Il mio nome è Magro… Cappon Magro…

Si tratta di uno dei piatti più importanti e complessi della nostra cucina. Una vera e propria, soprattutto per quanto concerne decorazione e presentazione, opera d’arte.

Il Cappon magro nasce come piatto povero nelle cambuse dei marinai e di recupero in quelle delle cucine dei nobili, fino a giungere impreziosito e rielaborato sulle tavole dei ricchi.

Intrigante è già la genesi del nome che, a differenza della sua bontà, può trarre in inganno.

“Cappone” deriva infatti non dall’omonimo pesce, né dal pollastro al quale vuole sostituirsi, bensì dal termine francese “chapon” un grosso crostino di pane secco o galletta, tostato e strofinato con aglio, ideale per le zuppe.

Il nome richiama inoltre la caponata siciliana, e in effetti nella cucina ligure è presente una versione locale di caponata.

Un’insalata estiva di pomodori, cetrioli, peperoni, lattuga, uova sode, bottarga e tonno essiccato, condita con olio d’oliva..

 

Il termine “magro” indica invece  il suo essere un piatto di magro, riservato cioè ai giorni di penitenza e quaresimali antecedenti la Pasqua.

Il pesce e la verdura di cui è composto vengono elaborati a strati su una base di galletta.

Il piatto prende spunto da una semplice insalata di magro, costituita da galletta ammollata in acqua e aceto, pesce salato, tonno e alici, e, se possibile, olive, origano e sempre un po’ d’olio come condimento: in pratica l’equivalente della capponadda – parente povera del cappon magro – in passato assai popolare come preparazione tipicamente marinara.

Il passaggio dalle galee alle tavole nobili portò ad arricchire la ricetta, spesso definita con altri termini come biscotto magro o biscotto condito. Gli ingredienti si fecero sempre più raffinati e al pescato si unirono le verdure lessate, il tutto amalgamato da una particolare salsa verde capace di armonizzare i sapori rendendo l’insieme impareggiabile. Nei libri contabili di alcune famiglie nobili genovesi si trovano riferimenti inequivocabili al cappon magro, sia come piatto dei giorni di magro – magari in versione più sobria – sia come portata fastosa da ostentare durante i banchetti ufficiali tenuti in giorni di astinenza dalle carni.

“Archivio di libri contabili di una nobile famiglia del ‘700”.

Come raccontato dal “cucinosofo” Sergio Rossi nei primi due ricettari delle Cuciniere ottocentesche, vi si ritrova sia la ricetta per il cappon magro, sia l’alternativa definita economica per la minor varietà di ingredienti e la più sobria composizione del piatto. Una singolare costante di questa ricetta è costituita dal biscotto o dalla galletta. Nell’impiego si tratta di due prodotti analoghi, ma nella sostanza assai differenti fra loro. Il cosiddetto biscotto è preparato in lunghi filoni che dopo la cottura sono tagliati a fette per essere sottoposti a un secondo passaggio in forno: da qui il nome bis-cotti.

La galletta, invece, è preparata con un impasto differente e confezionata in forma di piccola focaccina. Una sola cottura la rende asciutta e conservabile, tanto che, in passato, chi ne controllava la consistenza prima di accettare i carichi da stivare nelle cambuse delle navi, pretendeva che le gallette fossero “vetrose”, perfettamente asciutte e quindi conservabili a lungo.

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Cappon Magro. Foto e preparazione dellla Trattoria delle Grazie.

Spesso il miglior biscotto era preparato con farina di grano duro e grazie a una particolare lavorazione dell’impasto e alla differente resa della farina, il risultato finale era straordinario sia nella consistenza, sia nel sapore.

A proposito della scelta dei pesci si può decidere di utilizzare la polpa di un solo tipo di pesce e quindi orientarsi su una palamita o una ricciola, la gallinella o la leccia, oppure utilizzare le varie qualità di pesci insieme, anche di scoglio, seguendo le diverse cotture.

Non possono poi mancare: seppie, mitili, calamari e gamberi.

Le verdure da impiegare sono: cavolfiore, zucchine, rapa rossa, carote, carciofi (o asparagi secondo stagione).

 

La prima cosa da preparare, possibilmente il giorno prima è la salsa verde che se riposa una notte è decisamente più armoniosa!

 

Si prepara frullando insieme (o nel mortaio per i puristi) una grande manciata di prezzemolo ben lavato, con uno spicchio d’aglio, un pizzico di sale grosso, cinque acciughe sotto sale, due tuorli d’uova sode, olio extra vergine d’oliva, possibilmente taggiasco, una manciata di olive e capperi, una presa di mollica di pane bagnata nell’aceto.

 

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Gallette del marinaio di Camogli.

Occorre inoltre della buona Galletta del marinaio come quella tipica di San Rocco di Camogli.

 Si inizia con la pulizia del pesce che si bolle in acqua bollente salata aromatizzata con un mazzetto di carota e di sedano.

Il pesce, una volta cotto, va pulito, diliscato e spolpato. Operazioni che vanno effettuate con molta cura poiché Il pesce nostrano è spesso ricco di lische.

Si procede poi con la cottura dei crostacei e delle verdure.

E’ fondamentale cuocere ogni qualità di pesce e di verdura separatamente l’una dall’altra e una volta pronta condirla con un pochino d’olio e metterlo in contenitori diversi per non mischiare i sapori ed i colori.

 

Una volta che tutti i pesci e tutte le verdure sono state cotte e condite con la salsa verde si può procedere con la composizione del Cappon Magro.

