“Di Ritorno da un viaggio”…

Dietro una serie di gallerie

finalmente la luce del sole,

tanto viva,

che mi parve abbacinante.

L’aria entrava dai finestrini

a folate, tiepide e profumate.

Non più traccia di neve,

nè di bruma:

il cielo era un cobalto purissimo.

Il treno correva

tra le alte colline

ammantate di vigne,

ancora dorate dalle ultime foglie.

Intravedevo grandi onde turchine

che s’infrangevano allegramente

in bianca schiuma fra gli scogli.

Il treno sferragliava ora,

attraverso un sobborgo interminabile

in cui ogni tanto coglievo

un lampo abbagliante di mare turchese,

e bionde facciate di case assolate

dalle persiane verdi,

adornate con grappoli di mimose.

Poi la corsa rallentò

e voci gridarono: “Genova!, Genova!”

Foto di Leti Gagge.

… Quando c’era il Castello Raggio…

Quando sul promontorio di S. Andrea a Cornigliano, dove un tempo sorgeva la secolare badia benedettina, a fine ottocento sarebbe sorto per volontà dell’onorevole Raggio, l’omonimo castello. Fu commissionato all’architetto Rovelli, nelle cui intenzioni avrebbe dovuto essere costruito ad immagine e somiglianza del più celebre Castello Miramare di Trieste degli Asburgo.

“Lo sfarzoso salone d’ingresso impreziosito da una fontana con cariatidi”.

Quando, vista la sua spettacolare ed invidiabile posizione, era comprensibile perchè avesse cotanta ambizione.

La lussuosa dimora dell’imprenditore e uomo politico genovese, tra i più ricchi ed influenti del suo tempo, fu frequentata da facoltosi e illustri personaggi  fra cui il re Umberto I d’Italia con la regina Margherita di Savoia, la contessa Fiammetta Doria, il duca di Galliera, il principe di Napoli, il conte di Torino e il presidente del Consiglio di quell’epoca Giovanni Giolitti.

“Alle 17:50 del 14 aprile 1951 le mine innescate dagli artificieri producono il crollo del castello”

Quando, danneggiato in modo significativo dai bombardamenti della seconda guerra mondiale, il castello venne definitivamente abbattuto il 14 aprile 1951 per lasciare posto all’insediamento siderurgico dell’Italsider e al futuro aeroporto internazionale “Cristoforo Colombo”.

 

“Venite in Paradiso”…

Dalla spianata, dove un tempo sorgeva il temuto Castelletto, si gode senza dubbio del panorama più affascinante della città: sullo sfondo di una distesa di mare turchino si ha l’impressione di accarezzare con lo sguardo un tappeto di tetti d’ardesia.

Campanili che, come diceva Faber, “segnano il confine tra la terra e il cielo”, torri insolenti che sfidano il firmamento e palazzi da re, in una città che di re non ne ha mai voluti.

“L’ascensore di Castelletto”.

Davanti a cotanto spettacolo Giorgio Caproni compose la sua celebre lirica nella quale immaginava di salire in paradiso a bordo dell’ascensore che lì lo aveva condotto. Eh si perché Genova nell’immediato dopoguerra, con le macerie dei bombardamenti, proprio un inferno  doveva apparire. Un paesaggio desolato che mano a mano che il poeta completava la sua ascesa svelava la sua incomparabile bellezza tramutando l’inferno in paradiso.

“Lapide posta all’interno dell’ascensore”.

Costruito nel 1909, completamente in stile liberty (le cabine son state rifatte nel 2010 in occasione dei suoi cento anni), copre un dislivello di 57 metri, dalla spianata di Castelletto fino a piazza del Portello. Nella seconda strofa de “L’Ascensore” (1948) Giorgio Caproni verseggiava:

“Quando mi sarò deciso
d’andarci, in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto, nelle ore notturne,
rubando un poco
di tempo al mio riposo”.

