Le storie ufficiali fanno risalire al XIV sec, in piena età comunale, la nascita delle corporazioni dei pastai. La più antica di queste, quella dei “lasagnari”, venne registrata a Firenze nel 1337 con lo scopo di accorpare pastai e panettieri.
Ma fu dopo la metà del ‘500 che i maestri di pasta secca, trapiantati ormai in tutta Italia, cominciarono diffusamente a riunirsi in sodalizi di mestiere.
L’arte dei “Vermicellari” nacque a Napoli nel 1571; nel 1574 i produttori genovesi di “fidei” (pasta lunga e filiforme) costituirono insieme ai formaggiai la corporazione dei “Fidelari” specializzati nella produzione dei maccheroni.
In realtà a Genova, da molto tempo in contatto con l’oriente e il mondo arabo, la pasta era già patrimonio comune.
Non è un caso che Trenetta e Fidelino siano termini di origine araba come, del resto, Scucusu sia una derivazione di cous cous.
I Genovesi infatti, giunti in Asia ben prima di Marco Polo, avevano appreso l’arte della conservazione dai Mongoli di Gengis Khan ed avevano costruito un monopolio del frumento, intuendone per primi le potenzialità, in virtù dei commerci con l’Italia meridionale, l’Oriente e il Nord Africa.
Se ne ha traccia scritta già in un documento del 17 agosto 1188 “L’Ordo Cocariae episcopi Ianuensis” in cui viene descritta tutta la trafila necessaria per i sontuosi banchetti indetti dal Vescovo. Qui, per la prima volta, vengono citati i “pistores”, i pastai che devono occuparsi di preparare e servire la pasta.
Addirittura nel 1244 alla presenza del notaio de Predono, in cambio di sette lire genovine, il medico bergamasco Ruggero di Bruca s’impegna a guarire il lanaiolo Bosso da una fastidiosa malattia del cavo orale. Oltre alle medicine prescritte dal medico, il paziente si deve impegnare, di fronte a testimoni, a non consumare carne, frutta, cavoli e pasta. (cit. tratta da “La Cucina dei genovesi: Storia e Ricette di Paolo Lingua).
Fra i vari formati forse quello delle lasagne, condite in tutte le maniere, era il più apprezzato.
Una quartina del poeta Jacopone da Todi recita:
“Chi guarda a maggioranza spesse
volte si inganna.
Granel di pepe vince per virtù
la lasagna”.
Anche Cecco Angiolieri cita questa pasta nei suoi scritti:
“chi de l’altrui farina fa lasagne,
il su’ castello non ha ne muro ne fosso”
e ancora in una citazione di fra’ Salimbene da Parma che raccontando di un monaco scrive nella sua “Cronaca”:
“Non vidi mai nessuno che come lui
si abbuffasse tanto volentieri
di lasagne con formaggio
A Genova in particolare, venivano servite con un battuto (pesto in genovese) antenato dell’attuale salsa, ma privo di basilico.
Già nel 1316 se ne certifica la presenza grazie alla citazione di una certa Maria Borgogno “quae faciebat lasagnas”.
Venivano chiamate mandilli de saea, fazzoletti di seta perché, probabilmente, richiamavano con il loro gusto vellutato la morbidezza della seta, tessuto commerciato dai genovesi e assai in voga in quel periodo.
Ed io me la sono immaginata così la nascita del mandillo:
Un giorno capitò in città un commerciante di tessuti proveniente da una terra molto lontana. Parlava una lingua mediterranea contorta ma familiare sui moli della Darsena e subito si mise ad intonare la sua nenia per proporre i suoi manufatti.
Stoffe sgargianti di ogni colore, taglio e foggia. Ma su tutte a colpire l’interesse delle massaie che si erano radunate intorno al suo bazar itinerante, furono dei graziosissimi fazzoletti di seta, “mandilli de saea” decorati con deliziosi macramè.
In particolare piacquero ad una giovane “lasagnara” che, non potendosi permettere di comprarli dal mercante, si mise a tirare la sfoglia delle sue lasagne così sottile da farli diventare simili ai suoi agognati fazzoletti di seta.
All’ora di pranzo la donna presentò una porzione delle appetitose lasagne condite con il pesto allo straniero che, entusiasta, proclamò: ”questo piatto è ben più prezioso dei miei mandilli de saea”. Quindi offrendo in cambio i fazzoletti desiderati dalla massaia, diede origine anche al nome.