Percorrendo Via Ravecca, giunti quasi all’altezza di Piazza Sarzano, si trova il Vico del Dragone, un caruggio come tanti, il cui toponimo fornisce però curiosi spunti narrativi.
I membri della famiglia Dragoni o Dragone, di origine umbra, si distinsero come valorosi cavalieri gerosolimitani durante le crociate e per questo, sul loro scudo, potevano esibire con legittimo orgoglio le insegne con tre teste di drago. Numero di teste che venne ridotto a una sola adagiata sul corpo di una colomba da Confidato Dragoni sostenitore, prima dell’Imperatore, e poi di Papa Innocenzo II.
Secondo un’altra versione l’origine dell’etimo del caruggio deriverebbe invece dalla presenza in loco dei Draconari. Costoro erano portatori di labari con sopra dipinti dei dragoni simbolo dell’eresia. I membri di questa misteriosa confraternita non solo partecipavano a processioni e a riti esoterici ma accompagnavano anche le spedizioni militari.
In Vico Dragone 43r. si può ammirare una cornice lineare in stucco completamente vuota del cui dipinto una volta esposto all’interno non sono riuscito a trovare notizie.
Pochi metri più in là è affissa un’ottocentesca lapide che recita:
“Nacque in questa casa, il VI gennaio MDCCCXX Francesco Bartolomeo Savi carcerato per tentativo del 1857 prode dei Mille apostolo della fede mazziniana sino alla morte XXX marzo MDCCCLXV nel vigesimo anno di Roma liberata il Circolo del pensiero”.
“Armi e divise garibaldine presso il Museo Risorgimentale”.
Bartolomeo Savi fu insieme a Nino Bixio uno dei fondatori della Società del Tiro a Segno della Foce che, sotto questa copertura, era il centro di reclutamento delle camicie rosse. Alcune sue lettere private e indirizzate all’eroe dei due mondi sono custodite presso l’archivio del Centro Sociale di Storia Sociale di Palazzo Ducale. La sciabola e il ritratto del valoroso combattente garibaldino sono conservati presso il Museo del Risorgimento, la Casa di Mazzini in Via Lomellini.
Bartolomeo fu anche animatore dell’organizzazione operaia e tra i fondatori del giornale mazziniano “Italia e Popolo”; partecipò al fallito moto insurrezionale genovese del 1857, a causa del quale finì in carcere. Beneficiato da un’amnistia si arruolò nelle file dei Carabinieri genovesi come luogotenente del comandante Antonio Mosto; partecipò alla spedizione dei Mille durante la quale rimase ferito a Calatafimi; sfruttò la sua attitudine di cronista occupandosi di inviare al giornale “Unità d’Italia” accalorate corrispondenze di guerra. Seguì Garibaldi fino al giorno che, dopo l’Aspromonte, tutto gli parve falsato. Malato e depresso, di lì a poco, tediato della vita si uccise sparandosi un colpo alla testa.
Il giornalista garibaldino riposa in pace, poco distante dal suo Generale, Boschetto Irregolare del Cimitero Monumentale di Staglieno.
In copertina: vico Dragone. Foto di Stefano Eloggi.
Nella centralissima Piazza Banchi si trova una delle chiese più amate e, senza dubbio alcuno, particolari di Genova. Fra le tante peculiarità di questo edificio religioso, appartenuto alla Repubblica e non alla Curia, assai suggestiva è quella legata alle vicende di una curiosa statua in gesso (calco servito per una fusione in bronzo). Di paternità ignota, la scultura, collocata nella cappella di destra, è stata trovata con le mani fortuitamente spezzate, nel magazzino di un marmista. Una volta restaurata è stata associata ai devoti versi della preghiera dell’anonimo fiammingo del XV secolo: “Cristo non ha mani – ha soltanto le nostre mani – per fare oggi le sue opere”. L’opera nota appunto come “Il Cristo senza mani”, oggi fa bella mostra di se valorizzata da un’appariscente drappo rosso che gli fa da scenografica quinta.