Si inizia con la galletta del marinaio, imbevuta in acqua e aceto che si pone in fondo a un piatto da portata, la sequenza prevede uno strato di pesce seguito da uno strato per ogni tipo di  verdura un po’ di salsa verde e un altro strato di pesce e così fino a completare il piatto che si ricopre di salsa verde e si decora con le verdure a striscioline sui lati e i gamberi sulla cima.

Necessita di riposare almeno una notte prima di essere servito e gustato.

Tutti i sensi vengono coinvolti e adulati in un trionfo di colori, gusti e profumi in una sensuale tentazione per il palato.

“L’Edicola del Doge”…

“L’edicola del Doge”.

Proprio davanti a Palazzo Tursi, in Vico Boccanegra sul lato a ponente di Palazzo Rosso, si trova un’imponente edicola del XVIII sec. Dalle dimensioni monumentali rappresenta una Madonna col Bambino e i Santi dipinta in affresco fra cornici, in pieno stile barocco, di stucchi.

La cornice sagomata è impreziosita da rilievi con ghirlande e motivi floreali, frutti e conchiglie, angioletti alati e putti.

Nella parte superiore una raggiera con la colomba, simbolo dello Spirito Santo. L’intera edicola è protetta e sormontata da una tettoia metallica traforata. Ai lati si notano due bracci porta lampade in ferro battuto e traforato con decori floreali.

In origine il dipinto raffigurava la Vergine con i quattro Santi Protettori della città (S. Siro, S. Giorgio, S. Giovanni, S. Lorenzo).

Venne sostituito con l’affresco attuale, commissionato dalla famiglia Brignole al pittore Giuseppe Isola che vi ha rappresentato la Madonna col bambino attorniata da membri devoti della famiglia Brignole nei panni di santi. Si riconoscono Sant’Antonio e Santa Caterina D’Alessandria.

A quel tempo la pratica di ritrarre i santi con i volti di personaggi esistenti era un’usanza, sia dipinti su tela che negli affreschi, piuttosto diffusa.

“La lapide affissa sulla casa natale di Simone Boccanegra”.

Il caruggio prende il nome da Simone Boccanegra, eletto nel 1339, primo Doge della Repubblica che qui, prima di farsi costruire l’omonimo castello nei pressi di S. Martino , aveva dimora.

“L’arco è carico e teso, schiva il dardo”…

Così comincia la prima scena del primo atto di “Re Lear” di Shakespeare. Un incipit che, preso in prestito dalla mitologia britannica, si può ben adattare ad avvenimenti che, circa trecento anni prima della composizione della tragedia, interessarono la nostra città.

“Il Portale di San Gottardo”. Foto di Leti Gagge.

Sul finire del Duecento Genova, nonostante il trionfo contro i Pisani nella battaglia della Meloria del 1284, era dilaniata dalle lotte intestine, divisa come gli altri comuni italiani in guelfi e ghibellini, le fazioni che sostenevano il papa o l’imperatore.

A Genova costoro erano identificati con il nome di Rampini e Mascherati e più spesso seguivano dinamiche interne di potere, adottando la canonica distinzione solo come pretesto per darsele di santa ragione e dirimere con la forza altre questioni.

Una rivolta particolarmente sanguinosa si ebbe il 30 dicembre 1296, immortalata nei versi di un anonimo poeta volgare:

Un re vento con arsura
a menao gram remorim
enter Guerfi e Gibellin,
chi faito a greve pontura:
che per mantener aotura
e per inpir lo cofin,
de comun faito an morin
per strepar l’aotru motura,
ensachando ogni mestura
per sobranzar soi vexin.
per zo crian li meschin
e de tuti se ranguram.
Ma de tanta desmesura
pensser o a la per fin,
de chi ve li cor volpin
no ne fera con spaa dura.

Per intere giornate si combatté per le strade, finché i Rampini non ebbero la peggio e si rifugiarono dentro San Lorenzo. I Mascherati infatti li assediarono in cattedrale e, per stanarli, appiccarono il fuoco.

“Uno dei capitelli sostituiti”. Foto di Leti Gagge.

Ci volle l’intervento del vescovo di Genova, Jacopo da Varagine (l’autore della “Legenda Aurea”) per porre fine allo spargimento di sangue fra concittadini e per salvaguardare la cattredale . A causa dei violenti scontri infatti la chiesa subì gravi danni, a tal punto da sostituire i colonnati interni e gran parte dei capitelli.

“Suggestiva ripresa dal basso”. Foto di Leti Gagge.
“Ancora i buchi inflitti dai dardi”. Foto di Leti Gagge.
“Le colonne del Portale di San Gottardo viste da un’altra prospettiva”. Foto di Leti Gagge.
“I segni dei fendenti di spada”. Foto di Leti Gagge.
“Primo piano dei colpi di spada”. Foto di Leti Gagge.

Traccia ancora visibile e silente testimone dei fatti si trova sulle colonne del portale laterale destro, quello di San Gottardo che si affaccia su Via San Lorenzo. I buchi sulle colonne non sono segni dell’incuria o dell’inesorabile trascorrere del tempo ma gli sfregi dei dardi di balestra scagliati durante gli scontri. Sulle basi delle colonne si notano anche le fenditure dei colpi di spada.

“La Vittoria…”

Al largo di Levanto e Portovenere i genovesi, davanti all’isola di Tino fra l’incredulità del nemico, si prendono rivincita sconfiggendo nell’estate del  1242 i due De Mari e i Pisani.

