Dagli archivi della Repubblica si evince che I biscotti del Lagaccio nacquero nel 1593 in un antico forno nelle vicinanze del bacino artificiale omonimo creato qualche decennio prima per volere di Andrea Doria. L’ammiraglio infatti necessitava di molto acqua per irrigare i giardini, i frutteti e le fontane della sua principesca dimora.
Nel secolo successivo in zona la Repubblica vi impiantò una polveriera per la fabbricazione, appunto, di polvere da sparo. Processo che necessitava anch’esso di copioso approvvigionamento idrico.
Sia il popoloso futuro quartiere che il gustoso biscotto nel ‘600 presero il nome dal toponimo dispregiativo che assunse, per via delle sue torbide e pericolose acque nelle quali affogarono diverse persone, il lago, definito appunto “U Lagasso”, il Lagaccio.
I bescheutti do Lagasso in origine erano delle semplici fette di pane, molto simili alle gallette del marinaio, biscottate bis- cotte, appunto cotte due volte, per facilitarne il processo di deumidificazione, caratteristica fondamentale richiesta dai marinai per meglio conservarle durante i viaggi in mare.
Con l’aggiunta di aromi o liquore all’anice (da qui anche gli anicini), burro e zucchero questi biscotti hanno trovato nel secolo scorso adeguata collocazione nell’ambito della tradizionale pasticceria secca mentre nel basso Piemonte si sono diffusi nella variante più leggera di biscotti della salute, più adatti alla prima colazione.
Ancora oggi i biscotti del Lagaccio costituiscono un prodotto tipico confezionato da diverse aziende alimentari locali molto apprezzato dai consumatori.
il bacino artificiale voluto dall’ammiraglio Andrea Doria intorno al 1540 per irrigare i giardini della sua prestigiosa villa
quando nel 1652, nelle sue vicinanze fu installata una fabbrica di polveri da sparo per rifornire le munizioni della Repubblica.
Il lago assunse il suo dispregiativo toponimo , “U Lagasso”, in genovese, già nel Seicento per via del suo torbido colore e dell’aspetto sinistro che assunse col tempo.
quando la polveriera, ampliata nel 1835, fu poi trasformata in caserma militare e sul lago ghiacciato d’inverno i bambini vi andavano a pattinare e d’estate a rinfrescarsi. Numerose, secondo le cronache, furono le vittime per annegamento.
quando diede il nome a partire dal 1593 anche al celebre omonimo biscotto che un piccolo forno produceva in loco e, più tardi, anche ad un intero quartiere.
quando negli anni ’70, dopo l’ennesima disgrazia, venne interrato e al suo posto edificato un campo da calcio intitolato a Felice Ceravolo l’ultima dodicenne vittima delle acque limacciose del lago.
… di una chiesa scomparsa… di un mobiliere… di dipinti di Van Dyck…
In una città che re e principi né ne ha mai avuti, né ne ha mai visti di buon occhio è quanto mai curioso che due dei principali musei siano a questi intitolati: Villa del Principe e Palazzo Reale. il Quest’ultimo in realtà si chiama Palazzo Stefano Balbi dal nome del facoltoso mecenate che lo fece, insieme all’omonima strada, costruire nella prima metà del ‘600.
La lussuosa dimora venne poi acquistata nel 1679 da un’altra nobile famiglia, quella di origine albanese, dei Durazzo che diedero incarico al prestigioso architetto Carlo Fontana, di ristrutturarla nella versione in cui, grosso modo, la possiamo ammirare ancora oggi.
Divenne Reale solo nel 1823 quando subentrarono i Savoia, nuovi indigesti signori della città dopo il frustrante Congresso di Vienna del 1815, che la elessero a loro residenza cittadina. Nel 1842 la famiglia reale incaricò lo scenografo genovese Michele Canzio di trasformare alcuni ambienti, come le sale del Trono e delle Udienze e il salone da Ballo, per adattarle alle nuove necessità di rappresentanza.
