“Il Tempo delle Mele”…

Il toponimo di Vico Mele ha una genesi incerta. Secondo alcuni trarrebbe origine dalla famiglia proveniente dall’omonimo paesino sulle alture di Voltri, per altri, molto più semplicemente perché qui avevano sede le botteghe e i magazzini del succoso frutto.

“La parte bassa del prospetto presenta ancora le classiche lesene alternate bianco nere”. Foto di Leti Gagge.

Al vicolo è legata anche una curiosa leggenda che racconta di una misteriosa meretrice, bruna di capelli, di pelle ambrata e dalle prosperose forme che fa girar la testa e, soprattutto, sparir il portafoglio degli incauti clienti.

“Il calco dell’edicola quattrocentesca in stile gotico”.

Al civ. n. 6 si trova il Palazzo Brancaleone Grillo conosciuto anche, dal nome dei successivi proprietari, come Serra. Dentro al cortile di accesso al loggiato si trova una meravigliosa rappresentazione quattrocentesca di Madonna con il Bambino, calco di una delle più affascinanti edicole del centro storico. Realizzata in forma allungata e in un raffinato stile gotico francese presenta nella nicchia il rilievo della Vergine con il Bambinello in braccio.

L’immagine nel suo insieme, e il gioco di sguardi in particolare, trasmettono un intimo senso di complicità. Sotto la mensola, su una pigna con motivi floreali, campeggia lo stemma del casato. Data l’importanza dell’opera, per preservarla dalle intemperie e dai vandalismi, l’originale è conservata presso il Museo di S. Agostino.

“San Giorgio che uccide il drago di G. Gagini”. Foto di Leti Gagge.
“Portale con relativo sovrapporta”. Foto di Leti Gagge.

Il portale del palazzo, attribuito alla sapiente mano di G. Gagini, offre la classica effige di San Giorgio che sconfigge il drago sdraiato sotto il cavallo con la principessa in preghiera. Sullo sfondo due figure femminili alate che reggono in mano la fiaccola e il giglio e sotto gli scudi con gli stemmi nobiliari. La tavella risulta infine impreziosita da una ricca cornice con girali e putti. Alla base l’iscrizione recita:

Qvi Ovcis Voltvs Deo Saspicis Ista Libenter: Omnibvs Invideas Invide Nemo Tibi.

“Quanta storia è passata su questi scalini”. Foto di Leti Gagge.
“Scalone e colonnine murate”. Foto di Leti Gagge.
“La scalinata interrotta al primo piano”. Foto di Leti Gagge.

La facciata presenta la tradizionale alternanza di conci di marmo bianco e nero sulla quale sono visibili alcune colonne murate, poggioli con colonnine di marmo e archetti trilobati che proseguono anche sul lato di Vico Colalanza e Vico San Luca. All’interno lo scenografico scalone marmoreo che, a seguito delle successive ristrutturazioni, s’interrompe al primo piano.

Gli interni del piano nobile offrono affreschi, a tratti sbiaditi, di Luca Cambiaso, “Nozze di Amore e Psiche e Augusto assiso in trono” e di Lazzaro Tavarone, “Mosè con gli Ebrei nel deserto”, opere che permettono al palazzo(a quel tempo di proprietà di Nicolò Spinola) di inserirsi a pieno titolo, già a partire dal 1576, nel rodato sistema dei rolli.

Le numerose colonne con relativi capitelli tamponate lasciano presagire quanto imponente fosse il loggiato originario. Al civ. n. 11 esisteva un analogo portale a quello precedentemente descritto che venne acquistato e trasferito nel suo castello dal Capitano D’Albertis.

“Il sovrapporta con San Giovanni Battista nel deserto”. Foto di Leti Gagge.

All’angolo con Vico San Sepolcro ecco un altro antico portale in pietra nera di promontorio che rappresenta il Battista nel deserto al cospetto del Dio padre che affida la sua famiglia alla protezione divina. Il bassorilievo ricco di simbologie orientali e pagane rappresenta un’allegoria della famiglia proprietaria che volle affidarsi direttamente al Divino senza troppe intermediazioni.

“Il sovrapporta del Battista in primo piano”. Foto di Leti Gagge.