Ursone da Sestri, notaro, diplomatico ed annalista del Comune, così descrisse nell’ “Historia de victoria quam Ianuenses habuerunt contra gentes ab imperatore missas”, in maniera propagandistica ma certo accorata e partecipe, la fuga del nemico:

“Apre la fila, con le prospere insegne della croce e il comandante a bordo, la nave ammiraglia che solca leggera le acque; segue poi il resto della flotta mantenendo l’ordine e la velocità prestabiliti… così avanza a forza di remi la flotta, desiderosa di precipitarsi sul nemico. Con quale gioia e baldanza, vigore e contegno, con quale convinzione va in guerra l’inclita gente! Come fu desiderosa e pronta a prendere le armi! Com’è bene armata la schiera delle navi! Come risplende di scudi, da quanti eroi è protetta!

Sembra l’esercito di un regno, non di una sola città, tanto è il numero dei manipoli e delle coorti…

“L’isola di Tino davanti alla Palmaria”.

Mentre si avvicinano, pensano già di piombare sui nemici, spezzarne con il ferro le vane minacce, di soffocare con la destra la loro vuota loquela: per loro è vergognoso combattere a parole e vincere con la lingua, senz’armi! Mentre sulle prue vengono alzate le insegne, che annunciano l’imminente conflitto e un concreto presagio di guerra, il nemico freme di paura, e all’istante abbandona il litorale lasciando deserta la spiaggia; ma non impunito… Di fronte a schiera così imponente, a insegne sfolgoranti sul mare, a navi così perfettamente armate per la guerra, il nemico non osa volgere le prue in direzione dello scontro, teme di affidare la vita ad un incerto destino; immemore dell’antico fasto e delle precedenti vanterie, e senza più rispettare i suoi vani proclami, inverte la rotta e fugge tremante, solca il mare con i remi affidandosi alla fuga invece che al proprio valore… Dove fuggi, Pisano? Dove scappi Aquila imperiale, dove ti affretti? Non vieni a combattere? Ammaina le vele, lascia i remi e incrocia le spade in battaglia! Fermati, cessa la fuga, ricordati delle tue minacce! Perché fuggi con gli scudi ancora vergini e le armi intatte? Non arrossisci a scappare dopo aver tanto abbaiato? Inverti la rotta miserabile, comportati da uomo! Vergognati, dopo tanti proclami, a esser vinto senza lotta. Allora a gran forza Genova insegue i fuggiaschi, li incalza da tergo e aggiunge le vele ai remi, si affligge e rammarica di una vittoria senza combattimento, si affanna e smania e sempre più si adira di un successo ottenuto senza spargere sangue, di un cammino aperto senza usare la spada, di non avere usato le armi, incrociato le armi, scaraventato sui nemici le aste, lasciando sui loro scudi i segni della sua spada”.

L’anno successivo sale al soglio pontificio Sinibaldo Fieschi, al secolo Papa Innocenzo IV che, come il suo predecessore incarica nuovamente i genovesi dell’organizzazione del Concilio. La flotta genovese nel 1244, al comando del Podestà Filippo Vicedomino, dopo infinite schermaglie, sfugge al controllo imperiale e a Civitavecchia imbarca il Pontefice, travestito da cavaliere e tutti i Cardinali superstiti alle rappresaglie imperiali. Giunti a Genova l’illustre corteo prosegue verso Lione da dove il Papa scomunicherà Federico II e tutti i suoi alleati. La rivincita è completata e il Concilio, finalmente realizzato, segnerà l’inizio della fine del sovrano alemanno, sconfitto poi definitivamente  nel ‘48 nei pressi di Parma, grazie anche al decisivo contributo di 600 agguerritissimi Balestrieri genovesi.

Da allora, dopo questa leggendaria impresa, i Genovesi rispolverarono con rinnovato orgoglio le insegne, in realtà in vigore già dal 1193, con l’inequivocabile motto: “Griphus ut has angit, sic hostes Ianua frangit”.

Sul relativo stendardo il Grifone artigliava con una zampa l’aquila simbolo imperiale alemanno e, con l’altra, la volpe simbolo dell’odiata nemica, Pisa.

In copertina galea genovese del XVII sec.

“La Congiura dei moccolotti”…

Verso la metà del ‘200 Genova è al centro delle mire imperiali di Federico II. Poiché il governo cittadino è filo papale anche all’ombra della Lanterna si ripropone così il conflitto fra Ghibellini e Guelfi che qui si chiameranno Mascherati i primi, Rampini i secondi.

Papa Grergorio IX indice per la Pasqua del 1241 il Concilio generale a Roma e incarica i genovesi di occuparsi del trasporto via mare dei prelati del nord Italia e dell’Europa Occidentale. Naturalmente, fiutando i lauti guadagni che avrebbe garantito la commessa, e non solo per spontaneo afflato religioso, i nostri avi accettano di buon grado la proposta.

La fazione imperiale intestina alla città, nascosta (da qui forse il termine “mascherati”), capitanata dagli Spinola e dai Doria, trama contro i pontifici propositi.

L’imperatore si mette in contatto con i suoi seguaci attraverso un arguto ed ingegnoso stratagemma: nasconde le pergamene arrotolate delle missive in moccolotti di cera.

I moccoli erano destinati alla zona delle Grazie dove il materiale proveniente dal nord Europa veniva lavorato dalle numerose botteghe artigiane presenti nel quartiere.

In questo modo i ghibellini, certi di non destare sospetto, riescono a comunicare con gli infiltrati e ad essere informati sulla rotta che avrebbe dovuto tracciare la flotta genovese.

“Macchinario dell’antica ditta chiavarese di ceri Bancalari & Bruno dal 1592″. Alle Grazie, oltre tre secoli prima, l’ambiente non doveva essere molto diverso”.