Fu allora che fu eretto, nella parte a mare, il Ponte Reale che, scavalcando la strada carrabile ( Via Carlo Felice, oggi via Gramsci),
permetteva ai Savoia di raggiungere, lontano da occhi indiscreti e al coperto, direttamente l’imbarcadero del porto. Il Ponte per la cui costruzione era stata demolita parte dell’attigua e secolare chiesa di S. Vittore, fu abbattuto nel 1964 in occasione della costruzione della sopraelevata.
Una parte della chiesa chiusa al culto venne inglobata nelle strutture del Palazzo Reale e una parte sacrificata per l’artificiosa creazione di Piazza dello Statuto. La navata destra fu invece immolata per l’allargamento di Via Carlo Alberto (1831-39), odierna Via Gramsci.
Entrambi i lati mutili sono stati “mascherati con facciate posticce di stile ottocentesco ancor oggi visibili mentre gli interni superstiti sono stati ristrutturati per ospitare locali del Palazzo Reale ed una caserma della Guardia di Finanza, da tempo trasferitasi altrove. Di originale a ricordarci del tempio scomparso e dell’abuso commesso rimane solitario il campanile che svetta fra i tetti e vigila sui giardini.
Gli arredi e le opere d’arte, come la celebre Madonna della Fortuna, vennero trasferite nella vicina S. Carlo che ne assunse anche il titolo chiamandosi da allora Chiesa di San Carlo e San Vittore.
Nel 1919 i Savoia donarono il palazzo allo Stato e venne così istituito il museo della galleria nazionale.
Varcato l’imponente portale si accede al cortile con l’arco di trionfo che separa il bel giardino pensile affacciato sulla Darsena del porto.
Assai particolare è il mosaico della pavimentazione in risseu proveniente dal distrutto Monastero delle Monache Turchine che si trovava sotto Corso Carbonara e Largo della Zecca. Come testimoniato da apposita lapide il risseu è stato risistemato da Armando Porta lo stesso splendido artista che avrebbe restaurato quello di Campo Pisano.
Al suo interno il Palazzo Reale conserva i mobili originali di tutta la sua secolare storia ed include mobili genovesi, piemontesi e francesi della metà del XVII secolo fino all’inizio del XX secolo. Tra questi meritano particolare menzione quelli del celebre ebanista britannico Henry Thomas Peters. L’artista aprì infatti a Genova un laboratorio proponendo il suo stile moderno e all’avanguardia. La sua raffinata produzione marchiata a secco “Peters Maker Genoa” divenne un tratto distintivo imitato per decenni dai mobilieri locali.
Fra i numerosi e pregevoli affreschi sono da ricordare “La fama dei Balbi” di Valerio Castello e Andrea Seghizzi,” La primavera che spinge lontano l’inverno“ di Angelo Michele Colonna e Agostino Mitelli e “Giove che manda giustizia sulla Terra” di Giovanni Battista Carlone.
Nelle sale dei due piani nobili sono inoltre esposti circa 200 dipinti dei migliori artisti genovesi del Seicento come Bernardo Strozzi, il Grechetto, Giovanni Battista Gaulli detto il Baciccio, Domenico Fiasella insieme a capolavori di Bassano, Tintoretto, Luca Giordano, Simon Vouet, Guercino e Antoon Van Dyck del quale si possono ammirare due capolavori assoluti: il “Ritratto di Dama” e il “Crocefisso”.
Adeguato risalto e spazio viene anche dato alla scultura grazie alla presenza di opere di Filippo Parodi, uno dei massimi esponenti della scultura barocca genovese.
Il Museo, aperto al piano nobile, presenta una serie di eleganti ambienti decorati e arredati nel Settecento dalla famiglia Durazzo. Appartengono al XVIII secolo la Galleria degli Specchi, la Sala di Valerio Castello (il pittore autore degli affreschi) e la Galleria della Cappella. Risalgono invece all’epoca dei Savoia la Sala del Trono, la Sala delle Udienze, il Salone da Ballo.
La galleria degli Specchi in particolare costituisce veramente un gioiello di eleganza e sfarzo in cui spiccano quattro statue (Giacinto, Clizia, Amore o Narciso, Venere) di Filippo Parodi e un gruppo marmoreo (Ratto di Proserpina) di Francesco Schiaffino.