Cristo non ha mani,
ha soltanto le nostre mani
per fare oggi le sue opere
Cristo non ha piedi,
ha soltanto i nostri piedi
per andare oggi agli uomini.
Cristo non ha voce,
ha soltanto la nostra voce
per parlare oggi di sé.
Cristo non ha forze
ha soltanto le nostre forze
per guidare gli uomini a sé.
Noi siamo l’unica Bibbia
che i popoli leggono ancora.
Siamo lì’unico Vangelo
scritto in opere e parole.
Davanti all’Ospitale di San Giovanni di Prè, a tutti noto come Commenda, sono affisse due targhe a ricordo di altrettanti illustri soggiorni. La prima rammenta la sosta di Papa Urbano V dal 13 al 20 maggio 1367, durante il suo viaggio di rientro da Avignone. La seconda, la permanenza di oltre un anno, tra il 1385 e il 1386, del Pontefice Urbano VI.
Quest’ultimo, fuggito dal castello di Nocera dove era assediato dalle truppe di Carlo III, re di Napoli, si era rifugiato a Genova portando con sé come prigionieri alcuni cardinali che avevano congiurato contro di lui. Costoro proprio alla Commenda saranno giustiziati nel dicembre 1385 (o nel gennaio 1386) e sepolti in un luogo prossimo alla chiesa. I loro resti furono rinvenuti nel 1829 durante lavori in un terreno adiacente al complesso.
Re Carlo scomunicato dal Papa aveva promesso una lauta ricompensa di 10000 fiorini a chi glielo avesse consegnato vivo o morto.
Intanto a Genova il Doge Antoniotto Adorno si stava arrovellando nel tentativo di trovare il modo di riscattare la Superba ancora scossa dalla recente sconfitta veneziana di Chioggia sancita dall’insoddisfacente Pace di Torino del 1381.
Antoniotto fece una scelta coraggiosa allestendo una flotta di dieci galee, ma non per catturare Urbano VI e consegnarlo all’imperatore, bensì per condurlo a Genova sano e salvo e salire così agli onori del mondo. L’audace impresa venne affidata al fratello Raffaele che imbarcò il Santo Padre insieme a nove illustri prigionieri e, nel settembre 1385, fece ritorno in patria.
Rifugiatosi così a Genova il Papa venne accolto con tutti gli onori ed ospitato, per sua stessa richiesta, presso la Commenda che diverrà la sua residenza ufficiale per oltre 15 mesi. Urbano VI aveva scelto l’edificio dei cavalieri gerosolimitani per potervi tenere incarcerati i cardinali ritenuti traditori, per cinque dei quali, di lì a poco, avrebbe emanato la sentenza di morte.
Il Doge sperava con questa operazione, oltre che di far riguadagnare prestigio alla sua Repubblica, di incrementare il flusso di pellegrini e godere del relativo giro di affari che ne sarebbe conseguito. Speranze disilluse perché il Vicario di Cristo non solo non si prestò ad iniziative o manifestazioni pubbliche, ma anzi si barricò nella Commenda uscendone solo quando, sollecitato dal Doge stesso che gli fornì due galee, riparò a Lucca.
I benefici ottenuti da questa impresa, soprattutto se comparati al costo del mantenimento del Papa e della sua corte a carico del Doge, furono davvero irrisori per la Repubblica di San Giorgio: di fatto quantificati nel solo acquisto del mercato di grano di Corneto commutato in piccoli feudi ecclesiastici sottratti ad Albenga e Savona e Noli.
Inoltre l’eco per il crimine commesso non era stato accettato per nulla di buon grado dall’oligarchia genovese che aveva dunque esercitato pressioni sul governo affinché il Papa venisse allontanato dalla città.
Leggenda narra che la notte dei morti il sangue di quell’efferato delitto riaffiori sul millenario pavimento dell’ospitale ma di leggenda appunto si tratta perché in realtà i prelati furono si giustiziati ma non passati a fil di lama nelle segrete di San Giovanni, bensì impiccati sulla scogliera del Molo.
In copertina: Il Campanile della Commenda. Foto di Leti Gagge.