Volle il caso che il comandante di un corpo di guardia del vicino presidio lamentasse ad uno di questi artigiani, la cattiva qualità della partita di ceri forniti. Fu così che rompendone uno accidentalmente, si accorse del compromettente contenuto.

Il piano imperiale viene smascherato ma ormai è troppo tardi: la flotta genovese di Jacopo Malocello viene sorpresa e schiantata presso l’isola del Giglio da quella pisana, in forza all’Impero e dalle galee dei fratelli Ansaldo e Andreolo, a questa alleati. I due ammiragli genovesi fuoriusciti speravano così, con il favore dell’imperatore alemanno, di sostituirsi a capo degli attuali governatori cittadini. Delle trenta navi cariche di cardinali solo cinque si salvano dalla cattura rendendo di fatto impossibilitato il Concilio. Gli illustri prigionieri verranno sbarcati a Napoli e rinchiusi nel Castel dell’Ovo.

Allo scoramento e alla delusione si sostituiscono presto la rabbia e la voglia di vendetta contro i traditori, in particolare i bottegai, rei di aver collaborato con il nemico.

Costoro riescono, per loro fortuna, a dimostrare la propria innocenza ed estraneità ai fatti e, per confermare la veridicità delle loro parole, si offrono di illuminare anche di notte, a loro spese, i cantieri sulle spiagge e contribuire così all’ambizioso progetto di ripristinare la flotta nel minor tempo possibile.

In un breve periodo, con zelo e velocità impensabili, vengono così approntate cento navi di cui ben 83 galee in assetto da guerra al comando delle quali si pone il Podestà bresciano Corrado di Concessio…

continua…

In Copertina: Illustrazione trecentesca del miniaturista lucchese Giovanni Sercambi.

Il Presepe di Tommaso…

Certo la Chiesa di S. Ambrogio in Piazza Matteotti, meglio nota come del Gesù, è uno dei templi barocchi più importanti d’Europa. Stucchi, decori, marmi, statue, quadri ed opere d’arte in ogni angolo stordiscono di meraviglia il visitatore.  Fra le tante, “La Circoncisione” di Rubens, la più famosa.

Vorrei però soffermarmi su un gruppo scultoreo, una particolare Natività che si manifesta in punta di piedi, ma non per questo desta minor stupore e ammirazione. Si tratta dello splendido “Presepe” marmoreo scolpito sotto l’altare della seconda cappella, ai piedi del celebre secentesco crocifisso “Le Marie e San Giovanni ai piedi del Crocifisso” del  Vouet .

“L’altare dell’Orsolino con sopra la Crocifissione del Vouet”.

Attribuita a Tommaso Orsolino, un tempo si credeva opera di un altro illustre Tommaso, Carlone, nipote del più celebre Taddeo. Sia uno che l’altro, comunque, straordinari artisti genovesi.

Una scultura ricca di dettagli con sullo sfondo alberi e panorami distanti che ne esaltano la visione prospettica.

Un giovane pastorello che s’incammina verso la stalla, rende bene la dinamicità dell’insieme.

Tutti portano doni a Gesù e, fra gli altri che lo omaggiano, si notano anche, posato su un ramo, un grazioso uccellino e vicino un pastore in cammino accompagnato da delle pecorelle.

Due angeli maestosi sorreggono l’altare invitando lo spettatore a concentrarsi sui personaggi principali della scena.

Dietro a Maria spunta un uomo, con le mani incrociate sul petto, dall’umile e devoto sguardo, che s’inginocchia davanti al figlio di Dio.

Giuseppe contempla estasiato la culla, vegliata dal bue e dall’asinello, sovrastata da un protettivo angelo volante.

Un vero e proprio capolavoro d’impressionante potenza artistica che merita di essere apprezzato dal vivo.

Il Castello nascosto…

“La freccia della cartolina indica la posizione del castello alle spalle dell’ospedale di Santa Tecla, vicino al nascente San Martino”.

Sul colle di Santa Tecla, nascosto fra i padiglioni dell’ospedale di S. Martino, si trova il duecentesco castello di Simone Boccanegra che fu nel 1339 eletto primo Doge della Repubblica. La parte più antica della villa, a quel tempo in campagna fuori le mura, risale al ‘200. Il complesso venne ampliato nel ‘300 e, caduto poi per secoli nel dimenticatoio, utilizzato addirittura come stalla.

Sul finire dell’800 l’architetto portoghese Alfredo De Andrade, lo stesso che ha operato a Palazzo San Giorgio e al Castello D’Albertis, ne ha tentato un primo recupero completato, poi in maniera più organica nel 1938 dal collega Ugo Nebbia.

“Interni del cortile”.

“Una delle numerose statue di benefattori, provenienti dallo scomparso ospedale di Pammatone, di cui sono disseminati giardini e viali interni a S. Martino”.

“Arcate ogivali in stile duecentesco”.

“Scorcio del castello con una delle statue di Pammatone”.

Oggi la struttura funge da biblioteca, archivio storico e, soprattutto da suggestiva location, per congressi e conventions.

Altro che Montmartre…

L’anno in cui lo scrittore visitò per la prima volta Genova è il 1814. Arrivò nella città ligure il 31 agosto di quell’anno e venne accolto nella villa della marchesa Teresa Pallavicini tra Quinto e Nervi (oggi Via Giannelli). Stendhal fu suo ospite fino al 18 settembre. Poi partì per Livorno. In una sua lettera, datata 24 settembre 1814, il romanziere infatti raccomanda alla sorella Pauline «d’inviare cinquanta piante di pesche delle migliori specie – le piante acquistate al vivaio di Lione – alla signora marchesa Pallavicini a Genova» per ringraziarla della sua cordialità.

