fece coraggio e batté le mani, presto seguito dagli altri e tutti insieme fecero festa al nuovo e insolito amico.
Stanco per il viaggio e per le emozioni il gigante chiese di potersi riposare. La ragazza lo guidò in fondo alla grande spiaggia dove lui si coricò, la testa verso il mare e le gambe verso la collina, e quando fu sistemato stese la grossa mano e sollevò fino alla sua fronte colei che lo aveva salvato dalla solitudine. La figlia del capitano lo baciò dolcemente e lui si addormentò felice.
Allora, nella notte, una fata buona lo trasformò in una montagna, coperta di alberi bellissimi e di piante rare, perché gli abitanti di quel villaggio di pescatori potessero, nei secoli, godere della frescura e del verde di quel monte, farvi belle passeggiate nelle calde giornate estive e vedere la sua cima coperta di neve in qualche fredda giornata invernale e, soprattutto, perché il buon gigante potesse rimanere per sempre con quella brava gente che lo aveva accolto con tanto affetto.
Quel villaggio di pescatori si chiama ora Camogli e il gigante addormentato viene chiamato “MONTE DI PORTOFINO” e domina la cittadina. Ancora oggi, guardando la montagna dal mare, si può vedere chiaramente la sagoma del gigante, con la testa verso il mare, il grosso naso prominente, il pancione, ed i piedi verso la collina.
Splendida leggenda frutto della fantasia della scrittrice Annamaria Mariotti.
Una volta erano costruite con due semplici elementi: un telaio di legno e un lenzuolo bianco, che catturava e rifletteva la luce che filtrava tra i palazzi. Più tardi si sono evolute e sono diventati pannelli di lamiera, che funzionavano come uno specchio e favorivano meglio l’illuminazione delle stanze.
Un geniale tipo di serramento rivestito di lamiera lucida al suo interno e scura all’esterno, utilizzato dai genovesi per strappare un po’ di sole e calore fra gli angusti tetti dei caruggi. Serviva infatti per catturare la luce dall’alto del vicolo verso l’interno della stanza. Alla sera i pannelli venivano ritirati verso la finestra fungendo, inoltre, da protezione.
Quei pannelli, protesi in fuori sono le mampae, termine che deriva dallo spagnolo “mampara” e che significa paravento, all’interno sono foderate in lamiera in modo da agevolare il riflesso della luce.
Le mampae costituiscono tenace testimonianza della capacità di adattamento e dell’ingegnosità dei nostri avi. Un oggetto pratico e funzionale di cui ormai non se ne trova quasi più traccia. Le ultime sono in Piazza degli Embriaci, in Via Mascherona e presso i Macelli di Soziglia.
Nel 1992 Renzo Piano ha voluto omaggiare questo singolare arredo riproponendolo in chiave moderna nell’edificio dell’Expo che da Via della Mercanzia si affaccia su Piazza del Mandraccio.
Più recenti e diffuse anche ai giorni nostri sono invece le persiane, le rudimentali tapparelle a listarelle, simili a stuoie dette, in genovese, “giöxîe” (gelosie), quel particolare tipo d’imposta atta a proteggere dalla luce e dal calore senza impedire la circolazione dell’aria. Come la maggiorana l’erba aromatica, nella nostra lingua, si dice “persa” perché proveniente da quelle terre lontane, allo stesso modo il termine persiana, deriva dal francese “persienne”, (relativo alla Persia) perché originario di quegli stessi luoghi.
Mampae e “giöxîe” anche nel modo di procurarsi o proteggersi dalla luce, i Genovesi hanno saputo trasmettere i segni distintivi del proprio carattere… “Ahi Genovesi uomini diversi…. “ verseggiava Dante.
E’ uno degli scorci più suggestivi di Genova, un luogo sospeso nel tempo dove luci ed ombre ingannano lo spazio giocando a nascondino. Si tratta di Via e Piazza di Santa Croce incastrate fra Sarzano e la collina di Santa Maria di Castello, il fulcro più antico del centro storico.