Fatta costruire dai Durazzo decorata a fresco 1730 da Domenico Parodi con statue romane e affreschi metaforici sulle virtù e sui vizi. Sullo sfondo risalta il “Ratto di Proserpina” di Francesco Schiaffino.
Quando a Nervi in Via Donato Somma c’era lo stabilimento che confezionava le cartine Job particolarmente apprezzate dai fumatori per la loro caratteristica di bruciare più lentamente rispetto alle altre. Da qui la Job si trasferì sempre nel quartiere di Nervi in Piazza Duca degli Abruzzi nella struttura oggi riconvertita in stazione di polizia.
Al suo posto s’insediò prima la fabbrica di caramelle Galenia S. A che ebbe anche l’onore di ricevere il Duce durante una delle sue visite genovesi e, negli anni ’50/60, il premiato Pastificio Cassanello.
I solidi contorni del condominio che lo hanno sostituito ne custodiscono il labile ricordo.
Era prassi consolidata nei giardini privati delle ville patrizie di costruire grotte artificiali e ninfei con giochi d’acqua e fontane.
I nobili le commissionavano, ad imitazione delle antiche domus romane, per trascorrervi qualche momento di sollievo al riparo dalla calura estiva o per immergersi in solitaria lettura accompagnati dal bucolico scorrere delle acque. Spesso le nobildonne vi si intrattenevano con le dame di compagnia mentre si dedicavano ai loro passa tempo preferiti.
A Genova questa moda di costruire caverne artificiali ebbe gran successo ed è per questo che se ne possono ammirare ancora diversi esemplari: quella di Villa Pallavicini a Pegli, di Palazzo Lomellino in Via Garibaldi o quella di Palazzo Balbi Senarega, decorata quest’ultima con statue in stucco, marmi e conchiglie.
Di certo la più celebre rimane però quella del giardino settentrionale della Villa del Principe (Palazzo Doria), realizzata da Galeazzo Alessi a metà del Cinquecento..
Citata addirittura dal Vasari nell’elenco delle opere del capitolo sulla vita dell’Alessi risulta essere oltre che la più antica grotta genovese, senza dubbio la più spettacolare e affascinante, con una vicenda assai travagliata da raccontare.
Venne infatti commissionata a metà ‘500 al celebre architetto perugino da un certo “Capitan Lercaro”, membro di una famiglia di luogotenenti di Andrea Doria, i Doria Galleani, che abitavano nella vicina – e perduta – villa del Gigante proprio nei pressi del luogo dove dal 1566 sorgeva l’omonima statua dell’ammiraglio.
La villa e il terreno con relativa grotta vennero acquistati nel 1603 da Giovanni Andrea Doria ed entrarono così a far parte del parco della Villa del Principe.
Ma a causa del progressivo inurbamento della sovrastante collina nei secoli passati fu dimenticata e trascurata. Già lo storico ottocentesco Federico Alizeri ne denunciava allibito il degrado, descrivendola come deposito di fascine dei contadini della zona.
Ad inizio Novecento fu addirittura trasformata nella cantina di un condominio, danneggiata poi durante un bombardamento durante la seconda guerra mondiale, fu riscoperta negli anni Ottanta (1984) grazie alla determinazione del prof. Lauro Magnani. Questi, nella speranza che esistesse ancora e conoscendo la sua ubicazione originale, prima di trovarla, girò il nuovo quartiere sorto in quell’area alla disperata ricerca d’informazioni, finché ottenne notizie e riscontri da un’ignara condomina proprietaria, senza saperlo, della secolare grotta nascosta nella sua cantina.
Lo studioso si adoperò perché le istituzioni si attivassero per salvaguardare quell’incredibile patrimonio storico e artistico non riuscendo, a causa della mancanza di fondi e del disinteresse della burocrazia, nel suo nobile intento.
Chi la dura la vince e per fortuna il professore salvò il tesoro convincendo nel 1999 la famiglia Doria Pamphilj ad acquisire l’appartamento a cui era legata la proprietà della cantina-grotta che oggi è visitabile, previa prenotazione, nell’ambito dei percorsi guidati del Palazzo del Principe.