Appena conclusosi il soggiorno presso la marchesa, lo scrittore scrisse altre lettere, raccolte in un volume dal titolo “Journal”. In una di queste, datata 22 settembre 1814 Stendhal fa un elenco molto preciso degli “oggetti d’abbigliamento” che acquistò nella città ligure: «ho fatto fare tre gilet, quattro pantaloni e due o tre paia di scarpe. In più ho acquistato un cappello e libri (le opere complete di Fénelon e De Brosses) per 48 franchi».

Stendhal parla di Genova anche in “Journal d’un voyage en Italie et en Suisse, pendant l’année 1828”: una sorta di “quadernetto propedeutico al viaggio in Italia” di 37 pagine. Si tratta di una vera e propria guida turistica, in cui fornisce particolari descrizioni della città e consigli utili al cugino Romain Colomb che, per rimettersi da una malattia, si stava preparando ad un viaggio in Italia. Colomb partì da Parigi il 14 marzo 1828 ed aveva in tasca il “vademecum” scritto sotto il dettato di Stendhal.

“La Borsa di Genova. La Loggia dei Banchi”. Foto di Leti Gagge.

Per quanto riguarda il mezzo di locomozione più efficiente per intraprendere il viaggio, lo scrittore afferma in proposito: «si potrebbe andare a Genova con la diligenza, ma è molto meglio prendere un vetturino, c’è il vantaggio di vedere da vicino quattro o cinque italiani e di conoscerli più a fondo di quanto non si farebbe con cinquanta visite… Durante il viaggio la scelta dell’albergo spetta al vetturino». Arrivati in città, Stendhal consiglia di «prendere una stanza alla pensione Svizzera, vicino ai Banchi (la borsa ha questo nome) e qui bisogna chiedere la camera 26 al quarto piano, dalla quale si vedono il porto e la montagna. Bisogna dire: “Mi dia la camera che un russo ha occupato per 22 mesi”. Costa un franco e venticinque al giorno. Di fronte c’è un ristorante dove si può mangiare scegliendo una lista».

“Palazzo Reale”. Foto di Leti Gagge.

Inoltre il libretto cita anche i monumenti e i palazzi della città ligure degni di visita, ad esempio: «Vedere la cattedrale e il famoso quadro di Giulio Romano; vedere l’Albergo dei Poveri: bassorilievo attribuito a Michelangelo; vedere il palazzo del Re; quattro collezioni di quadri in palazzi della via principale; vedere la sala del ricevimento di Palazzo Serra e la passeggiata d’Acquasola dove la sera si può ammirare uno stupendo tramonto».

“L’antica passeggiata dell’Acquasola”. Cartolina tratta dalla Collezione di Stefano Finauri.
“L’Albergo dei Poveri”. Foto di Leti Gagge.
“Torre Morchi il cui interno ospitava l’Hotel Croce di Malta”. Cartolina tratta dalla Collezione di Stefano Finauri.

Tuttavia l’opera di Stendhal che maggiormente ha contribuito ad una descrizione più precisa e dettagliata della Superba è “Mémoires d’un touriste” pubblicato nel 1838. Qui l’autore spiega, fin dalle prime pagine, il motivo di questo suo nuovo viaggio nell’Italia che ha sempre sognato: un viaggio semplicemente di “piacere” che poté permettersi dopo sette anni passati, come lui stesso dice, “ai ferri”. In questo libro, Stendhal ricorda di essere arrivato nella città ligure alle cinque del mattino a bordo di un imbarcazione: il “Sully “ e di avere espresso subito la volontà di passare un’intera giornata a visitare Genova, prima di proseguire alla volta di Marsiglia.

“Notturno di Via Aurea, oggi Garibaldi”. Foto di Leti Gagge.

Stendhal ebbe modo, in quell’occasione, di soggiornare nell’albergo definito da lui ironicamente «il più grande e alla moda presente in città»: La Croce di Malta; qui infatti, come già si aspettava, non trovò nessuna comodità. Nel corso delle diciannove ore che passò a Genova, l’autore riporta di aver cambiato tre volte camera tanto che il cameriere non sapeva più in quale stanza l’illustre ospite si trovasse. Comunque, la prima impressione che lo scrittore provò ad una visita ancora “acerba” della città non fu negativa e può essere ben esemplificata dalle parole che qui riporto tradotte: «la città è mirabilmente situata ad anfiteatro sul mare. Fra la montagna, alta quattro volte Montmartre e il mare non c’è stato spazio che per tre strade orizzontali: una a otto piedi di larghezza ed è quella del grande commercio dove si trova del buon caffè; l’altra, dietro il porto, è riservata ai marinai; la terza, quella più vicina alla montagna e che porta successivamente i nomi di Via Balbi, Via Nuova e Nuovissima, è una delle più belle strade del mondo».

“La Basilica di Carignano”. Foto di Leti Gagge.