“Suggestivo scorcio di paradiso”. Foto di Leti Gagge

E un inferno certamente era sembrata la Superba a Hermann Melville che così annotava nei suoi appunti nella primavera del 1857:

“La costa verso il sud. Un promontorio. Tutta Genova e le sue fortezze, la loro esterna solitudine. La desolazione, l’aspetto selvaggio delle valli che intercorrono sembrano fare di Genova la capitale e il campo fortificato di Satana; fortificato contro gli Arcangeli. Le nuvole che si addensano sui bastioni sembrano immaginarie. Sono andato sulla parte orientale del porto e ho cominciato il giro della terza linea di fortificazioni”.

“La Lanterna vista dalla spianata”. Foto Danilo Lo Re.

E nell’Inferno il Sommo Dante aveva collocato i genovesi: fra i traditori pose, infatti, Branca Doria ancor vivo, reo di aver fatto a pezzi il suocero Michele Zanchè per impossessarsi dei suoi possedimenti sardi.
Come racconta il Foglietta nei suoi resoconti il Poeta, giunto nella Dominante, “fu solennemente bastonato sulla pubblica via dagli amici e dai servi di Brancaleone.
Da questa offesa, non potendo il Sommo, vendicarsi con le mani, si vendicò con le parole e la penna”. Da qui la celebre invettiva scolpita nel Canto XXIII dell’Inferno, versi 151-153:
“Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogni magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?”.
Il “Ghibellin fuggiasco” prende inoltre a modello, dopo averla attraversata entrandovi da Lerici, l’aspra nostra terra, per descrivere la montagna del Purgatorio:
“Tra Lerice e Turbia la più diserta,
la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole ed aperta”.
(Canto III del Purgatorio, verso 49-51).

E se avesse ragione Faber nei versi di “Preghiera in Gennaio” dedicata all’amico Tenco, morto suicida?

“Venite in Paradiso
Là dove vado anch’io
Perché non c’è l’inferno
Nel mondo del buon Dio”…

“Dio di misericordia
Il tuo bel Paradiso
L’hai fatto soprattutto
Per chi non ha sorriso
Per quelli che han vissuto
Con la coscienza pura
L’inferno esiste solo
Per chi ne ha paura”.

Venite a Genova, venite in Paradiso!

“A l’è cheita ‘na bagascia in maa…”

sensa bagnase…

“Le prostitute non potevano entrare nel porto, o salire a bordo delle navi: avrebbero distratto i camalli o i marinai” (definizione tratta dal Dizionario Italiano Genovese).

 Per questo pratico motivo quando si ritiene che una cosa sia impossibile e che non possa mai accadere si dice: “Una prostituta è caduta nel mare (del porto) senza bagnarsi”. Eppure grazie ai proventi del loro operato Genova nel ‘600 come, oltre ai libri di storia, ci ricorda Faber in “A Dumenega”, si è costruita il molo nuovo:

“Quandu ä dumenega fan u gíu
cappellin neuvu neuvu u vestiu
cu ‘a madama a madama ‘n testa
o belin che festa o belin che festa
a tûtti apreuvu ä pruccessiún
d’a Teresin-a du Teresún
tûtti a miâ ë figge du diàu
che belin de lou che belin de lou

e a stu luciâ de cheusce e de tettín
ghe fan u sciätu anche i ciû piccin
mama mama damme ë palanche
veuggiu anâ a casín veuggiu anâ a casín
e ciû s’addentran inta cittæ
ciû euggi e vuxi ghe dan deré
ghe dixan quellu che nu peúan dî
de zeùggia sabbu e de lûnedì

“e u direttú du portu c’u ghe vedde l’ou
‘nte quelle scciappe a reposu da a lou
pe nu fâ vedde ch’u l’è cuntentu
ch’u meu-neuvu u gh’à u finansiamentu
u se cunfunde ‘nta confûsiún
cun l’euggiu pin de indignasiún
e u ghe cría u ghe cría deré
bagasce sëi e ghe restè”.

“Le signorine aspettano i clienti nei bassi della Maddalena”.

