Varcata la Porta Soprana, all’angolo fra Via Ravecca e Salita del Prione, proprio sul Piano di S. Andrea, si staglia un curioso palazzo decorato con un’imponente edicola. Si tratta dei resti di quella che un tempo era una torre, la Turris Matonorum, interamente di pietra appartenente alla famiglia Embriaco fatta erigere da Guglielmo nel 1128.
Dei due archi tamponati sul lato del Piano, quello di destra nasconde gli archetti originali di una quadrifora. Sul versante di Via Ravecca invece, sopra ai terrazzini, si notano degli archetti di bifore in marmo liscio. All’angolo, al livello del piano strada, si intuiscono i resti dei conci di pietra che costituivano la base della torre, oggi irriconoscibile per via delle continue trasformazioni che ha subito nei secoli. Un presidio probabilmente costruito per dare supporto ai poderosi torrioni dell’attigua Porta Soprana.
Sul lato del Prione, impossibile non notare la grande edicola barocca del sec. XVII – XVII, un dipinto su tavola che rappresenta la Madonna seduta con il Bambino in braccio, attorniata da vari santi e fedeli. Nonostante sia stata, circa un decennio fa, restaurata i colori risultano sbiaditi e l’edicola nel suo insieme trasmette trasandatezza e mancanza di cura. Del grande angelo poi che sovrastava il timpano è rimasto solo il tronco.
Il tabernacolo, seppur poco profondo, è di grande dimensioni ed incornicia la scena con motivi floreali modellati con lo stucco. Il timpano spezzato s’inserisce nella raggiera dove angeli in volo e teste di cherubini completano l’immagine.
“L’Arme” o stemma della città di Genova prevede la seguente rappresentazione: “D’Argento alla Croce di rosso; lo scudo è cimato da corona ducale col cimiero della testa coronata all’antica di Giano bifronte ed ha per supporti due grifoni affrontati d’oro; il tutto su di una base pregiata da una conchiglia d’oro, accompagnata da ciascun lato da una palma e dal rostro bronzeo di nave romana a testa di cinghiale, di colore verde.” Quest’ultimo elemento interpretato come una palese allusione all’antica vocazione marittima della città si chiama proembolon, ed è la protuberanza sovrastante il rostro posta quasi all’altezza del ponte delle antiche navi romane.
Fu rinvenuto nel 1597 nel fondale tra Ponte Spinola e la Darsena e nel 1815, dopo il congresso di Vienna venne, insieme a tutta l’armeria della nostra Repubblica che è rimasta abbandonata e dimenticata nei fondi senza essere mai stata esposta, rubata dai Savoia.
Ne esistono tre esemplari:
l’originale custodito presso l’Armeria Reale di Torino
una prima copia sita nel deposito provvisorio del deposito del museo di artiglieria presso la caserma Armione della città sabauda
una seconda copia conservata presso il Museo di Pegli.
Per molto tempo il Comune ha lottato per riavere la singolare “scultura nautica”. La concessione massima fu, la possibilità per il Comune nel 1898, di acquistare una copia, in ghisa e gesso che restò nel museo di Palazzo Bianco fino al 1928 e che fu poi esposta prima nella sede del Museo Civico di Archeologia Ligure a Villetta Di Negro, quindi nel museo di Villa Durazzo-Pallavicini a Pegli, dove è ancora oggi murata nell’ atrio d’ingresso.
L’Assessorato alla cultura di Genova, varie associazioni culturali e non ultimo appelli come quello di Eugenio Vajna de Pava, che ringrazio per le foto e le notizie, ne hanno chiesto la sacrosanta restituzione.
Il viaggio in Italia, per quelli che se lo potevano permettere costituiva tappa obbligata per la formazione culturale dell’artista: pittori, scultori, romanzieri, scrittori, poeti e filosofi provenienti da ogni angolo d’Europa percorrevano il Bel Paese assetati di conoscenza, famelici di bellezza, in cerca d’ispirazione.
Nel 1833 anche un giovane e ancora sconosciuto Hans Christian Andersen arrivò a Genova dove rimase meravigliato ad ammirare il mare. I colori erano più intensi, nitidi, vivaci rispetto a quelli a cui era abituato sulle coste della sua terra natia, la Danimarca. Un’esplosione di mediterranea bellezza che lo incanta come una fiaba e lui si che di fiabe se ne intendeva.
L’autore di celeberrime favole quali, fra le tante, “La Principessa sul Pisello”, “La piccola fiammiferaia”, “La Sirenetta” o il “Brutto Anatraccolo” (“I Vestiti dell’Imperatore la mia preferita”) racconta nei suoi appunti di essersi perso nel dedalo dei caruggi nel tentativo di raggiungere il teatro Carlo Felice dove aveva intenzione di assistere all’opera “Elisir d’Amore” di Gaetano Donizetti.