Quando nel parco di Villa Imperiale Scassi venne edificato lo stadio del Comune di Sampierdarena. Venne inaugurato nel 1920 in occasione di un derby amichevole tra i padroni di casa della Sampierdarenese e l’Andrea Doria terminato con il risultato di 4-1.
quando, oltre alla Sampierdarenese che vi disputò i suoi primi 8 campionati nella massima serie nazionale, il terreno di gioco venne utilizzato anche dalla Dominante.
L’impianto sportivo ebbe tuttavia vita breve poiché, per fare spazio all’attuale via Antonio Cantore, fu chiuso nel 1928.
Per via delle sue tribune di legno, che gli conferivano un’aria molto british, Villa Scassi poteva ospitare al massimo 5 000 spettatori stipati come in una scatola di sardine o, come amavano dire gli indigeni, di pillole. “A scàtoa de pìloe” fu infatti il soprannome con cui i sampierdarenesi presero a chiamare affettuosamente, e in maniera molto pragmatica, l’impianto.
Sulla collina d’Albaro dove un tempo si sviluppavano orti e giardini si trova la scenografica scalinata, realizzata nei primi del Novecento in stile liberty, intitolata a Giorgio Borghese. Concepita su quattro livelli presenta anche dei locali chiusi che, nel progetto iniziale, avevano solo una funzione puramente estetica e che oggi sono in attesa di essere riqualificati.
Su una targa c’è scritto «Scalinata Giorgio Borghese, genovese, secolo XVIII, tra i fondatori e primo cittadino della capitale uruguagia di Montevideo».
Dal rapallese eroe dell’indipendenza uruguaiana lo sguardo volge verso Piazza Tommaseo dove si staglia la statua di un altro rivoluzionario sudamericano, il generale Manuel Belgrano, rappresentato a cavallo nell’atto di guidare alla carica i suoi soldati. Manuel, di origine onegliese, fu un avvocato, uomo politico e d’armi, padre della patria argentina. A lui si deve la creazione della bandiera “albiceleste”. Il drappo consiste in due bande esterne azzurre con una bianca centrale, i colori con cui sono tradizionalmente raffigurate le vesti della Madonna. Al centro campeggia il logo del Sol de Mayo (divinità indigena) a ricordare la rivoluzione del maggio 1810 da lui ordita. Il monumento, opera di A. Zocchi, fu regalato ai genovesi dagli argentini in segno del perenne legame fra i due popoli (basti pensare alle vicende della fondazione della Boca). La maestosa scultura venne inaugurata nel 1927 alla presenza delle autorità , del re d’Italia Vittorio Emanuele e di Benito Mussolini.
AL
GENERALE
MANUEL BELGRANO
GLI
ITALO-ARGENTINI
MCMXXVII
(nella prima targa sottostante)
MANUEL BELGRANO
FIGLIO DI LIGURE UNA VITA DEDICATA
ALL’INDIPENDENZA DELL’ARGENTINA
PREMONITORE DI UN PROCESSO DI
ITALIANIZZAZIONE, CREO’ UN LEGAME
DI PROFONDA FRATELLANZA.
AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA ARGENTINA
20 GIUGNO 1988
(nella seconda targa)
ACADEMIA BELGRANIANA
DE LA REPUBLICA ARGENTINA
HOMENAJE AL
GRAL. DON. MANUEL BELGRANO
EN EL CINQUENTENARIO DE LA
INAUGURACION DE SU
ESTATUA ECUESTRE EN GENOVA
BUENOS AIRES – 1924 – 12 DE OCTOBRE DE 1927
(nella terza targa)
HOMENAJE DE LA ACADEMIA BELGRANIANA
DE LA REPUBLICA ARGENTINA
Y DEL LICEO MILITAR GENERAL “SAN MARTIN”
AL GLORIOSO GENERAL MANUEL BELGRANO
PRECURSOR, LIBERTADOR, FUNDADOR
DE LA NACION ARGENTINA
Y CREADOR DE SU BANDERA
GENOVA, 18 DE ENERO DE 197[ ]
(nella quarta targa)
MANUEL BELGRANO
PATRIOTA ARGENTINO FIGLIO DI LIGURI
E SIMBOLO PERMANENTE A GENOVA
DELL’AMICIZIA ITALO-ARGENTINA
AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA ARGENTINA
CONSOLATO GENERALE DELLA REPUBBLICA ARGENTINA
10 – XII – 1993
(nella quinta targhetta)
MANUEL BELGRANO
CREATORE DELLA BANDIERA ARGENTINA
EROE DELLA LIBERTÁ E DELLA
INDIPENDENZA DELLA SUA PATRIA
LA FEDE CATTOLICA, LA LEGGE
GIUSTIZIERA, LA SPADA MISERICORDE
]O ALTO ESPONENTE DELLA SUA
PERSONALITÁ PER LA GLORIA DEL S[
]E ONORE DELLA SUA STIRPE GENOVESE
GENOVA 16 GENNAIO 19[
(a sinistra)