A destra una cicogna, forse uno struzzo vicino ad un leopardo sdraiato a terra davanti ad uno sfondo di alberi e rocce. Sulla sinistra San Giuseppe accompagna con la mano una figura femminile alata che esce da uno scudo. La scena rappresenta la presentazione del casato al cospetto del Dio Padre che appare all’estrema sinistra pronto ad accogliere benignamente la richiesta.

“L’Annunciazione in pietra nera sotto l’archivolto De Franchi”.

Sotto l’archivolto De Franchi ci si imbatte in un’altra Annunciazione in pietra nera decorata con stemmi abrasi del XVI sec.

All’angolo con Vico Spinola antiche tracce di una loggia tamponata con archi in pietra del XIII sec.

Nella piazzetta di San Sepolcro sorgeva, come testimoniato da apposita lapide, un antico oratorio oggi sostituito da una mediocre costruzione del dopoguerra.

Sul muro al civ. n. 2, vicino ai resti marmorei della decorazione dello scomparso portale, la lapide che attesta la proprietà del palazzo:

Dom / Hec Plateola Cvm Domo Magna Oposita / Est  Mag. Ci et Potenti.mi Militis. D. Lvce Spin / Vle Q. S. P. D. Io; Baptiste Hoc Anno  Em  / pta Ab Heredibvs Q Brancaleonis / et Antoniotis De Grilis Die pma Sept / Embris MCCCCLXXXXVI (1496).

“Vico Mele e il palazzo Brancaleone Grillo”. Foto di Leti Gagge.

La nobile schiatta ebbe origine da un certo Uberto valoroso capitano che nel 806 fu il primo a salire sulle mura di Costantinopoli durante l’assedio della città. L’imperatore Niceforo (dal greco significa “Colui che porta la vittoria”) testimone del fatto lo indicò come esempio ai suoi soldati: “Vedete voi quel grillo con quanta celerità sale sui muri?”. Da questo episodio l’origine del cognome dei suoi discendenti che ricoprirono ruoli di assoluto prestigio: cardinali come Geraldo nel 1134 , Oberto nel 1155 e Ottone 1251; ammiragli quali Simone vittorioso nel 1264 sui veneziani, Accellino che nel 1310 con sole dieci galee espugnò Rodi; padroni di territori e titoli nobiliari come Manfredo signore di Cassano Spinola nel 1306, Antonio di Piacenza nel 1317, Antonio di Sigismondo di Lerma nel 1396.

Nel 1528, con la riforma voluta da A. Doria, formarono il nono albergo. Molti ancora, per tutto il ‘600 e il ‘700, furono i membri di questa illustre casata che ricoprirono di prestigiosi incarichi e che di allori si fregiarono.

… Quando era il grattacielo più alto d’Europa…

Quando la Torre Piacentini era stata appena costruita dall’omonimo architetto… innalzata tra il 1935 e il 1940 è alta 105 metri distribuiti su 31 piani ed è tuttora il secondo grattacielo cittadino dopo la Torre di San Benigno, a tutti nota come “Il Matitone”…

“Le due Torri di Piazza Dante: a sinistra torre nord, a destra torre sud”.

quando per distinguerla dalla sorella più bassa era detta Torre Sud prima di essere negli anni identificata in relazione alle attività ospitate nella sua panoramica terrazza oggi sede degli studi dell’emittente televisiva Primocanale, come torre: Capurro, Martini e Colombo…

quando aveva avuto il primato di più alta costruzione italiana ed europea in cemento armato dell’epoca,  di grattacielo più alto d’Italia fino alla costruzione della Torre Breda di Milano nel 1954, e di grattacielo più alto d’Europa fino alla costruzione della Kotel’ničeskaja naberežnaja di Mosca nel 1952.

…. Quando Maciste…

Quando Bartolomeo Pagano, il gigante di S. Ilario, non era ancora diventato né il celebre Maciste cinematografico, né lo scultoreo modello per il Monumento dei Mille di Quarto

… quando, con i suoi colleghi camalli della Compagnia dei Caravana, faticava in porto e si cimentava in formidabili gare di forza con il leggendario Cescu, o in pantagrueliche scorpacciate di fumante minestrone, di cui andava ghiotto, al pesto…

… quando presso la scomparsa trattoria della Nina ne consumava diverse xatte e non bastavano mezzo litro di rosso e un chilo e mezzo di pane per sfamarlo.