Stendhal rimane letteralmente affascinato dall’architettura di quest’ultima strada, «ardita, piena di vuoti e di colonne che ricorda gli scenari della Scala di Milano». Dopo aver errato un’ora da palazzo a palazzo in questa bella strada, lo scrittore francese racconta di essersi fermato per cercare un caffè; ad una prima impressione, egli esprime tutta la sua incredulità, notando che, nonostante la ricchezza della città, i caffè «sono tutti brutti e poveri». Con l’aiuto di un artigiano genovese trasformatosi in una “guida” improvvisata in quel labirinto di vicoli, Stendhal arriva di fronte alla porta di un «buio, composto di due stanze sudice. Era realmente il caffè alla moda». Lì, dopo aver consumato un caffè e latte, l’autore mette in evidenza la profonda differenza col lusso di Milano e Venezia e ricorda tristemente i versi di Montesquieu sul piacere di lasciare Genova: «mare senza pesci, donne senza bellezza, ecc…». Nonostante la cattiva impressione ricevuta, lo scrittore afferma di essere tornato più volte, durante la giornata, in quel caffè «triste» per bere «una bibita molto particolare chiamata acqua rossa, con cinque o sei ciliegie in fondo al bicchiere e il profumo delizioso dei noccioli…». Questa buonissima bevanda riuscì quantomeno a mitigare il generale giudizio negativo di Stendhal sui caffè genovesi. Durante la mattinata, come primo edificio, lo scrittore visitò il palazzo della Borsa, poi si recò verso la Chiesa di Carignano. Per arrivarvi, Stendhal ricorda come sia stato necessario, in passato, far costruire un ponte che passasse «su una fila di case per cui si cammina a trenta, quaranta piedi al di sopra dei comignoli». La particolarità della visita di Stendhal a Genova è che questi preferì visitare subito i monumenti, senza l’ausilio di libri esplicativi e di leggerne la sera la descrizione sulla guida della città per poi riandare a vedere, la mattina successiva, i monumenti più significativi.

“Ritratto di Geronima Brignole sale con la figlia Maria Aurelia.” Anton Van Dyck Collezione di Palazzo Rosso Genova.

La Chiesa di Carignano colpisce lo scrittore, egli riconosce di essere davanti ad un «capolavoro di gravità e nobiltà» ma, nonostante tutto, la giudica come un chiesa non molto affascinante anche se costruita in una posizione stupenda: «un monticello che interrompe la curva dell’anfiteatro di Genova verso il mare». Per “dovere di viaggiatore”, Stendhal salì sulla cupola di tale chiesa, nella cui navata poté ammirare il San Sebastiano di Puget di pulito e vigoroso stile. Dopo questa sua visita, lo scrittore racconta di essersi recato, per burocratici problemi di passaporto, nel palazzo sede del municipio, «una vasta costruzione di marmo bianco male adoperato», con una facciata del 1760, «epoca in cui la povera architettura era maltrattata in Italia come in Francia». Vistato il passaporto, Stendhal andò a visitare tre gallerie di quadri famosi in Via Balbi.

“La Statua del Gigante a monte dei giardini della Villa del Principe”.
“La bucolica cascata dei giardini di Villetta Di Negro”. Foto di Leti Gagge.
“Chiesa di S. Stefano”. Foto di Leti Gagge.
“Decollazione di S. Stefano di Giulio Romano”.

Qui vide dei Van Dyck magnifici il cui aspetto “dolcemente imperioso” lo affascinò moltissimo. Dopo un breve tour all’interno dei palazzi di Via Balbi, lo scrittore andò ad ammirare la colossale statua del famoso giardino Doria e di lì è salito alla Villetta, nel delizioso giardino del Marchese Di Negro che lo accolse molto volentieri nella sua dimora. Così ricorda Stendhal: «mi ha ricevuto con estrema gentilezza e mi ha fatto assaggiare dell’uva della Villetta…». Verso sera il romanziere racconta di essere entrato nella «cattedrale bianca e nera costruita in bande orizzontali». Qui vide «il quadro di Giulio Romano, di cui i genovesi ammirano soprattutto la testa rifatta a Parigi da Girondet». A testimonianza dell’opulenza delle chiese genovesi paragona o confonde S. Stefano, dove è custodito il capolavoro del Romano, con S. Lorenzo, la cattedrale.

“Panorama dalle trifore della Torre della Cattedrale di San Lorenzo”. Foto di Leti Gagge.

Prima di partire, Stendhal si recò al Carlo Felice per assistere ad una rappresentazione teatrale.”. Qui, durante lo spettacolo venne a conoscenza che «Genova possiede un gabinetto letterario dove si leggono i giornali; cosa davvero sorprendente».

“Il Teatro Carlo Felice”. Foto di Leti Gagge.

Il racconto della sua visita a Genova termina con una considerazione molto acuta sull’essenza dei genovesi: «credevo che i genovesi amassero soltanto il denaro; amano anche, mi dicono, la loro indipendenza. Ciò che mi ha fatto nascere questa riflessione politica, è che sono stati costretti a dare il nome di Carlo Felice al bel teatro che si sono costruiti. Hanno comperato e demolito molte case per costruire una piazza davanti al teatro e una strada che continua la bella strada dai tre nomi: Balbi, Nuova e Nuovissima».

Un Veneziano a Genova…

“Le Memoires, l’opera autobiografica di Carlo Goldoni scritta in onore del re di Francia Luigi XVI”.

L’opportunità per Goldoni di raggiungere Genova derivò dal fatto che la compagnia detta di “San Samuele”, con la quale il commediografo stesso stava collaborando, doveva lanciare proprio nel capoluogo ligure, nella primavera del 1736, ben sei nuovi attori e poi trasferirsi a passare l’estate lavorando a Firenze.