“Per la prima giornata, il viaggio da Genova verso sud, lungo il mare, è uno dei più belli che si possano fare. Genova poi sorge sulle colline, in mezzo ad oliveti verdi-azzurri. Nei giardini crescevano aranci e melograni, e i lucenti limoni verde pallido facevano pensare alla primavera, proprio allora che noi scandinavi ci approssimiamo all’inverno. I temi degni d’un quadro succedevano l’uno all’altro; per me tutto era nuovo e indimenticabile, e vedo ancora adesso gli antichi ponti ricoperti d’edera, i cappuccini per la strada e le schiere di pescatori genovesi con i berretti rossi in testa. La costa era tutto uno splendore, con le belle ville e il mare costellato di velieri e vapori dai camini fumanti”.
Lasciata in eredità a Genova questa solare e vitale descrizione, colorata come un quadro impressionista di Monet, Andersen si diresse verso Sestri Levante. In onore di questo suo soggiorno nel Tigullio una delle due baie del golfo sarà chiamata (grazie ad una felice intuizuone di Enzo Tortora) la Baia delle Favole e dal 1982 costituirà impareggiabile scenario del premio internazionale di narrativa per l’infanzia a questi intitolato.
In Copertina: Panorama di Genova dalla spianata di Castelletto. Foto di Leti Gagge.
Paul Klee giunse in Italia nel 1901 alla ricerca d’ispirazione dato che non aveva ancora deciso se intraprendere, come i suoi genitori l’attività di musicista, o quella di pittore. Le impressioni dell’artista al suo arrivo a Genova sono annotate in un libercolo intitolato “Diario Italiano” composto fra l’ottobre del 1901 e il maggio del 1902.
“Del mare avevo un’idea approssimativa, non però della vita in un porto. Vagoni ferroviari, minacciose gru a vapore, carichi di merce e uomini lungo argini di solida muratura, funi da scavalcare. Sfuggire ai barcaioli: «Giro del porto, panorama della città!», «Le navi da guerra americane!», «I fari!», «Il mare!». Sedersi sui grossi cavi di ferro. Clima insolito. Piroscafi da Liverpool, Marsiglia, Brema, la Spagna, la Grecia, l’America. Rispetto per la grandezza del globo terrestre. Centinaia di vapori accanto a innumerevoli vaporetti, velieri, rimorchiatori. E gli uomini, poi? le figure più strane, col fez. Qui, sugli argini, emigranti, italiani del Sud, accoccolati al sole (come lumache), gesticolare da scimmie, madri con lattanti al petto, i bambini più grandicelli che giocano e si bisticciano. Un vivandiere si fa largo con un recipiente fumante di «frutti di mare». Colpisce l’odore d’olio e di fumo. Donde proviene? Poi gli scaricatori di carbone, belle figure robuste, il torso nudo, agili e veloci, col carico in groppa (in testa un fazzoletto, a riparo dei capelli), sulla lunga passerella su al magazzino, per la pesatura. Poi, liberi, per un’altra passerella giù al piroscafo, dov’è pronta un’altra cesta piena. Così in incessante giro, uomini abbronzati dal sole, neri di carbone, rudi, sprezzanti. Lì un pescatore. L’acqua schifosa non può contenere nulla di buono. Non pesca nulla, e neppure gli altri. Gli arnesi: una corda, con un sasso attaccato, una zampa di gallina, un mollusco.
Sugli argini case e magazzini. Un mondo a sé. Noi semplici oziosi. Eppure fatichiamo, almeno con le gambe”.
“Case alte, fino a tredici piani, vie strettissime nella città vecchia, fresche e maleodoranti, di sera una fitta folla, durante il giorno quasi solo bambini. I loro panni sventolano come bandiere di una città in festa. Cordicelle tese da una finestra a quella di fronte. Durante la giornata sole pungente in quelle viuzze, riflessi metallici del mare, dovunque una luce abbagliante. Con tutto questo, le note di un organetto, un mestiere pittoresco. Attorno bambini che ballano. Il teatro nella realtà. Ho portato molta malinconia oltre il San Gottardo. Dioniso non ha effetti semplici su di me”.
“Il viaggio per mare è stato un avvenimento. Come andava gradatamente sparendo lontano, la grande Genova notturna, disseminata di luci, assorbita dal chiaro di luna, così come un sogno trapassa in un altro! […] Come un sogno Genova si sprofonda nel mare. Sono morto per questo mondo, dileguato con l’ultima luce? Oh, fosse così! Sarebbe possibile?”.
L’immagine onirica di Genova che “come un sogno si sprofonda nel mare” è, a mio modesto parere, quanto mai pertinente e suggestiva: uno splendido dono che i genovesi hanno voluto contraccambiare nel 1967 intitolando al pittore il principale liceo artistico cittadino.
Ma non solo poichè a progettare nel 2005 il museo di Berna a questi interamente dedicato è stato il nostro apprezzato architetto Renzo Piano.