In copertina foto di gruppo del 1910: il terzo seduto, partendo da sinistra con la maglietta scura è Bartolomeo. Il terzo in piedi da sinistra con baffi è il campione di sollevamento pesi Penco.

“Era una casa”…

… molto carina. Senza soffitto senza cucina. Non si poteva entrarci dentro. Perché non c’era il pavimento. Non si poteva andare a letto. In quella casa non c’era il tetto. Non si poteva fare pipì. Perché non c’era vasino lì. Ma era bella, bella davvero. In via dei matti numero zero”… così recitava la prima strofa della celebre canzone di Sergio Endrigo. Per fortuna nella casa di cui vi voglio parlare c’è quasi tutto e risulta tuttora essere una delle attrazioni turistiche più gettonate della Superba. Sita proprio davanti allo scenografico ingresso di Porta Soprana, uno dei due principali varchi ancora esistenti delle Mura del Barbarossa, ecco la presunta Casa di Colombo.

Presunta si, perché secondo gli studiosi qui avrebbe abitato Domenico Colombo, padre del più celebre, a quel tempo giovinetto, Cristoforo. Si ipotizza di conseguenza che, insieme al padre, vi avrebbe dimorato anche il futuro esploratore che, all’epoca, avrebbe dovuto avere circa quattro anni.

“La casa di Colombo con i rampicanti che ne coprono le iscrizioni”. Foto di Leti Gagge.

Domenico infatti, a causa dei mutamenti politici avvenuti in seno al governo cittadino, aveva perso il suo tranquillo lavoro di custode presso la Porta dell’Olivella ed era stato costretto ad inventarsi un nuovo impiego. Si era quindi riciclato artigiano lanaiuolo e per praticare tale attività che, proprio nella contrada dei Lanaiuoli  presso Vico Dritto di Ponticello aveva il suo fulcro cittadino, vi si era trasferito.

Fra il 1455 e il 1470 l’antica dimora avrebbe dunque ospitato l’esploratore dove il padre, per arrotondare e riuscire a sbarcare il lunario, oltre ai tessuti, smerciava vini e formaggi.

“Cartina delle rotte percorse dall’esploratore durante i suoi viaggi nel nuovo continente”. Foto di Sergio Gandus.
“Il racconto del primo viaggio del 1492 tratto dai Diari di bordo”. Foto di Sergio Gandus.

Ai foresti lasciamo pure l’illusione di quel “presunta” ma in realtà, essendo l’abitazione originale andata distrutta nel maggio 1684, gli storici concordano nel decretarne la non autenticità. Insomma un “falso storico” acclarato.

Fu infatti il devastante bombardamento navale francese ordinato da Re Sole, Luigi XIV, a radere al suolo senza alcuna pietà la costruzione primitiva che era costituita da due o tre piani dei quali il primo adibito a bottega e gli altri due ad abitazione.

Nel ‘700 sulle macerie di quella originaria la casa fu ricostruita, più o meno fedelmente, nella versione che possiamo ammirare ancora oggi e nel corso dei secoli successivi venne ulteriormente modificata con la sopraelevazione di altri piani fino al raggiungimento dei cinque.

“Bassorilievo marmoreo che riproduce la caravella Santa Maria. Scultura fatta eseguire dal Capitano D’Albertis grande ammiratore dell’illustre predecessore”. Foto di Sergio Gandus.

Nel 1887 il Comune ne divenne proprietario impegnandosi, per fortuna, a preservarla dai futuri sconvolgimenti che avrebbero interessato la zona. Nel 1898 infatti le case di Vico Dritto di Ponticello vennero abbattute e con esse i tre piani posticci che, appunto, poggiavano sulle costruzioni limitrofe. Nei primi decenni del Novecento con la risistemazione del quartiere e, di fatto, la sparizione degli antichi borghi di Ponticello e del Morcento (attuale Via Ceccardi) la casa di Colombo è rimasta isolata e avulsa dal suo originale e vitale contesto.