S. E. A.
POR LA TRADICION
INDUSTRIA Y ARTE
LIBERALES
Dalla scalinata Borghese la vista prosegue spegnendosi all’orizzonte nella prospettiva di Corso Buenos Aires, capitale di quell’Argentina della cui indipendenza Manuel Belgrano è stato uno dei principali artefici.
Quando Caricamento non era stata ancora offesa dalle bombe che l’avrebbero colpita il 22 ottobre del 1940… quando nemmeno il più scellerato dei palazzinari avrebbe potuto immaginare che, nel dopoguerra, al posto del fronte mare medievale di Sottoripa, avrebbero costruito un leviatano di cemento.
Quando la piazza voluta dai reali sabaudi fungeva da capolinea ferroviario per la tratta che collegava il porto della Superba direttamente con Torino.
Quando non era difficile intuire perché la piazza, centro di smistamento merci, avrebbe assunto a partire dal 1854 quel nome ma, solo dal 1893 sarebbe stata sorvegliata dalla statua di Raffaele Rubattino, l’armatore protagonista delle imprese garibaldine, eseguita dallo scultore Augusto Rivalta.
Quando la cinquecentesca Villa Lomellini Rostan non era ancora stata trasformata nella prestigiosa sede del Genoa CFC … quando una parte dei suoi variopinti giardini non aveva di conseguenza assunto le familiari sembianze del campo d’allenamento Signorini (dal 2005), un tempo Pio XII, in memoria dello storico capitano scomparso nel 2002 a causa della sla.
Costruita da Angelo Lomellini nel ‘500 fu abbellita nel tardo ‘700 dal doge Agostino Pallavicini con uno dei più importanti giardini all’inglese d’Europa. Architetture floreali talmente suggestive da risultare fonte d’ispirazione, nel secolo successivo, per Michele Canzio nella realizzazione di quelle, se possibile, ancora più sfarzose del parco di Villa Durazzo Pallavicini a Pegli.
Quando alla fine del Settecento la villa passò per via ereditaria alla famiglia, a cui deve il nome, Rostan e, a metà del ‘800, fu dotata di una cappella gentilizia dedicata a San Filippo Neri…
Quando sul finire dello stesso secolo divenne patrimonio degli ultimi e attuali proprietari, i marchesi Reggio.
Villa Rostan, impreziosita dal cinquecentesco ciclo di affreschi di Bernardo Castello che rappresenta le imprese di Coriolano, costituisce tuttora ineguagliabile quinta, degna cornice dell’aristocratico blasone del sodalizio calcistico più antico d’Italia.
… “E quando Roma ha voluto regalarsi una comoda via per passeggiare nel suo dominio e legarselo per l’eternità, è arrivato in quei luoghi il console Aurelio. Un console grasso e pieno d’ira che spingeva avanti a colpi di gladio, con la sapienza e la crudeltà che hanno come dote naturale i tracciatori d’imperi, un’altra immensa carovana cicalante di diecimila e più tra schiavi e picchettini e sterratori e camalli, operai e ingegneri, e puttane e bestie da soma e da sell, tutti quanti a ritmare per la parte che gli toccava l’infinita cantilena della strada che avanza. E la strada avanzava diritta, avendo per limite soltanto il lontano fiume Oceano, oltre tutte le montagne, i fiumi, le pianure, oltre tutte le genti e ancora oltre.