Dietro al Miramare varcato un piccolo cortile si apre davanti alla favolosa grotta: pianta ottagonale, pavimento in marmi policromi. Alle pareti non c’è limite alla fantasia dei mosaici polimaterici, con cui si realizzano temi classici: cristalli, coralli, tessere di maiolica colorate e migliaia di conchiglie di ogni forma e tipologia. Non c’ è uno spazio liscio, intorno. Le figurazioni del Nilo, del Tevere, come vecchi dal cui otre sgorgano le acque. L’intera superficie della grotta, tranne i pavimenti rivestiti di marmo, è incastonata di decorazioni in conchiglie, coralli, tessere di maiolica, ciottoli, cristalli e frammenti di stalattiti naturali: un mosaico composto in più materiali di eccezionale ricchezza, che riesce a mescolare natura ed artificio donando all’intera grotta un aspetto acquatico. Sul fondo, si apre la grotta naturale, con stalattiti e stalagmiti dove dal 1550 sgorga ancora l’acqua, attinta chissà dove, e canalizzata, chissà come, fino a qui. Originalmente, sulle figure di coralli e pietre scendevano rivoli d’acqua che tintinnavano. Adesso l’effetto è perduto. Il vano è chiuso, in alto, da una cupola a spicchi: sono rappresentate figure mitologiche legate a Nettuno (rappresentazione metaforica di Andrea Doria).
Questo anche perché l’acqua, nella grotta, scorre davvero sulla superficie della profonda nicchia aperta sul lato di fronte all’ingresso, mentre anticamente stilava dall’alto nei bacini posti sotto le varie nicchie minori. Tutti gli episodi rappresentati sulle pareti della grotta sono di soggetto e ambientazione marina: Polifemo sullo scoglio, Galatea sulla conchiglia trainata dai delfini, il rapimento di Europa, Nettuno sul cocchio, Perseo mentre uccide il mostro marino che minaccia Andromeda, Peleo e Teti e il rapimento di Deianira.
Un mondo meraviglioso in cui i gli eroi qui rappresentati come direbbe Platone …” se uscissero dalla caverna e vedessero le cose alla luce del sole si renderebbero conto di aver vissuto in un mondo di apparenze”.
(Il mito della caverna)
Quando, di fronte allo stadio Luigi Ferraris, c’era la conceria di cuoi e pellami Bocciardo fondata nel 1861 da Sebastiano Bocciardo.
Ormai dismessa venne acquistata nel 1977 dal Comune di Genova che il 1/9/97, dopo un ventennio di dibattiti e incertezze sul futuro impiego dell’area, la fece demolire.
Furono necessarie 850 cariche per un totale di oltre 130 kg di esplosivo applicate alla base dei piloni e in punti strategici per far accartocciare l’imponente, circa 60000 metri quadri, la struttura su se stessa.
Quando alle 18 e 14 in punto gli artificieri la fecero implodere cancellando definitivamente un pezzo di storia dell’imprenditoria genovese.
Quando nella seconda metà dell’ottocento non c’era ancora Via XX Settembre per la cui costruzione, a fine secolo, vennero demolite alcune cappelle della chiesa di S. Stefano.
Quando per l’allargamento ed il raddrizzamento della sede stradale fu sacrificata l’ala della chiesa prospiciente via XX Settembre che già era più piccola di quella opposta.
Quando sotto l’appassionata direzione dell’architetto Alfredo D’Andrade vennero ricostruiti sia la balconata antistante che il sottostante porticato.
Quando i lavori per lo smantellamento della Porta degli Archi avevano danneggiato le fondamenta della chiesa che di lì a poco sarebbe divenuta pericolante. Nonostante il tentativo di restauro da parte del celebre portoghese la chiesa fu di conseguenza dichiarata inagibile.
Quando si stabilì di lasciarla comunque al sul posto e di edificarle a fianco una nuova chiesa costruita anch’essa in stile romanico.
Quando inaugurata nel 1908 ebbe vita breve perché nel 1912 il crollo di una parte della vecchia chiesa danneggiò la nuova, rendendo anch’essa inagibile.
Quando, a completare l’opera, distruggendole entrambe, si adoperarono poi le bombe della seconda guerra mondiale.