Sul prospetto che oggi consideriamo principale campeggia la lapide marmorea sotto lo stemma cittadino protetto da due orgogliosi Grifoni che recita:

“Nulla Domus Titulo Degnior Paternis In Aedibus Christophorus Columbus Pueritiam Primamque Juventam Transegi”. “Nessuna casa è più degna di considerazione di questa in cui Cristoforo Colombo trascorse, tra le mura paterne, la prima gioventù”.

“Lapide che ricorda la dimora di Domenico e Cristoforo Colombo”. Foto di Sergio Gandus.

L’ingresso principale originale era invece posto verso il lato oggi occupato dal chiostro di S. Andrea la cui presenza in loco costituisce anch’essa, sebbene la conformazione sia assai suggestiva, un falso storico. Peccato perché l’immagine del futuro grande esploratore assorto sotto le colonne del chiostro del XII sec. intento nello studiare le sue ardite rotte era molto suggestiva.

“La Casa di Colombo orfana delle case di Vico Dritto di Ponticello a cui era addossata, in compagnia del Chiostro di S. Andrea sorvegliato dalle torri di Porta Soprana”. Cartolina primi decenni del ‘900 tratta dalla Collezione di Stefano Finauri”.

Le ormai millenarie pietre vennero salvate dall’architetto portoghese Alfredo d’Andrade che si adoperò per recuperarle.

Nel corso infine di un restauro condotto nel 2001 sono stati effettuati importanti ritrovamenti di carattere storico archeologico che hanno portato alla luce tracce di muratura di probabile origine romana e una canaletta medievale sotterranea per lo smaltimento delle acque, una sorta di primitivo impianto fognario. La gestione della casa museo è oggi affidata all’Associazione Culturale Genovese “Porta Soprana” che al suo interno ha predisposto un percorso didattico “sulla rotta”, è il caso di dirlo, dell’Ammiraglio.

 

… Quando a Ponte Carrega c’era il Velodromo…

Quando ancora non c’era Via Lungobisagno Istria e lo storico Ponte Carrega, per fargli spazio, non era stato ancora mutilato…

quando c’era il mitologico  velodromo che Geo Davidson mise a disposizione di Sir James Richardson Spensley per disputare i primi incontri di football di cui furono protagoniste le leggendarie maglie bianco azzurre del Genoa. Gli inossidabili colori rossoblù della United of Kingdom infatti verranno adottati dal sodalizio genovese solo nel 1901 per omaggiare, in occasione della sua dipartita, la Regina Vittoria.

“Il Discorso illuminato di Anselmo”…

Il nome del Vico trae origine dalla famiglia Adorno proveniente da Taggia che giunse a Genova intorno al 1186 e che, appartenente alla fazione ghibellina, diede alla Repubblica sette Dogi.

Innumerevoli sono dunque gli esponenti di questa illustre casata ma io voglio soffermarmi sull’illuminata figura di Anselmo, un cavaliere, mercante e uomo politico genovese trapiantato nei Paesi Bassi, che si rese protagonista di diverse avventurose missioni diplomatiche.

Nel 1470, infatti, Carlo il Temerario gli affidò il delicato compito di recarsi, attraversando l’Italia, negli stati musulmani del vicino Oriente, per esaminarne le condizioni e riferirne al principe.

Il Duca rimase talmente soddisfatto della relazione che Anselmo gli fece del suo viaggio e dei suoi incontri, che lo nominò suo consigliere e ciambellano personale.

Sono passati oltre cinque secoli eppure quella del genovese del ‘400 appare una visione ancora quanto mai moderna e, per certi versi addirittura futuristica, rispetto al pensiero di molti attuali politici. A tal punto illuminata da chiedersi quale delle due visioni appartenga al Medioevo; se quella di Anselmo o quella dei movimenti che cavalcano sull’onda della paura, l’ignoranza imperante.

“Alcuni pensano, ma ben scioccamente, che non vi sia altra patria che la loro. Altri, pur riconoscendo ch’essa non è la sola, affermano, per smodato attaccamento, che tra la loro patria e i paesi stranieri vi sia la stessa differenza che passa fra il giorno e la notte.

“Itinerario d’Anselmo Adorno in Terrasanta”.

Essi pensano – cosa che è ancora più insensata – che tutte le altre contrade siano immerse nell’oscurità e che nessuna nazione, nessun paese possa essere più favorito e felice del loro. Credono che gli altri siano sprovvisti di saggezza e virtù, e che vivano senza leggi come bestie prive di ragione.