E quando arrivò alla valle degli Apui, al console fu fatto notare che affioravano, mal sepolti fra i cavezzi e le mortelle della prataglia, i resti di cinquemila suoi commilitoni e del collega console Marcello. Dolente e furioso alzò lo sguardo al cielo dei suoi dei di vendetta e incontrò quel poggio disperato da dove, a quattro zampe, c’era chi li stava spiando.
Egli fece compiere allora alla sua Via una complicata manovra a serpente che, deviando dal percorso stabilito, invadesse i bozzi dell’acquitrino, bonificando ogni eventuale traccia di invendicata ferita romana. Ci morirono in parecchi tra i suoi, nel tirar su tra la polta malarica un terrapieno che tenesse l’armatura di una via consolare destinata a durare per l’eternità, ma infine ci riuscì tronfio e testardo.
Terminata l’opera, fece rifare i calcoli a suo comodo per collocare proprio nel punto che poteva essere visto dalle tane di quel poggio, un bel cippo militare in pietra bianca di quelle montagne con sopra incise quattro C in maiuscolo monumentale. Mai una strada si era spinta così avanti nel mondo nero dei barbari.
La notte che l’opera fu finita fu posato il cippo, dall’alto del loro recinto ormai definitivamente inchiavardato, quel poco di gente che c’era, vedeva spandere dalla pietra cavata dai suoi monti una luce più candida della luna, una luce che confondeva il cielo e abbagliava ogni possibile cammino nella valle. E quel bagliore se lo indicavano muti a vicenda”.
Non tutti gli Apuani furono deportati. Alcune comunità sopravvissero ancora nel territorio montano, tanto che ancora nel 155 a.C. (ben 25 anni dopo le grandi deportazioni che evidentemente non erano state risolutive) gli Apuani capeggiavano una coalizione di Liguri sconfitta dalle legioni del console Marcello in una guerra che non deve essere stata secondaria. Infatti il console ebbe l’onore del trionfo e i cittadini romani di Luni ringraziarono il generale romano dedicandogli una colonna rituale che celebrava la vittoria sugli Apuani (la stele è stata rinvenuta da scavi archeologici nell’area di Luni).
Racconta Livio “… partì per primo Quinto Marcio per raggiungere il territorio dei Liguri Apuani. Mentre li inseguiva addentrandosi in gole nascoste, che essi avevano sempre usato come nascondigli e rifugi, giunto in una strettoia che i Liguri avevano già precedentemente occupato, finì con l’essere circondato in una posizione sfavorevole. Furono uccisi quattromila soldati (…) il console, appena uscito dal territorio nemico, volendo evitare che apparisse chiaramente di quanto le sue truppe si erano assottigliate, ripartì l’esercito in diverse zone del territorio pacificato. Ma non gli riuscì di impedire che quella sconfitta acquistasse una sua rinomanza, perché i Liguri chiamarono Salto Marcio il luogo in cui lo avevano messo in rotta”. Livio XXXIX,20.
Nel 186 a.C. i Liguri Apuani inflissero una grave sconfitta al console Quinto Marcio Filippo, ed alle sue legioni, dopo averle attirate nelle strette gole della zona. Furono uccisi non meno di 4.000 legionari ed il luogo del disastro fu quindi successivamente chiamato “Saltus Marcius”, forse l’attuale località di Marciaso (che deriverebbe da Martii Caesio), forse le strette gole sopra Seravezza, nel territorio del comune di Stazzema. Tra Pontestazzemese e Cardoso esiste ancora oggi un colle denominato “Colle Marcio”, con un probabile riferimento al “saltus Marcius” (salto nel senso di dislivello e Marcius dal nome del console romano), nome che secondo Tito Livio avrebbe preso la località a seguito della battaglia.