Le Bagasce che popolano la galleria di personaggi di De André non sono semplici comparse ma assurgono al ruolo di protagoniste assolute.

Il viaggio inizia con la bucolica fanciulla di “Carlo Martello ritorna dalla battaglia di Poitiers ” in cui…

“Veloce lo arpiona la pulzella
repente una parcella presenta al suo signor
“deh, proprio perché voi siete il sire
fan cinquemila lire, è un prezzo di favor”.
“E’ mai possibile, porco d’un cane,
che le avventure in codesto reame debban risolversi sempre con grandi puttane”.

Prosegue in “Via del Campo”, dove s’incontra…

“una graziosa
gli occhi grandi color di foglia
tutta notte sta sulla soglia
vende a tutti la stessa rosa.

Via del Campo c’è una bambina
con le labbra color rugiada
gli occhi grigi come la strada
nascon fiori dove cammina.

Via del Campo c’è una puttana
gli occhi grandi color di foglia
se di amarla ti vien la voglia
basta prenderla per la mano

e ti sembra di andar lontano
lei ti guarda con un sorriso
non credevi che il paradiso
fosse solo lì al primo piano”.

Continua poi con la pubblica moglie della” Città Vecchia” in cui

“una bimba canta la canzone antica
della donnaccia
quel che ancor non sai tu lo imparerai
solo qui fra le mie braccia

E se alla sua età le difetterà la campetenza
presto affinerà le capacità con l’esperienza
dove sono andati i tempi d’una volta, per Giunone
quando ci voleva per fare il mestiere
anche un po’ di vocazione?

Vecchio professore cosa vai cercando
in quel portone
forse quella che sola ti può dare
una lezione
quella che di giorno chiami con disprezzo
pubblica moglie
quella che di notte stabilisce il prezzo
alle tue voglie.

Tu la cercherai tu la invocherai
più d’una notte
ti alzerai disfatto rimandando tutto
al ventisette
quando incasserai delapiderai
mezza pensione
diecimila lire per sentirti dire
“micio bello e bamboccione”.

Abbandonati momentaneamente i caruggi si sale a S. Ilario per incontrare Maritza una bella istriana.

“La chiamavano bocca di rosa
Metteva l’amore, metteva l’amore
La chiamavano bocca di rosa
Metteva l’amore sopra ogni cosa.

C’è chi l’amore lo fa per noia
Chi se lo sceglie per professione
Bocca di rosa né l’uno né l’altro lei lo faceva per passione”.

Ma Fabrizio non si accontenta della cruda realtà e confeziona  un vestito per la sua “Marinella” del tessuto più prezioso, la dignità…

“Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra a una stella,

questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose.

“Fondi nei caruggi”.

Si vaga nella casbah di un qualunque porto mediterraneo il regno dell’esotica mulatta Jamina, la sultana delle bagasce…

“Lengua ‘nfeuga Jamin-a
Lua de pelle scûa
Cu’a bucca spalancà
Morsciu de carne dûa
Stella neigra ch’a lûxe
Me veuggiu demuâ
‘Nte l’ûmidu duçe
De l’amë dû teu arveà
Ma seu Jamin-a
Ti me perdunié
Se nu riûsciò a ésse porcu
Cumme i teu pensë

Destacchete Jamin-a
Lerfe de ûga spin-a
Fatt’ammiâ Jamin-a
Roggiu de mussa pin-a
E u muru ‘ntu sûù
Sûgu de sä de cheusce
Duve gh’è pei gh’è amù
Sultan-a de e bagasce
Dagghe cianìn Jamin-a
Nu navegâ de spunda
Primma ch’à cuæ ch’à munta e a chin-a
Nu me se desfe ‘nte l’unda

E l’ûrtimu respiu Jamin-a
Regin-a muaé de e sambe
Me u tegnu pe sciurtï vivu
Da u gruppu de e teu gambe”.