Costoro, che si caratterizzano per una crassa ignoranza, madre di tutti i vizi, sembrano più simili agli animali selvatici che agli esseri umani, mentre gli uomini che hanno conosciuto o percorso il mondo non cadono in errori tanto stupidi.”

Anselmo Adorno,

Brano tratto da “Itinerario di Anselmo Adorno in Terrasanta” del  XV secolo.

In Copertina: Vico degli Adorno in bianco e nero. Foto di Stefano Eloggi.

… Quando il barchile…

Quando il barchile progettato nel 1643 da Pietro Antonio e Ottavio Corradi venne scolpito dalla maestria di G. B. Orsolino, su incarico dei Protettori del Porto che lo avrebbero collocato sul molo del Ponte Reale

quando la monumentale fontana di Piazza Colombo, dove era stata trasferita nel 1861, fungeva da abbeveratoio per gli animali dei tombarelli, ristorando muli, asini e cavalli.

Declassata, riconvertita – diremmo oggi- da nobile fontana di rappresentanza a popolare sorgente per le bestie.

… Quando in Via Dante…

Quando la Via e la Piazza intitolata al Sommo Dante si stavano preparando ad accogliere la torre di Piacentini, quello che sarebbe stato il più alto grattacielo d’Italia e d’Europa per quasi un ventennio…

quando per far posto alla moderna Via Ceccardi si stava per abbattere il popoloso quartiere di Morcento, un rione ricco di vita, storie e attività commerciali.

“Nu ghe n’é nu ghe n’é nu ghe n’é”…

“A Cumba” è uno straordinario pezzo in lingua genovese cantato a due voci da Fabrizio De André e Ivano Fossati in cui nenie e usanze riemergono da un passato neanche troppo lontano.
La storia, che racconta di una domanda di matrimonio, si sviluppa in un poetico dialogo fra le aspettative del pretendente e le preoccupazioni del padre…

Gh’aivu ‘na bella cùmba ch’à l’é xeûa foea de cà
gianca cun’à néie ch’à deslengue a cian d’à sâ

Avevo una bella colomba che è volata fuori casa
bianca come la neve che si scioglie a pian del sale

Duv’a l’é duv’a l’é

dov’è dov’è

che l’han vursciua vedde cegâ l’àe a stù casâ
spéita cume l’aigua ch’à derua zû p’ou rià

che l’hanno vista piegare le ali verso questo casale
veloce come l’acqua che precipita dal rio

Nu ghe n’é nu ghe n’é nu ghe n’é

non ce n’è non ce n’è non ce n’è

Padre (F. De André):
Cau ou mè zuenottu ve porta miga na smangiaxun
che se cuscì fise puriesci anàvene ‘n gattixun
Nu ghe n’é nu ghe n’é nu ghe n’é

Caro il mio giovanotto non vi porta mica qualche prurito
che se così fosse potreste andarvene in giro per amorazzi
non ce…

Pretendente (I. Fossati):
Vegnu d’â câ du rattu ch’ou magun ou sliga i pë

Vengo dalla casa del topo che l’angoscia slega i piedi

Padre:
Chi de cumbe d’âtri ne n’é vegnûe nu se n’é posé

Qui di colombe d’altri non ne son venute non se ne son posate

Pretendente:
Vegnu c’ou coeu marottu de ‘na pasciun che nu ghe n’è

Vengo con il cuore malato di una passione che non ha uguali

Padre:
Chi gh’é ‘na cumba gianca ch’â nu l’é â vostra ch’â l’é a me
Nu ghe n’é âtre nu ghe n’é / nu ghe n’é âtre nu ghe n’é

Qui c’è una colomba bianca che non è la vostra che è la mia
Non ce n’è altre non ce n’è / non ce n’è altre non ce n’è

Coro:
A l’e xëuâ â l’é xëuâ / a cumba gianca
de noette â l’é xëuâ / au cian d’â sâ
A truvian â truvian / â cumba gianca
de mazu â truvian / au cian d’ou pan.