Nelle “Memoires” Goldoni scrive: “… Si trattava di andare a vedere due tra le più belle città d’Italia… E avevo le spese pagate (…). Il viaggio fu felice, sempre bel tempo; traversando quell’alta montagna che si chiama la Bocchetta (…). Traversato il ricchissimo e deliziosissimo villaggio di Sampierdarena, scorgemmo Genova dalla parte del mare. Che incantevole e meraviglioso spettacolo! È un anfiteatro semicircolare, che da una parte forma il vasto bacino del porto, e dall’altra si alza gradatamente sul pendio della montagna, con immense costruzioni che da lontano sembrano poste le une sopra le altre e terminano con terrazze, con balaustrate, o con giardini che fanno da tetto alle varie abitazioni. Davanti a queste file di palazzi, di dimore nobiliari e borghesi, gli uni incrostati di marmi, gli altri decorati di pitture, si vedono i due moli che formano l’imboccatura del porto; opera degna dei romani, perché i genovesi, nonostante la violenza e la profondità del mare, vinsero la natura che si opponeva al loro stabilimento. Scendendo dalla parte della Lanterna per raggiungere la porta di San Tommaso vedemmo l’immenso Palazzo Doria, dove tre principi sovrani furono ospitati contemporaneamente; poi andammo alla locanda di Santa Marta, aspettando l’alloggio che ci era destinato”.

“Bussolotti utilizzati per le estrazioni “

A questa descrizione della Genova geografica di allora, Goldoni fa seguire una parentesi che non si può trascurare, almeno nella parte sostanziale, relativa alla genesi di un gioco ancora oggi molto diffuso:

”che in Italia è chiamata lotto di Genova, e a Parigi la lotteria reale di Francia, non era ancora stata introdotta a Venezia. C’erano però dei ricevitori clandestini che accettavano giuocate per Genova e io avevo in tasca una ricevuta per una giuocata che avevo fatto a Venezia. Questa lotteria è stata inventata a Genova, la prima idea fu fornita dal caso. I genovesi tirano a sorte due volte l’anno i cinque senatori che devono sostituire gli uscenti. A Genova si conoscono tutti i nomi che sono nell’urna e che possono essere tirati fuori: i cittadini cominciarono a dire tra loro: “Scommetto che nella prossima estrazione uscirà il tale”; e un altro diceva: “Io scommetto per il talaltro”; e la scommessa era pari (…). Oggi questa lotteria di Genova è diventata pressoché universale (…). È una bella rendita per il governo, un’occupazione per gli sfaccendati, e una speranza per i disgraziati. Quanto a me, questa volta mi parve piacevolissima, ci guadagnai un ambo di cento pistole che mi fece assai contento”.  Le “cento pistole” vinte da Goldoni vanno intese in senso numismatico e tradotte in “cento scudi” del suo tempo, naturalmente d’oro e quindi di valore significativo.

Ma a Genova la vita del commediografo cambiò davvero. Prosegue infatti nelle “Memoires”:

“Statua di Goldoni”.

“A Genova ebbi una fortuna assai più considerevole, e che fece l’incanto della mia vita: sposai una giovane savia, garbata, graziosa, che mi compensò dei tanti brutti scherzi fattimi dalle donne, e che mi riconciliò con il bel sesso. Sì, caro lettore, mi sono sposato, ed ecco come. Il direttore ed io avevamo alloggio in una casa attigua al teatro. Avevo visto alle finestre dirimpetto alle mie una giovane che mi pareva bellina e avevo voglia di conoscerla. Un giorno che era sola la salutai teneramente; lei mi fece una riverenza e scomparve subito, né più si lasciò vedere. Eccomi punto dalla curiosità e nell’amor proprio cerco di sapere chi sta di casa dirimpetto al mio alloggio: è il signor Connio, notaio del collegio di Genova, uno dei quattro deputati al Banco di San Giorgio (…)”. Goldoni cerca di sapere che tipo è il suo futuro suocero. Va a cercarlo al Banco di San Giorgio e lo trova… occupatissimo. Fa la coda e finalmente riesce a parlargli. L’accoglienza di Conio è molto cordiale, al punto che lo invita a uscire con lui e gli propone di andare insieme a prendere un caffè. Appreso che Goldoni si occupa di teatro, gli chiede che parti sostiene recitando e, naturalmente, viene così corretto: “Gli dissi chi ero e che cosa facevo; lui si scusò, gli piaceva il teatro, ci andava spesso, aveva visto i miei lavori, era felice di aver fatto la mia conoscenza, e così io di aver fatto la sua.

Eccoci amici; lui veniva da me, io andavo da lui; vedevo la signorina Connio, ogni giorno di più mi pareva piena di grazie e di virtù. In capo a un mese domandai al Connio la mano di sua figlia”. Non ci furono difficoltà. Anzi il Connio stesso dichiarò che non temeva un rifiuto da parte della ragazza e si disse favorevole alle nozze. Però chiese tempo e, ottenutolo, cercò informazioni sul conto del Goldoni, chiedendole per iscritto soddisfazione senza che fosse seguita da un dispiacere?

“La Targa in Vico S. Antonio che ricorda la dimora genovese del commediografo e il matrimonio con Nicoletta Connio”.

La prima notte di matrimonio ecco che mi piglia la febbre, e il vaiuolo che già avevo avuto a Rimini da ragazzo viene ad attaccarmi per la secondo volta. Pazienza! Per fortuna non era pericoloso, e non divenni più brutto di quello che già ero. La mia sposina pianse molto al mio capezzale; era la mia consolazione e tale è sempre stata. Finalmente partimmo, la mia sposa ed io, per Venezia ai primi di settembre. Cielo! Quante lacrime sparse, che crudele separazione per mia moglie! Doveva lasciare di colpo padre, madre, fratelli, sorelle, zii e zie…Ma se ne andava con suo marito”. Si potrebbero chiudere qui la “genovesità” di Carlo Goldoni, ma Genova presenzia in altre citazioni nei suoi “Memoires”. Ad esempio la “parte seconda” dell’opera finisce proprio con un ritorno dei coniugi Goldoni nel capoluogo ligure, perché lo preferirono a Torino quale ultima tappa italiana di un viaggio in Francia.