Qui, vegliati da una settecentesca edicola del Battista, si ha la possibilità di effettuare una passeggiata a ritroso nel tempo di quasi 900 anni nella scomparsa chiesa di Santa Croce.
L’edicola presenta un tempietto in marmi policromi con semi colonne ioniche e raffigura San Giovanni Battista nel deserto accompagnato da San Giovannino con in braccio l’agnello. La mensola poggia su un cherubino alato mentre la statua del santo presenta il braccio destro mozzato.
Quest’area costituiva un tempo l’antico complesso di Santa Croce, vicino all’attigua omonima porta, una delle tante strutture del litorale cittadino, atte al ricovero dei pellegrini da e verso la Terrasanta.
All’interno del locale, nomen omen, “La Passeggiata” al civ. n. 21r ne sono testimonianza i resti ancora visibili di brani della pavimentazione originale, di porzioni del muro perimetrale con un grande arco tamponato facente parte delle Mura del Barbarossa (1155) e una nicchia dove sono conservati dei reperti rinvenuti durante la ristrutturazione avvenuta qualche anno fa.
In questo edificio, luogo di culto della comunità lucchese, era custodito un simulacro del crocifisso, da non confondersi con il Cristo Moro, del celebre “Volto Santo” tanto venerato in patria dai toscani. Il crocifisso del Cristo Moro così caro ai genovesi, oggi ricoverato in S. Maria di Castello, invece un tempo si trovava in una cappelletta sottostante il vicino monastero di San Silvestro.
Il complesso di Santa Croce, con annesso ospitale venne gravemente danneggiato durante il bombardamento del re Sole del 1684 e successivamente ricostruito in forme barocche nei primi anni del ‘700. Nel 1805, a seguito degli editti napoleonici, venne definitivamente soppresso ed inglobato nei palazzi di abitazione. La vicina San Salvatore ne incorporò nel 1809 il titolo, i beni e gli arredi.
Le quattro scenografiche colonne di pietra e laterizi fanno invece parte della ristrutturazione ottocentesca quando la chiesa venne trasformata in abitazioni private.
Prima d’incrociare con lo sguardo Salita della Seta con la sua pendenza tutt’altro che morbida, al civ. n. 33 s’incontra lo spettacolare portale in ardesia ristrutturato e ricostruito su modello rinascimentale. Sul fastigio un’aquila a due teste che tiene con le zampe il globo e una fiaccola, lo stemma nobiliare degli Spinola. Sul trave l’epigrafe “Flangar non flectar” (mi spezzerò ma non mi piegherò), il motto così adatto alle secolari vicissitudini della Repubblica.
La chiesa di Santa Croce non c’è più ma la si può lo stesso immaginare lì, seguendo il percorso dello stretto caruggio che costeggia le mura di contenimento del Castello. Rivolta verso il mare e inglobata dalle case costruite sopra le Grazie sita, proprio come allora, in una posizione invidiabile.
c’erano le mampae… quel geniale tipo di serramento rivestito di lamiera lucida al suo interno e scura all’esterno, utilizzato dai genovesi per strappare un po’ di sole e calore fra gli angusti tetti dei caruggi. Serviva infatti per catturare e convogliare la luce dall’alto del vicolo verso l’interno della stanza. Alla sera i pannelli venivano ritirati verso la finestra fungendo da protezione. Essenziali ed efficaci prendono e restituiscono ciò che ricevono, proprio come i genovesi che le hanno inventate.
Cartolina tratta dalla Collezione di Stefano Finauri.
A testimonianza del grande prestigio ottenuto in tutto il mondo occidentale ad Andrea Doria nel 1535 venne concesso il massimo riconoscimento a cui un militare cristiano potesse ambire. Fu il Papa Paolo III in persona a voler conferire all’ammiraglio la Gran Spada d’onore che gli venne consegnata da una fastosa delegazione della Santa Sede presentatasi in pompa magna al Palazzo del Principe.