Questo insomma è l’anno di gloria degli Apuani che riescono a battere i Romani grazie ad un’imboscata. Comunque, dopo tante sconfitte, gli Apuani riescono finalmente a prendersi una rivincita prima della tragedia finale. Il coraggio e la fierezza di questo popolo che non scende a compromessi è davvero ammirevole.
I successi dei Liguri Apuani, però, furono di breve durata: tra il 180 a.C. ed il 179 a.C. gli Apuani sopraffatti vennero in gran parte deportati nel Sannio (Macchia di Circello), in due scaglioni ed anni successivi composti, se vogliamo dar credito alle cifre trionfalistiche di Tito Livio, di 40.000 e 7.000 individui per convoglio.
Nonostante la provvisorietà delle loro vittorie gli Apuani, uomini e donne, furono ricordati a lungo come valenti guerrieri dai romani e alcuni storici romani li descrivevano così: “Le donne combattono come gli uomini, spietate e feroci come fiere” e ancora, con riferimento alla sconfitta romana del 186 a.C., “si stancarono prima gli Apui di inseguire, che i romani di fuggire”. Ma i Romani erano destinati a tracciare un solco indelebile nella storia. Di lì a poco avrebbero dato la civiltà al mondo costruendo ponti, acquedotti e strade.
Strade come la via Aurelia l’antica via consolare iniziata, alla metà del III secolo a.C. dal console Gaio Aurelio Cotta, per congiungere Roma a Cerveteri e poi prolungata fino a collegare le nuove colonie militari sul litorale tirrenico.
Quel selciato puntellato di sampietrini sta lì a ricordarci questa meravigliosa storia scritta con il rosso scarlatto del sangue dei suoi eroici protagonisti, i nostrani Asterix ed Obelix che, forse, sarebbe meglio chiamare Albiorix (il dio celto ligure delle montagne) e Obelin.
In Copertina: Striscia di Asterix in lingua genovese.
Fin da bambino i fumetti di Asterix e Obelix sono stati patrimonio del mio immaginario, in particolare da quando mio padre, nella speranza di farmi appassionare al latino, materia nella quale deficitavo, me ne aveva persino regalato un volume nella lingua degli antichi romani. Al latino mi sono appassionato poco, in compenso molto di più alle avventure dei due eroi per i quali ho sempre, nonostante l’esilarante simpatia degli invasori romani, fatto il tifo.
Eppure questi personaggi sono realmente esistiti ma non erano Galli come nella striscia di René Goscinny e Albert Uderzo bensì Liguri montani, più precisamente Apuani fedeli alleati, al tempo delle guerre puniche, dei Cartaginesi. Al posto della misteriosa e corroborante pozione magica del Druido sorbita per combattere il nemico, mi sono immaginato i nostri eroi consumare abbondanti porzioni di basilico e di agliato pesto, magari spalmato sugli archetipi dei loro gustosi testaroli.
Roma caput mundi ha impiegato circa 250 anni per occupare quella terre e sfaldare la coriacea resistenza di quelle popolazioni, molto più coraggiose e indomabili rispetto a quelle di altre celebrate nazioni. Una vittoria sui Liguri era considerata talmente provvisoria e temporanea che nella Città Eterna venne coniata, a sottolinearne il carattere aleatorio, l’espressione “… come un Trionfo sui Liguri”.
Maurizio Maggiani nel suo celebre romanzo “Il Coraggio del Pettirosso” ne racconta magistralmente le vicende attingendo a piene mani dalle fonti di Strabone e Tito Livio:
“Era un popolo quello Apuo che abitava la valle di un dolce grande fiume, con molte fiumane che gli si precipitavano addosso dalle gole profonde di un giogo di montagne aguzze e franose. Le montagne erano bianche, di un marmo morbido e poroso che diventava d’oro scarlatto quando raccoglieva il sole basso del tramonto. La valle arrivava al mare per un’ampia piana, ricca di tutti gli umori necessari a far crescere le piante e gli animali. Erano un popolo di bestie, senza una città e senza una scrittura; per questa ragione non c’è mai stato nulla in nessun luogo che parlasse per loro. Né hanno mai voluto in qualsivoglia modo parlare direttamente ai rappresentanti dell’impero di Roma in caccia di nuovi possedimenti, quando, è come se li vedessi qui davanti a me, si sono presentati in pompa magna per chiedere il pegno del vassallaggio, cercando di spiegare a quelle teste di pietra il vantaggio che ne sarebbe derivato. Non hanno mai avuto idea di parlamentare o trattare. E questo lo dicono i cronisti di Roma. E dicono anche che è stata una gran follia non voler capire dove stava tirando il vento, una sciagura da addebitarsi al fatto che quel popolo non era di veri uomini, quanto piuttosto di mostri selvatici e indecifrabili. Allora si procedette come di consueto in queste faccende d’insubordinazione. Le legioni spianarono l’erba grassa della piana, i carri da guerra ararono la valle per tutta la sua lunghezza e i cavalli asciugarono le fiumane con la gran sete dei conquistatori.