Correva l’anno 1762 e Carlo ne aveva ormai cinquantacinque. Così lui descrive e commenta la partenza da Genova: “Passammo otto giorni allegrissimi nella patria di mia moglie, ma le lacrime e i singhiozzi non finivan più al momento della partenza; la separazione era tanto più dolorosa in quanto i parenti disperavano di rivederci. Promettevo di ritornare in capo a due anni; non ci credevano. Finalmente, tra addii, abbracci, pianti e grida ci imbarcammo sulla feluca del corriere di Francia, e facemmo vela per Antibes, costeggiando quella che gli italiani chiamano riviera di Genova”.

Le dimore di Falstaff…

Giuseppe Verdi scelse Genova non solo per il clima, il mare o la bellezza in generale della città, ma soprattutto per la riservatezza dei suoi abitanti che, pur ammirandolo come venerabile Maestro, non furono mai invadenti della sua sfera privata.

I primi tempi, durante il soggiorno genovese, prendeva alloggio all’Hotel Croce di Malta, nella zona di Caricamento.

“Torre Morchi e Palazzo Passano. L’edificio in cui aveva sese l’Hotel della Croce di Malta”.

“La targa che attesta gli illustri ospiti dell’albergo”.

La Croce di Malta, il principale albergo dell’epoca, si trovava a Caricamento, in Vico dei Morchi: viene ricordato così nelle parole di Henry James, uno dei suoi illustri ospiti: “un palazzo gigantesco ai limiti del porto formicolante e non troppo pulito, un edificio immenso, solo il piano terra avrebbe contenuto dodici caravanserragli americani”.

“Villa Sauli Pallavicini nell’odierna Via Corsica”.

Nel 1859, in una delle sue frequenti passeggiate con la moglie Giuseppina Strepponi, si spinse fino al Mandraccio, zona del porto antico, dove fece amicizia con l’ing. Giuseppe De Amicis, cugino del più celebre Edmondo, l’autore di “Cuore”, al quale confidò il suo desiderio di procurarsi una dimora stabile in città.

Cosa che, finalmente, avvenne nel 1866 quando il compositore si trasferì in affitto in Via San Giacomo in Carignano.

Insieme al noto direttore d’orchestra, il ravennate Angelo Mariani e grazie all’amicizia con la Marchesa Sauli Pallavicini, Verdi era riuscito ad esaudire il suo sogno di prendere casa nella Superba.

Andò ad abitare al piano nobile di Villa Sauli in Carignano mentre Mariani si sistemò nell’ammezzato. Divisero l’onere dell’affitto: 400 lire per Mariani e 3000 per Verdi.

In una lettera, infatti, indirizzata al conte Oprandino Arrivabene, datata 16 marzo 1867, così scriveva: “Ricevo ora la tua lettera e ti ringrazio. Parto per S. Agata, ma ritornerò qui per allestire un appartamento che non ho comprato ma affittato in Carignano, Palazzo Sauli Pallavicino. L’appartamento è magnifico e la vista stupenda e conto passarvi una cinquantina d’inverni”.

Da un’altra missiva datata 26 novembre 1874, diretta sempre allo stesso conte, si deduce che il Maestro in tale data aveva già lasciato l’appartamento di Villa Sauli in Carignano: “non so se tu sappia, che io non sto più in Carignano, ma nel Palazzo del Principe Doria, per cui manda in avvenire a questo indirizzo la tue lettere”.

“Palazzo del Principe”. Foto dell’autore.

“Cartolina della Villa del Principe con gli appunti di un viaggiatore francese che indica le finestre abitate dal Maestro”. Immagine di Giorgio Corallo.

“Lapide esterna alla Villa che attesta la presenza dell’illustre ospite e gli conferisce la cittadinanza onoraria”.

Inizialmente occupò l’ammezzato in alto, ma nel 1877 i coniugi Verdi scesero ad occupare il piano nobile della principesca dimora.

Il musicista usciva di casa per fare i suoi acquisti quotidiani. Non mancano gli aneddoti in proposito. Un giorno si recò a comprare dei pesci in “Chiappa”, il vivace mercato del pesce che era situato nei pressi di piazza Cavour, e si sentì dire dal pescivendolo: “Maestro, questa sera nell’Aida farò il comprimario nella parte del re”. Verdi gli rispose ironico: “Però guadagna molto di più qui che sul trono del Carlo Felice”.

Verdi fu invitato alla prima rappresentazione del Falstaff a Genova, ed egli accettò con lettera del 6 aprile 1893, specificando però che non voleva andare nel “palco reale”, perché non voleva essere considerato come ospite d’onore ma come artista fra gli artisti.

Il biglietto autografo di Verdi presso la pasticceria Klainguti”.

Falstaff si chiamano anche le brioche predilette, ripiene alla pasta di nocciola, che il Maestro era solito gustare presso la Pasticceria Klainguti in Campetto. Ancora oggi dietro al bancone del locale campeggia orgoglioso il suo biglietto autografo. “Cari Klainguti, grazie dei Falstaff. Buonissimi… molto migliori del mio!”

Il grande affetto che unì l’illustre compositore alla nostra città traspare anche nelle sue disposizioni testamentarie. Il testamento olografo, datato 20 maggio 1900 conteneva un allegato in cui disponeva 50000 lire ad enti genovesi, così suddivisi: 20000 agli Asili Infantili di Genova; 10000 a favore dell’Istituto dei ciechi; 10000 a favore dell’Istituto Liberti per rachitici; 10000 a favore dell’Istituto di via Fassicomo.