E’ volata è volata / la colomba bianca
di notte è volata / a pian del sale
La troveranno la troveranno / la colomba bianca
di maggio la troveranno / al pian del pane

Pretendente:
Vui nu vuriesci dàmela sta cumba da maiâ
gianca cum’â neie ch’à deslengue ‘nt où rià
Duv’a l’é duv’a l’é / duv’a l’é duv’a l’é

Voi non vorreste darmela questa colomba da maritare
bianca come la neve che si scioglie nel rio
dov’è dov’è dov’è dov’è dov’è

Padre:
Mié che sta cumba bella a stà de lungu a barbaciu
che nu m’à posse vèdde à scricchi ‘nte n’âtru niu
Nu ghe n’é âtre nu ghe n’é / nu ghe n’é âtre nu ghe n’é

Guardate che bella colomba è abituata a cantare in allegria
che io non la debba mai vedere stentare in un altro nido
non ce n’è non ce n’è / non ce n’è non ce n’è

Pretendente:
A tegnio à dindanàse suttà ‘n angiou de melgranâ
cù a cua ch’ou l’ha d’â sèa â man lingèa d’ou bambaxia
Duv’a l’é duv’a l’é / duv’a l’é duv’a l’é

La terrò a dondolarsi sotto una pergola di melograni
con la cura che ha della seta la mano leggera del bambagiaio
dov’è dov’è dov’è dov’è dov’è

Padre:
Zuenu ch’âei bén parlòu ‘nte sta seian-a de frevâ

Giovane che avete ben parlato in questa sera di febbraio

Pretendente:
A tegnio à dindanàse suttà ‘n angiou de melgranâ

La terrò a dondolarsi sotto una pergola di melograni

Padre:
Saèi che sta cumba à mazu a xeuâ d’â më ‘nt â vostra câ

Sappiate che questa colomba a maggio volerà dalla mia nella vostra casa

Pretendente:
Cu ‘â cua ch’ou l’ha d’â sea â mân lingea d’ou bambaxia
Nu ghe n’é âtre nu ghe n’é / nu ghe n’é âtre nu ghe n’é

Con la cura che ha della seta la mano leggera del bambagiaio
non ce n’è altre non ce n’è / non ce n’è altre non ce n’è

Coro:
A l’e xëuâ â l’é xëuâ / a cumba gianca
de noette â l’é xëuâ / au cian d’â sâ
A truvian â truvian / â cumba gianca
de mazu â truvian / au cian d’ou pan.

E’ volata è volata la colomba bianca
di notte è volata a pian del sale
La troveranno la troveranno la colomba bianca
di maggio la troveranno a pian del pane

Duv’a l’é duv’a l’é / ch’â ne s’ascunde
se maia se maia / au cian dou pan
cum’a l’é cum’a l’é / l’é cum’â neie
ch’â ven zu deslenguâ / da où rià.

dov’è dov’è che ci si nasconde
si sposerà si sposerà a pian del pane
Com’è com’è è come la neve
che viene giù sciolta dal rio

A l’e xëuâ â l’é xëuâ / a cumba gianca
de mazu â truvian / au cian d’â sâ
Duv’a l’é duv’a l’é / ch’â ne s’ascunde
se maia se maia / au cian dou pan

E’ volata è volata la colomba bianca
di maggio la troveranno al pian del sale
dov’è dov’è che ci si nasconde
si sposerà si sposerà al pian del pane

Cùmba cumbétta / beccu de séa
sérva à striggiùn c’ou maiu ‘n giandùn
Martin ou và à pë / cun’ l’aze deré
foegu de légne anime in çé.

Colomba colombina becco di seta
serva a strofinare per terra col marito a zonzo
Martino va a piedi con l’asino dietro
fuoco di legna anime in cielo.

(cit testo completo di “A Cumba” di F. De André e I. Fossati).

“La Guerra è la lezione…

… della Storia che o popoli non ricordano mai abbastanza”.

In Corso Aurelio Saffi, superato il palazzo della Questura, s’incontra un particolare ed evocativo edificio dello stesso stile che rimanda all’architettura razionalista del ventennio fascista: si tratta infatti della costruzione a tutti nota come “La Casa del Mutilato” eretta nel 1937 dall’architetto Fuselli ed inaugurata nel maggio dell’anno successivo alla presenza del Duce in persona (durante quella stessa visita genovese inaugurò anche l’ospedale pediatrico Giannina Gaslini).