Tale arma veniva assegnata solo ai migliori uomini d’arme della cristianità che così acquisivano il simbolico titolo di “Defensor” della Santa Croce.
Si trattava di una magnifica spada con pomo e cintura d’oro. L’elsa era inoltre incastonata di pietre preziose di inestimabile valore. Sulla lama di pregevolissima fattura era inciso, oltre al nome del Papa e lo stemma pontificio, anche l’epigrafe “con raro artificio scolpito”.
L’ammiraglio la indossò fieramente per 25 anni fino al 1560, anno della sua morte, in tutte le cerimonie ufficiali. Come da disposizione testamentaria volle che fosse posta accanto a se nella cripta di San Matteo nel mausoleo dove venne sepolto insieme alla moglie Peretta e al nipote prediletto Giannettino ucciso durante la congiura dei Fieschi del 1547.
Nel 1566 la spada venne rubata e a nulla valse la ricca ricompensa di 200 ducati d’oro voluta da Giovanni Andrea Doria, erede e nuovo capo famiglia, perché l’arma fosse restituita.
“Come una freccia dall’arco scocca, vola veloce di bocca in bocca” giunse la soffiata giusta e venne individuato il ladro: un tal Mario Calabrese sottocomito di galea proprio sulle navi dei Doria. Egli rifiutò di rivelare dove avesse nascosto l’arma e di ammettere il furto. Si decise così, proprio come in “Geordie”, la struggente ballata di De Andrè, di impiccare il reticente con una corda d’oro in contrappasso al fatto di aver rubato qualcosa di molto prezioso. L’esecuzione ebbe luogo nella Piazza di San Matteo, pochi giorni prima che la lama della spada venisse rinvenuta abbandonata in una fogna di Ponte Calvi. Del pomo, della corda e della sfarzosa elsa con relative pietre preziose da allora non si ebbe più traccia. Probabilmente fuse le prime, utilizzate per nobilitare qualche altro gioiello, le seconde.
La spada, con un’elsa dipinta in sostituzione di quella originale, tornò a vegliare il mausoleo dell’ammiraglio fino al 1797 quando, con il sorgere dell’effimera Repubblica Democratica Ligure, venne messa al sicuro nella Villa del Principe dove è rimasta fino ai primi decenni del secolo successivo. Tale precauzione si era resa necessaria poiché i sostenitori del nuovo corso, in preda alla furia distruttiva avevano danneggiato i simboli della Repubblica (Stendardo di S. Giorgio e Libro d’oro della nobiltà) e decapitato le statue dei Doria poste davanti a Palazzo Ducale.
Passata l’ondata rivoluzionaria la spada venne riportata nella primitiva sede, appesa al baldacchino dell’altare maggiore della chiesa.
Negli anni ’70 del ‘900, con il pretesto di un improrogabile restauro, è stata trasferita nella galleria del Museo Nazionale di Palazzo Spinola e dimenticata come un cimelio qualunque. Dopo decenni di oblio oggi la Grande Spada d’Onore è tornata, custodita in una scenografica teca di vetro antisfondamento, nella sua collocazione originaria accanto all’ammiraglio a protezione dei suoi cari.
In Copertina: la Spada nella teca conservata nella chiesa di San Matteo. Foto di Giuseppe Ruzzin.
Storia di un caruggio… di una farmacia… di edicole… di un ninfeo… di una bomba…
Anticamente vico dei Notari era conosciuto, per via del fatto che qui si redigevano gli atti notarili (i più antichi documenti e cartolari privati occidentali di cui si abbia notizia), come il “caroggio di scriven” e si diramava fino al piano di S. Andrea. Oggi costituisce solo un breve tratto che collega Canneto il Lungo angolo Vico delle Erbe fino alla farmacia Tettoni.