Un viaggio che termina con l’amaro in bocca sul lungomare di Bahia:

“E io davanti allo specchio grande
Mi paro gli occhi con le dita a immaginarmi
Tra le gambe una minuscola fica…

Nella cucina della pensione
Mescolo i sogni con gli ormoni
Ad albeggiare sarà magia
Saranno seni miracolosi

Perché Fernanda è proprio una figlia
Come una figlia vuol far l’amore.

E allora il bisturi per seni e fianchi
In una vertigine di anestesia
Finché il mio corpo mi rassomigli
Sul lungomare di Bahia…

Sul palcoscenico della mia vita

Dove tra ingorghi di desideri
Alle mie natiche un maschio s’appende
Nella mia carne tra le mie labbra
Un uomo scivola l’altro si arrende”.

Perché De Andrè in fondo, sapendo che le donne sono diamanti plasmate nel letame, riscatta e nobilita la figura della prostituta dipingendola con grande umanità…

“Mentre lui le insegnava a fare l’amore
lei gli insegnava ad amare”.

La Piazza dei sette dolori…

La Piazzetta dei Cambiaso deve il nome alla nobile famiglia proveniente da San Cipriano in Val Polcevera che ha dato alla patria due dogi e numerosi senatori. A questa schiatta appartiene anche il famoso Luca, il celeberrimo pittore cinquecentesco nato a Moneglia dove suo padre si era trasferito per sfuggire ai rastrellamenti delle truppe borboniche che, appunto, si erano accampate in Val Polcevera.

“L’altro scorcio della piazzetta!. Foto di Leti Gagge.

Lo spiazzo dei Cambiaso, nonostante l’inopportuna presenza, in un contesto così antico di una moderna edicola del XIX sec, costituisce tuttora un affascinante scorcio da far invidia a certi tanto decantati angoli parigini. Tale edicola plasmata nello stucco e dipinta con una Madonna Addolorata fu infatti posta in sostituzione di quella originaria, di cui non si ha più traccia e a cui si doveva il nome dello slargo una volta chiamato Piazza dei sette dolori o del Dolore.

La dimora che subì gravi danni durante i bombardamenti del 1942/43, come del resto gran parte dei palazzi attigui, è un piccolo scrigno dove sono custodite diverse preziose testimonianze:

“Palazzo Fattinanti, Cambiaso poi”. Foto di Leti Gagge.

ad esempio l’atrio del XVI sec. Palazzo Fattinanti, poi Cambiaso sede del teatro Hop Altrove, dal quale si accede al loggiato varcando un semplice portale marmoreo ornato da lesene con capitelli scolpiti con testine e al centro del trave un cartiglio vuoto.

“In primo piano il portone attorno al quale s’intuiscono i colori di un tempo”. Foto di Leti Gagge.

La famiglia Cambiaso fu ascritta al patriziato nel 1576 e fu probabilmente a partire da questa data che costoro si occuparono di abbellire il palazzo commissionando importanti opere agli artisti più in vista del tempo. Ciò che rimane della decorazione murale ad affresco pare infatti riferibile alla cerchia di Andrea Ansaldo (1584-1638) mentre quella a grottesche che adorna la volta dell’atrio e delle scale, nella quale si notano affinità con le decorazioni delle volte nel vicino Palazzo Imperiale, furono eseguite da Giovanni Battista Castello detto il Bergamasco (1525-1569) e ultimate appunto dall’Ansaldo.

Di notevole interesse risulta essere altresì un affresco di autore ignoto che raffigura una finestra aperta su di un tipico paesaggio della Genova tardo cinquecentesca.

“Lo scalone che conduce al loggiato con le volte affrescate dal Bergamasco e terminate dall’Ansaldo”. Foto di Leti Gagge.

La scala si snoda elegante ed è resa ancor più scenografica dagli affreschi delle volte e dalle colonne corinzie. I capitelli sono scolpiti con piccole cornucopie, fogliame, pissidi e piccole teste leonine. Sul capitello della colonna ad inizio scala è inciso lo stemma del casato.