“Discorso d’inaugurazione del Duce nel Maggio 1938”

La struttura era stata concepita per ospitare l’Associazione Nazionale Mutilati ed Invalidi di Guerra ma in realtà, come ci ricordano le varie targhe affisse all’ingresso, è stata sede anche di: Associazione nazionale combattenti e reduci, Associazione nazionale mutilati in servizio, Associazione nazionale famiglie caduti e dispersi in guerra, Associazione nazionale vittime civili di guerra, Associazione nazionale Cavalieri dell’ordine di Vittorio Veneto, e Anpi.

Soldati repubblichini e partigiani in qualche modo uniti, purtroppo, dalle brutture della guerra, hanno trovato asilo sotto lo stesso tetto. Con il trascorrere degli anni certi avvenimenti sono caduti nell’oblio e la struttura ha mutato pelle passando dalla vocazione sociale e civile a quella culturale prima e commerciale poi.

“Le ben delimitate decorazioni esterne”. Foto di Leti Gagge.

Dentro alle sale affrescate da Giuseppe Santagata e illuminate dalle sue suggestive vetrate si sono succeduti un cinema il Ritz, un noto Jazz Club il Lousiana, e oggi un risto pub.

“Ingresso della Casa del Mutilato”. Foto di Leti Gagge.

Io da ragazzo abitavo nella stessa via e il palazzo faceva parte del mio tragitto quotidiano verso la scuola da me frequentata, il Liceo D’Oria. Ricordo che dell’edificio mi avevano colpito diversi aspetti: il suo disegno a bande marmoree bianco nere proprio come le chiese o i palazzi delle antiche e nobili famiglie genovesi, il primo.

La Casa del Mutilato infatti è suddivisa in due ali di cui la prima caratterizzata dall’alternanza del marmo bianco di Carrara e di quello scuro di Levanto, bianca monocroma, l’altra.

Sul cornicione della prima è scolpita la frase: “Il sacrificio è un privilegio di cui bisogna essere degni”.

“La statua della Vittoria di Guido Galletti”. Foto di Leti Gagge.
“La statua vista da un’altra prospettiva”. Foto di Leti Gagge.

La presenza di due statue una delle quali, la seconda, esposta quasi in disparte. Se infatti la dea alata della Vittoria armata di spada di Guido Galletti, sorveglia l’ingresso principale, quella di Eugenio Baroni (in realtà un bozzetto) è relegata di lato.  Una scultura quest’ultima rappresentante il Monumento al Mutilato dedicata a tutti i caduti della Grande Guerra che immortala una scena dal significato assai tragico: un fante esausto sorretto da una parte da una magra ed anziana signora incappucciata e dall’altra da un soldato che gli indica con un braccio mutilo di mano, l’avvenire di sofferenza che ha davanti.

“Il complesso scultoreo del Mutilato di Eugenio Baroni”. Foto di Leti Gagge.
“Primo piano delle statue in cui risaltano i volti allucinati”. Foto di Leti Gagge.
“Cannone della Grande Guerra”. Foto di Leti Gagge.

A questa statua è legato anche un piccolo ricordo personale che riguarda mio nonno materno insieme al quale, a volte, mi soffermavo ad ammirane le fattezze. Dietro di essa c’era un grande cespuglio di alloro dal quale raccoglieva le foglie e qualcuna, oltre che finire meno eroicamente nell’arrosto o nel polpo della nonna, la deponeva sul basamento. Non c’era bisogno di parole o spiegazioni del mio avo per capire l’intensità che quell’immagine sapeva sprigionare.

Infine la terza, la più importante, la scritta, o meglio il motto scolpito nella facciata, tra due teste di medusa che recita “La Guerra è la lezione della Storia che i popoli non ricordano mai abbastanza”. Un monito concepito dal presidente dell’Associazione Mutilati ed Invalidi di Guerra Carlo Delcroix.

Una lezione valida e attuale ancora oggi che, Benito Mussolini, non pago delle nefaste campagne colonialiste in Africa, evidentemente non sarebbe stato in grado di fare propria.

Di lì a poco infatti avrebbe ricondotto nuovamente il Paese in guerra.