Con le demolizioni di inizio Novecento la via si è allargata e divisa su due livelli per permettere a Piazza Matteotti lo sbocco di Via Meucci con Via Dante. E’ scomparso così il millenario Borgo Sacco o Sacherio con il Vico Paglia, il “Carrubeus Sant’Ambroxi” delle mappe medievali. Così tutta la via fino alle torri ha assunto il nome di via di Porta Soprana.
All’esterno della farmacia Tettoni fondata nel 1725 ad opera dei gesuiti (di stanza nella vicina chiesa del Gesù) con il nome di “Spezieria Monastica”, sono poste due nicchie con peducci in pietra nera di Promontorio che contenevano, un tempo, due secolari anfore ad uso dei monaci farmacisti, ora sostituite da sagome in ferro battuto.
In Via della Porta Soprana al civ. n. 1 la scenografica edicola della Madonna Assunta. Il tempio di forma neoclassica è del XVIII-XIX sec. La statua invece è anteriore del XVII-XVIII sec. Un chiaro omaggio all’Assunta del Puget della ex chiesa dell’Albergo dei Poveri. Due cariatidi femminili sorreggono il timpano triangolare. La statua che rappresenta la Vergine posta su una nuvola con angeli e cherubini è protetta da un vetro. Una raggiera le incornicia la testa. Alla base portava in origine l’epigrafe: “HORNATUS HIC / Et PIETATE Et PLACIDO / Et Ad BENEPLACITUM ILL. DD. COMIS. 1852”.
L’edificio, detto casa Massuccone, venne progettato dopo il 1776 da un giovanissimo emergente architetto, Carlo Barabino. Sul trave del portale marmoreo con semicolonne doriche l’epigrafe: “Animus Aequus Satis”.
Al civ. 5 dentro ad un anonimo portone ornato da una cornice marmorea con ovale del trigramma di Cristo, si percorre uno stretto ed angusto corridoio che conduce ad un ampio quanto impensabile cortile privato con quattro ordini di logge. Sul fondo il ninfeo con la statua di Nettuno. Non si conosce l’architetto di tale dimora ma si sa che, datato metà del ‘500, è molto simile allo stile adottato per il Palazzetto Criminale di Via Tommaso Reggio. Lo scalone che si arrampica lungo i piani loggiati offre scorci, punti di vista e giochi di luce assai suggestivi.
Al civ. n. 19 l’edicola della Madonna Immacolata del sec. XVIII-XIX scolpita in una nicchia con cornice a delicati motivi floreali.
Nell’atrio del palazzo al civ. n. 23 è custodita, incastonata nel muro, una palla di cannone la cui sottostante lapide recita:
“Questa Palla fu Lanciata in / Questa Casa dalla Batteria della / Lanterna dai Soldati del Generale / Alfonso La Marmora / il 5 Aprile 1849”.
Tangibile monito e ricordo di quello che è passato alla storia come il sacco di Genova. In quell’occasione i Savoia con l’aiuto dal mare della flotta inglese bombardarono la città. Scagliarono 30000 bersaglieri contro i suoi 90000 inermi abitanti che erano insorti contro il loro malgoverno. A nulla valsero gli eroici atti di resistenza della Guardia Civica comandata dal capitano De Stefanis. I Piemontesi entrarono con l’inganno e ripristinarono l’ordine.
Questa è una delle innumerevoli bombe che per 36 ore consecutive ferirono la Superba, distrussero interi quartieri e causarono migliaia di vittime. La furia omicida dei soldati di Vittorio Emanuele II, agli ordini del generale Alfonso La Marmora, non risparmiò nemmeno, sventrato da 16 devastanti proiettili, l’ospedale di Pammatone.
Genova prende nota ma… non dimentica…
In Copertina: Via di Porta Soprana. Foto di Leti Gagge.