Fu il Cardinale Siri nel dopoguerra a volere la ricostruzione della primitiva chiesa romanica i cui lavori, iniziati nel 1946 si conclusero con la consacrazione avvenuta l’11 dicembre 1955.
La sbira è un piatto povero della cucina genovese dalla tradizione plurisecolare che risale addirittura al lontano 1479 al tempo in cui, presso l’Oratorio di Sant’Antonio detto dei “Biri”, esisteva la scuola di formazione per quelli che avrebbero ricoperto il ruolo di guardie carcerarie, gli sbirri.
I carcerati e i sorveglianti, da qui il loro nome di sbirri, erano nutriti appunto a “sbira” una scodella a base di trippa e relativo brodo, pane abbrustolito e formaggio grana grattugiato. Questo era dunque il pasto delle guardie sia dell’Oratorio che del Palazzetto Criminale e Torre Grimaldina nonché dei condannati a morte.
Nei secoli successivi la sbira divenne la colazione dei camalli, dei portuali i quali, magari dopo ore di intenso e duro lavoro, amavano intingere nel brodo ancora fumante una gustosa slerfa di focaccia accompagnata da un rinfrescante gotto di bianco. Spesso qualora ai marittimi non fosse permesso, o non ne avessero il tempo, di sbarcare in porto, la sbira veniva somministrata, insieme al famoso minestrone alla genovese e ad altri piatti caldi, direttamente a bordo dagli onnipresenti ed efficienti cadrai. Costoro conducevano le loro piccole ed agili imbarcazioni fin sotto le chiglie delle navi e rifocillavano, per pochi spiccioli, gli equipaggi. I Cadrai, o catrai, con i loro piatti pronti furono gli antesignani e i precursori dello “street food” anzi, in questo caso, visto che è il mare ad essere protagonista, dello sea food.
La sbira è ancora oggi prodotta nelle poche tripperie rimaste la più celebre delle quali “L’antica tripperia di Vico Casana, già Cavagnaro” resiste imperterrita nell’omonimo caruggio dal 1890.
Con lo scopo di commissionare un monumento funebre degno di tal nome per la tomba del figlio Rodolfo, da pochi anni morto suicida, sua Maestà Elisabetta d’Austria, a tutti nota come Principessa Sissi, giunse a Genova. Scese nel tardo pomeriggio del 26 marzo 1893 dal treno proveniente da Milano alla stazione di Piazza Principe sotto le mentite spoglie di “Lady Parker”. Noleggiata una carrozza, in incognito, raggiunse Ponte Federico Guglielmo dove ad attenderla c’era lo yacht Miramar giunto da Nizza. L’imperatrice era già a bordo quando arrivarono a Calata delle Grazie i suoi bagagli, ben sessantanove colli sistemati su tre carri.
Il giorno successivo dopo la colazione a bordo, l’imperatrice mandò verso le 11 il suo cameriere a fare acquisto d’una guida di Genova e un’ora dopo, accompagnata dalla sua dama di compagnia e dal suo professore di greco, scese a terra… Nessuno fece caso al suo passaggio. Si incamminò verso il centro della città, fino alla chiesa dell’Annunziata dove entrò e si trattenne parecchio ad ammirare le numerose opere d’arte custodite al suo interno.
Uscita dalla chiesa, Elisabetta si diresse in corso Carbonara dove aveva lo studio lo scultore Domenico Carli. Si fermò ad esaminare monumenti quasi terminati. E da lì, proseguì a piedi con passo sostenuto, lungo la Circonvallazione a Monte, per arrivare a piazza Manin.
Di qui, discendendo per via Montaldo, arrivò alla monumentale necropoli di Staglieno, orgoglio dei genovesi pedinata da un cronista del Secolo XIX che nel frattempo si era messo sulle sue tracce.
Annota il giornalista: “…Nel cimitero si fermava con compiacenza ad ammirare le opere di Monteverde, Villa, Saccomanno, Sclavi, Carli, Moreno, Fabiani… Dinanzi al monumento di Giacomo Carpaneto dello Scanzi, raffigurante una barca con un angelo, fece copiare sul suo taccuino l’epigrafe: “Avventurato chi nel mar della vita ebbe nocchier si fido”.