Quando la statua scolpita da Giulio Monteverde si trovava ancora in Piazza Principe. Il monumento inaugurato il 12 aprile 1896 lì rimase fino al 1932 quando venne trasferito presso gli adiacenti giardini di Via Fanti d’Italia…
quando, causa lavori inerenti alla metropolitana, non era ancora stato spodestato per poi essere colpevolmente dimenticato, muto e mutilo, in un deposito comunale di San Quirico.
Il complesso originario è costituito da un basamento di granito sul quale campeggia un medaglione bronzeo con il ritratto del Duca e lo stemma di Genova. Sopra svetta il gruppo allegorico delle tre statue che rappresentano tre attività a cui certamente De Ferrari aveva dato grande impulso e per le quali si era guadagnato grande lustro: il Commercio, la Navigazione e la Beneficenza.
Finalmente restaurato e dopo le consuete polemiche sull’idonea o meno ubicazione riservatagli troverà nuova sistemazione in Carignano dove sarà posto a regolare il traffico in fondo a Via Corsica.
Forse il Duca benefattore, declassato a diligente “Cantunè”, avrebbe meritato maggior visibilità ma per lo meno non patirà la solitudine. A poche centinaia di metri più in là infatti, nei giardini dell’ospedale, incontrerà lo sguardo severo e consolatorio della statua della moglie. La scultura che, frutto anch’essa della maestria del Monteverde, immortala la Duchessa Maria Brignole Sale regalmente assisa sul suo scranno.
… a marciare non erano più i valorosi crociati dell’Embriaco che avevano dato inizio e lustro all’epopea della gloriosa Repubblica marinara, bensì le squadre di Camicie Nere che omaggiavano il Duce… quando sul millenario selciato rimbombavano non lo sferragliare delle armature ma il bellicoso rumore dei passi dell’ignara meglio Gioventù…
quando i locali dell’Ospitale che un tempo fungevano da ricovero per i pellegrini in partenza o di ritorno dalla Terrasanta erano stati trasformati in abitazioni ed esercizi commerciali abusivi…
… così Don Gallo definì la visione divina ed umana allo stesso tempo del poeta degli ultimi, dei reietti, dei diseredati… insomma di tutti coloro ai quali Gesù aveva ridato speranza e Fabrizio voce. Compassione e solidarietà cristiana alla massima potenza: rispetto e sacralità dell’essere umano, accoglienza senza giudizio, amore incondizionato. Non male per un anarchico che non si professava adepto di nessuna religione. Molto più “illuminato” lui di molti altri che ascoltano o diffondono la parola del Signore predicando bene e razzolando male.
Una sfida difficile quella raccolta da Faber lanciata qualche secolo prima dal Sommo Dante:
Non rammentava forse il poeta la strada maestra?
“Fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza”.
(cit. dal Canto XXVI dell’Inferno versi 112 – 120 di Dante Alighieri).
Venne alla spiaggia un assassino
due occhi grandi da bambino
due occhi enormi di paura
eran gli specchi di un’avventura…
E chiese al vecchio ‘Dammi il pane,
ho poco tempo e troppa fame’
e chiese al vecchio ‘Dammi il vino,
ho sete e sono un assassino’.
Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno
non si guardò neppure intorno
ma versò il vino e spezzò il pane
per chi diceva ‘Ho sete, ho fame’…
(cit. da “Il Pescatore” di F. De André).
Se tu penserai, se giudicherai
da buon borghese
li condannerai a cinquemila anni più le spese
ma se capirai, se li cercherai fino in fondo
se non sono gigli son pur sempre figli
vittime di questo mondo.
(cit. da “La Città Vecchia” di F. De André).
“Ci hanno insegnato la meraviglia verso chi ruba il pane. Ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame”.
(cit. da un verso tratto da “Nella mia ora di Libertà” di F. De André scritto su un muro all’angolo fra Piazza Vacchero e Via del campo, proprio accanto alla fontana che nasconde la Colonna Infame).
“Quando attraverserà l’ultimo Vecchio Ponte, ai suicidi dirà baciandoli alla fronte. Venite in Paradiso là dove vado anch’io. Perché non c’è l’inferno nel mondo del buon Dio”. (cit. da Preghiera in Gennaio di F. De André)…
… quando il Ponte che univa il colle di Sarzano con quello di Carignano sovrastava i millenari quartieri della Madre di Dio…
Vanno
vengono
ogni tanto si fermano
e quando si fermano
sono nere come il corvo
sembra che ti guardano con malocchio
Certe volte sono bianche
e corrono
e prendono la forma dell’airone
o della pecora
o di qualche altra bestia
ma questo lo vedono meglio i bambini
che giocano a corrergli dietro per tanti metri
Certe volte ti avvisano con rumore
prima di arrivare
e la terra si trema
e gli animali si stanno zitti
certe volte ti avvisano con rumore
Vengono
Vanno
ritornano
e magari si fermano tanti giorni
che non vedi più il sole e le stelle
e ti sembra di non conoscere più
il posto dove stai
Vanno
vengono
per una vera
mille sono finte
e si mettono li tra noi e il cielo
per lasciarci soltanto una voglia di pioggia”.