“Atrio con ingresso al teatro e accesso allo scalone”. Foto di Leti Gagge.
“Il loggiato dell’atrio ripreso dall’alto”. Foto di Leti Gagge.
“Ancora le volte affrescate”. Foto di Leti Gagge.
“Particolari degli affreschi”. Foto di Leti Gagge.
“Il tratto iniziale dello scalone ripreso dall’alto”. Foto di Leti Gagge.

Durante alcuni lavori di ristrutturazione nel loggiato del primo piano sotto l’intonaco sono emersi pittoreschi brani di azulejos. Sul muro a fianco sono stati rinvenuti resti in pietra e laterizio dell’edificio originale e con essi un’interessante testimonianza di tubazioni in ceramica a trombette delle condotte dell’acqua, il tipico sistema genovese di ripartizione detto a ”piceda”.

… Quando in Via del Piano…

Quando in Via del Piano il greto del torrente era già occupato da baracche “abusive” che ospitavano piccole attività artigianali, capannoni adibiti a magazzini e improvvisati campi da bocce…

quando lo stadio non era ancora stato intitolato a Luigi Ferraris, caduto eroicamente durante la prima guerra mondiale e insignito della medaglia d’argento al valor militare…

quando al toponimo del luogo si associava dunque il nome del terreno di gioco, appunto, di “Campo di Via del Piano”…

quando il tratto ad esso adiacente non era ancora stato dedicato al leggendario  Giovanni De Prà, il portiere degli ultimi due scudetti, colui che orgogliosamente pronunciò ai sabaudi, con le accorate e oggi dimenticate parole, “il gran rifiuto”: “Grazie per la stima accordatami – rispose a Edoardo Agnelli, presidente della Juve – ma io sono genovese e genoano e non posso giocare in altre squadre che non siano il Genoa”.

“Ho sceso dandoti il braccio…”

Nel quartiere di Carignano alla confluenza fra Corso Podestà e Via Mura di S. Chiara scende la sinuosa ed elegante scalinata Camillo Poli. Uno spazio un tempo occupato dalle imponenti mura cinquecentesche del Prato, delle Cappuccine e di Santa Chiara, con i possenti bastioni che dominano la parte di Levante del centro affacciati sull’odierna Piazza della Vittoria.

“L’ultimo tratto della scalinata visto dal basso”. Foto di Leti Gagge.

Lo scalone è intitolato al medico piemontese di nascita, ma genovese d’adozione, fondatore dell’associazione genovese contro la tubercolosi (1905 – 1973) malattia della quale si occupò tutta la vita. L’opera venne costruita nell’ambito dei lavori di risistemazione di Piazza della Vittoria negli anni ’30 presentati da Marcello Piacentini, il progettista esponente di spicco dell’architettura razionalista. Questi la concepì in stile neo liberty con lo scopo di fornire un coreografico e aulico collegamento alla zona delle Fronti Basse della zona attigua al Bisagno, con la soprastante collina di Carignano.

La scelta della forma ellittica accentua il carattere neo barocco della composizione di chiara ispirazione romana. Tale geometria nel linguaggio propagandistico romano era destinato agli anfiteatri e, in genere, agli spazi celebrativi della magnificenza dell’impero;  ellittici sono i viali di circonvallazione attorno al monumento ai caduti; è pseudo ellittico il segno imposto su piazza Verdi per rendere più morbide le linee di uno spazio irregolare, geometrizzato dal rigore dei palazzi porticati, naturale prosecuzione di quelli di via San Vincenzo.

“L’inizio della discesa. Genova s’intravede sopra la ringhiera”. Foto di Leti Gagge.

A me che ho frequentato il quartiere per 25 anni, scendendo i gradini di Scalinata Poli, sovvengono gli struggenti versi della lirica di Eugenio Montale “Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale” (1967). Struggente come è il ricordo degli occhi cerulei di mia madre l’ultima volta che l’ho accompagnata per una visita al vicino Ospedale Galliera.

“Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale

e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino.

Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio.

Il mio dura tuttora, né più mi occorrono

le coincidenze, le prenotazioni,

le trappole, gli scorni di chi crede

che la realtà sia quella che si vede.

Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio

non già perché con quattr’occhi forse si vede di più.

Con te le ho scese perché sapevo che di noi due

le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,

erano le tue”.

“Scalinata Camillo Poli”. Foto di Leti Gagge.

… Quando presso la Chiappella c’era la Cava…

Quando era facilmente intuibile perché la Cava, la ferita sulla collina della Chiappella a forma di anfiteatro, si chiamasse così.

Quando l’enorme voragine alle spalle del Matitone non era ancora stata sanata da un’oscena colata di cemento.

Quando il colle venne sventrato in contemporanea a quello di San Benigno, per tracciare le nuove vie di Francia, Lungomare Canepa e Cantore volute dal Regime fascista per rendere più agevole il collegamento fra Genova e la delegazione di Sampierdarena, la “Manchester” italiana.

Per riutilizzarne i resti venne allestita una fabbrica di cemento adibita a fornire i materiali per la costruzione dei nuovi moli del bacino di Sampierdarena.

Quando i cantieri delle innumerevoli attività  messe in piedi conferivano al paesaggio un aspetto lunare e visionario come quello di un girone dantesco: rotaie, spaccapietre, ciminiere, indecifrabili strutture metalliche, polveri irrespirabili e, in nome del progresso, inquietanti trivelle e rumorosi macchinari ovunque.

Quando alla Cava c’era persino una centrale elettrica che serviva a fornire corrente alle ferrovie della linea portuale.

Quando, prima di assumere questa sua connotazione infernale, questo sito fu teatro, secondo una millenaria leggenda, di un epico scontro fra Lucifero e Gesù.

Storia di lepri… di case chiuse… di azulejos…

Anticamente nelle mappe la contrada era indicata come Piazza della Foglia a causa della presenza di una bottega di foglie di granoturco, meliga in lingua genovese, utilizzate per l’imbottitura dei pagliericci. Il toponimo mutò intorno al 1795 per via di una locanda esistente in loco dal 1774 rinomata per la preparazione di selvaggina e cacciagione.

Non è da escludere tuttavia il legame con il casato della famiglia Lepre che nel Medioevo aveva qui le sue proprietà. Il vicolo che inizialmente era la prosecuzione del Vico della Torre delle Vigne, solo nel 1864 assunse l’attuale denominazione rimasta legata nella toponomastica cittadina per la presenza fino al 1958 di una delle più apprezzate case di tolleranza della città.

“Il Portale in pietra nera del civ. 9”. Foto di Leti Gagge.

“Rivestimento in azulejos del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

Al civ. n. 9 si può ammirare lo splendido portale in pietra nera con medaglioni imperiali fra nastri svolazzanti del Palazzo Grimaldi Di Negro. La dimora che al suo interno custodisce una delle meglio conservate testimonianze di rivestimento, lungo le prime tre rampe di scale, in azulejos. La trave è ornata con due angeli alati che sorreggono uno stemma abraso a forma di cavallo. Oltre alle pissidi, nei sovra capitelli, si notano degli uccelli esotici, forse cicogne. Al vano scale, decorato con un paio di lapidi in pietra nera, si accede attraverso una cornice ad arco tondo del medesimo materiale con fregi di fogliame a spirale. La scala è adornata con colonne fornite di capitelli e con balaustre marmoree.

“Rampa di scale con pavimento in pietra nera e rivestimento in azulejos del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

“L’antica numerazione a sestieri”.

Vicino al portale in alto è ancora leggibile il numero 400 che ci riporta all’antica numerazione divisa in sestieri, antecedente quella ottocentesca introdotta dai Savoia che ancora oggi utilizziamo.

“Portone interno, ballatoio a rombi marmorei bianco neri e azulejos del civ. n.9”. Foto di Leti Gagge.

“Spettacolare rivestimento in azulejos del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

“Portale con i sovrastanti archi tamponati”.