Chiese l’indirizzo dello studio dello scultore… Ritornò in città con una vettura chiusa… In via Roma nel negozio filogranista signor Savelli, fece diversi acquisti e, dopo essersi fermata alquanto nell’offelleria Ferro e Cassanello in piazza De Ferrari, scese in via Orefici, entrando a far spese nella pasticceria della vedova Romanengo”. “Non è dato sapere – precisa il cronista – a quale scultore Sissi commissionasse il lavoro per il sepolcro del figlio Rodolfo”.
“Il terzo giorno, martedì 29 marzo, venne organizzata un’escursione nel ponente genovese. Verso le 11, vestita con un elegante abito nero, in mano un ombrellino color cenere, assieme alla contessa Festelia e al professor Barker salì su una carrozza scoperta ad un cavallo. La prima sosta fu appena fuori la porta della Lanterna, a ridosso del bastione di San Benigno, per ammirare il paesaggio della cornice rivierasca. Risaliti in vettura proseguirono per Pegli dove giunsero poco prima di mezzogiorno alla Villa Pallavicini. Alle 14 la visita era terminata. Diretta verso Sestri Ponente, la piccola comitiva fece ancora una breve fermata a Villa Rostan, a Multedo, per ammirare il parco di querce secolari ed il laghetto.
Ripreso il cammino, attorno alle tre pomeridiane arrivarono a Sestri. Qui del proposito di Sissi di salire sulla vetta del monte Gazzo doveva essere giunta notizia, perchè a Palazzo Fieschi dalla mattina stavano armeggiando per trasformare in portantina una comoda poltrona, uno di quei capaci e maestosi “careguin” in cuoio di Cordova che allora attorniavano il salone municipale. Portatori sarebbero stati i “camalli da menna”, capitanati dal leggendario “Perrucca”, assai noto a Sestri per il suo pugno proibito e per il trasporto del grandioso gruppo ligneo della Decollazione del Maragliano durante la processione delle Casacce.
Nonostante al mattino non si fosse risparmiata, Elisabetta d’Austria – formidabile camminatrice, instancabile e svelta – rinunziò alla portantina preferendo arrampicarsi a piedi fin sulla cima del monte. Fece fermare la carrozza in San Giovanni Battista, dove ad attenderla c’era la guida Francesco Patrone che l’accompagnò fino al santuario, a 421 metri d’altezza”.
Dall’altura il panorama (a quel tempo una distesa di spiagge) era davvero stupendo e l’imperatrice – annota fedelmente il reporter de “Il Secolo XIX” che dal suo arrivo la pedinava discretamente come un’ombra – “espresse il suo compiacimento con delle frequenti esclamazioni di jolie! jolie!”.
L’imperatrice nei suoi programmi avrebbe voluto fermarsi qualche giorno di più se le fosse riuscito – come era suo desiderio – di passare inosservata. Ma la notizia del suo arrivo aveva ormai fatto il giro della città e nei salotti buoni non si parlava d’altro. Ragion per cui diede ordine al comandante di salpare l’indomani. Il mattino dopo, alle nove in punto, lo yacht imperiale uscì dal porto e costeggiando la riviera di levante puntò deciso verso Napoli, tappa successiva di quel continuo ed inquieto peregrinare. Un moto fine a se stesso, senza una direzione nè un senso, che spinse Sissi a scrivere sul suo diario: “Non si sa che farsi di me perchè vivo al di fuori delle convenzioni. Nulla fa sentire il peso dell’esistenza come il contatto con gli uomini, mentre il mare e le foreste liberano di tutto ciò che è terrestre.”
A ricordare la visita di Elisabetta d’Austria a Genova è rimasta, unica testimonianza, una lapide nel piazzale del santuario del monte Gazzo, murata sulla facciata lato mare del vecchio ospizio dei pellegrini.
L’iscrizione, dettata sul finire dell’800 da Angelo Boscassi, archivista del Comune di Genova, suona così:
“Perchè non cada nell’oblìo – d’Austria Ungheria – alcuni devoti di questo Santuario – posero il presente ricordo”. l’Augusta visita qui fatta il 29 marzo 1893 dalla piissima Imperatrice Regina Elisabetta”.