Perché Roma non la ferma nessuno. Così che gli Apui si fecero ancora più lupi di com’erano e si issarono sulle montagne più impervie e resistettero. Durarono a guerreggiare 250 anni, ed è una cosa inaudita che possa essere successo. Avranno mangiato pane fatto con la farina macinata dalla pietra del marmo per poter durare così tanto, si saranno mangiati tra loro, o avranno sbranato i lupi loro cugini. O forse erano lupi, se è vero quel che dicono i Romani. Che un giorno piovvero a branchi da ogni lato del cielo sul grande accampamento fortificato alle pendici del Monte Caprione e fecero a pezzi cinquemila tra fanti e cavalieri. Rapinarono cento carri carichi di vettovaglie, e salmeria e bagasce a frotte, con il console Marcello nascosto fra le loro sottane dorate. E si sentivano i buoi mugghiare per il dolore di vedersi mangiati vivi. Cinquemila in un giorno solo: che gran inviperimento al senato di Roma e che rabbia.
E infatti non si badò a spese e di conseguenza gli stolidi Apui, gli abominevoli rigettatori della clemenza di Roma, vennero debitamente sterminati. Furono arsi i boschi, avvelenati i sorgivi, spazzolati i recessi e le tane con la striglia delle ottanta centurie del console Claudio, l’élite delle armi, lo scudo inflessibile della sacra difesa dell’impero. Ogni accorgimento fu approntato perché non rimanesse nessuno, non un bambino, una puerpera, un vecchio, che non fosse stato toccato dalla mano della vendetta. Per chi ne uscì vivo fu organizzato un convoglio in catene per consegnarlo, possibilmente con ancora un po’ di fiato nell’anima, alle miniere di rame del sannio, all’altro capo dell’Italia.
Bisognava averlo visto quel corteo di diecimila semi uomini che attraversava l’Italia tenuto per la catena. Che figliava, che si straziava di dolore, che avvizziva di rabbia, che cresceva e moriva, che forse faceva l’amore . E mangiava, dormiva e cagava sotto la scorta del trionfo di Roma. Spettacolo a imperitura memoria per tutte le genti che lo hanno visto passare per la durata di un anno e forse più, per la lunghezza di mille miglia e forse più”.
Quando a Cornigliano, al posto dell’odierna rimessa dei bus di Via S. Giovanni d’Acri, c’era il campo Littorio.
Lo stadio concepito dalla gerarchia fascista nel 1927 per ospitare le antenate della Sampdoria, Dominante e Liguria prima, Corniglianese e Sampierdarenese poi…
quando gli spalti potevano ospitare fino a 15000 spettatori e il suo terreno di gioco teatro di ben 17 campionati professionistici (11 di serie A. 5 di B, 1 di C).
La struttura, parzialmente distrutta dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, fu utilizzata per i primi tempi dalla neonata Sampdoria come campo di allenamento…
quando nel 1950 lo stadio era stato appena, l’anno successivo alla tragedia di Superga, intitolato Valerio Bacigalupo, portiere ligure del Grande Torino scomparso in quella tragica occasione…
quando, ormai obsoleto nel 1958, il Littorio venne definitivamente demolito per far spazio al deposito dei mezzi del Comune.