Guardando verso l’alto, al livello del secondo e terzo piano, subito si notano i resti di archi in pietra bicroma successivamente tamponati e riempiti con finestre posticce. Fra queste risalta quella del primo in marmo con doppio arco tondo e colonnine con al centro il rilievo di una testa imperiale.

“Rampa di scale del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

“Portone e colonne del civ. n. 5”.

Anche l’accesso a Vico Lepre n. 5 è impreziosito da un altro portale marmoreo del XVI sec. con semi colonne ioniche scanalate. Sul trave, fra piccole cornucopie onuste di frutti e conchiglie, si affacciano due mascheroni ghignanti. Forse a ricordarci che i suoi abitanti erano signori della terra e del mare. Al centro campeggia il cartiglio che recita: “Qvodcvnqve Boni Egeris / Ad Devm Referto”.

Trad. “Riferisci a Dio qualunque cosa avrai fatto di bene”

“Suggestiva inquadratura di azulejos in primo piano e fra le colonnine della balaustra del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

E sicuramente bene svolgevano la loro professione le ragazze appunto del Lepre, la casa di tolleranza nota fra i suoi clienti anche con il poetico nome di “Casa dalle persiane chiuse”, che qui aveva sede.

“Decori in azulejos recentemente restaurati del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

“Ancora azulejos del civ. n. 9”. Foto di Leti Gagge.

Il centro storico fino all’abolizione delle case chiuse sancita dalla famigerata Legge Merlin pullulava di bordelli: ad esempio in vico Basadonne, vico delle Fate, vico Lavezzi, vico Spada e Vico dei Castagna frequentati dalla clientela più alla buona mentre il Lepre, pur non essendo lussuoso come il “Mary Noire” sito in San Luca, o alla moda come il “Suprema” (detto anche “Cebà” dal nome della via nel cuore della vecchia Portoria), godeva di un certo prestigio e, sicuramente, beneficiava di una privilegiata ubicazione. Oggi la piazzetta ospita, in una sorta di ritorno alle origini, una genuina trattoria ed un chiassoso ritrovo della movida notturna cittadina.

A vegliare sulla contrada, all’angolo fra piazza e vico, si trova infine, protetta da una grata, una settecentesca edicola in stucco con al suo interno la statuetta della Madonna con il Bambino.

In Copertina: Vico della Lepre. Foto di Stefano Eloggi.

… Quando a De Ferrari…

quando il 10 giugno 1940 alle ore 18 dal balcone di Piazza Venezia a Roma Mussolini dichiarava guerra a Francia ed Inghilterra…

quando una Piazza De Ferrari gremita fino all’inverosimile ascoltava infervorata il bellicoso discorso del Duce diffuso dall’Eiar, la radio di regime…

quando il Generale dall’alto del suo piedistallo, lui che di camicia indossava quella rossa, assisteva perplesso in sella al suo destriero…

“Combattenti di terra, di mare, dell’aria.

 Camicie nere della rivoluzione e delle legioni.

Uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del Regno d’Albania.

Ascoltate!

Un’ora, segnata dal destino, batte nel cielo della nostra patria.

L’ora delle decisioni irrevocabili.

La dichiarazione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bretagna e di Francia.

Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’Occidente, che, in ogni tempo, hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano…(omissis)

(omissis)…L’Italia, proletaria e fascista, è per la terza volta in piedi, forte, fiera e compatta come non mai.

La parola d’ordine è una sola, categorica e impegnativa per tutti.

Essa già trasvola ed accende i cuori dalle Alpi all’Oceano Indiano: vincere!

E vinceremo, per dare finalmente un lungo periodo di pace con la giustizia all’Italia, all’Europa, al mondo”.

quando né i genovesi né Garibaldi potevano immaginare che di lì a poco, dopo soli quattro giorni, Genova sarebbe stata la prima città colpita dai francesi…

e che la vuota retorica fascista si sarebbe sciolta come neve al sole…