Nietzsche soggiornò più volte a Genova e lungo la riviera di Levante. Qui visse i suoi anni più felici e creativi dove nei periodi di tregua che la malattia gli concedeva trascorreva il suo tempo indisturbato intento a comporre i suoi scritti.
Fu così che durante uno di questi soggiorni alla fine di novembre del 1882 partì per Santa Margherita e tornò a Genova solo nel febbraio dell’anno seguente. L’euforia degli ultimi due anni era svanita: gli restavano pochi amici, il suo malessere fisico peggiorava e, dopo essere stato respinto dall’amica Lou, cominciò la stesura del manoscritto del “Così parlò Zarathustra”.
Si accentuava la sua alienazione, voleva nascondersi dal resto del mondo. In una lettera del 22 febbraio 1883, spedita da Rapallo, scrive all’amico Franz Overbeck: “Sabato partirò per Genova, lì il mio indirizzo sarà (per favore non darlo a nessuno): Genova (Italia), Salita delle Battistine 8 (interno 6)”.
A scuola nessuno me lo aveva raccontato ma l’opera che forse più di ogni altra ha influenzato il pensiero occidentale del Novecento “Così parlò Zarathustra” appunto, è stata ispirata da Genova e concepita proprio davanti al suo mare. Forse se da ragazzo lo avessi saputo avrei affrontato lo studio di questo filosofo con tutt’altro interesse e solo da adulto, con questa consapevolezza, mi sono cimentato nel leggere sul serio le sue opere.
A raccontarlo è lo scrittore stesso che così descrive nei suoi appunti durante una passeggiata tra Zoagli e Portofino il magico momento della creazione:
“La mattina andavo verso sud, salendo per la splendida strada di Zoagli, in mezzo ai pini, con l’ampia distesa del mare sotto di me; il pomeriggio, tutte le volte che me lo consentiva la salute, facevo il giro di tutta la baia di Santa Margherita, arrivando fin dietro Portofino. Questo luogo e questo paesaggio sono diventati ancora più vicini al mio cuore per il grande amore che l’indimenticabile imperatore tedesco Federico III ha avuto per essi; per caso mi trovavo di nuovo su questa costa nel’’autunno 1886, quando egli visitò per la prima volta questo piccolo dimenticato mondo di felicità. – Su queste due strade mi venne incontro tutto il primo Zarathustra, e soprattutto il tipo di Zarathustra stesso: più esattamente, mi assalì…”
Spesso frequentava la passeggiata a mare “Principessa di Piemonte” (oggi Anita Garibaldi) di Nervi e prendeva appunti seduto sugli scogli. Durante la permanenza nella nostra regione compose numerose poesie ispirate da Genova e, oltre al “Così parlò Zarathustra”, anche alcune delle sue altre principali opere che sarebbero poi diventate pietre miliari dello spirito occidentale quali: “La Gaia Scienza”, “Gli idilli messinesi” e “Aurora”.
Non ultimo “L’Ecce Homo” pubblicato postumo, una sorta di biografia e sintesi del suo percorso umano e filosofico, che profuma di mare:
“Quasi ogni frase del libro Ecce Homo è stata ideata, pescata in quel guazzabuglio di scogli vicino a Genova, dove io stavo solo e scambiavo ancora segreti col mar”.
In copertina: Passeggiata Anita Garibaldi. Foto di Stefano Eloggi.
Quando anche con un cielo terso vicino alla Lanterna i nembi volavano bassi. Ma non erano soffici nuvole bensì colonne di fumo prodotte dai colpi di cannone.
Quando intorno al Faro, a difesa del porto erano state predisposte e potenziate, a varie riprese, volute dai Savoia, le batterie di cannoni di San Benigno. Tale artiglieria, continuò ad essere presidiata e puntigliosamente mantenuta in funzione grazie a regolari esercitazioni fino al 1915, anno della sua definitiva dismissione.
Sul sovrastante colle di San Benigno, dove un tempo sorgeva l’omonimo secolare monastero (XII sec.) intitolato a San Paolo, d0po i moti del 1849 furono erette, per volere del generale La Marmora, anche due grandi Caserme adibite ad ospitare la truppa.
Vennero anch’esse dismesse nel 1920 e poi, nel 1925, definitivamente demolite.
Il 28 giugno 1960 i partiti antifascisti si coalizzarono per difendere la Costituzione ed impedire che il Movimento Sociale Italiano organizzasse a Genova il proprio Congresso Nazionale.
Il Presidente onorario di tal partito sarebbe dovuto essere Basile, in epoca fascista Prefetto per le Deportazioni.
Il 30 giugno venne indetto lo Sciopero Generale a partire dalle 15 fino alla fine dei turni di lavoro.
Si formò così un Corteo di alcune migliaia di persone con destinazione Piazza della Vittoria dove a pronunciare l’accorato discorso contro il neonato fascismo fu Sandro Pertini.
Al termine della Manifestazione gran parte dei dimostranti risalì verso Piazza De Ferrari dove erano schierate in assetto antisommossa le Forze dell’Ordine.
Gli scontri furono violenti e durarono circa due ore fino a quando il Presidente dell’Anpi Giorgio Gimelli e il Questore della città concordarono la ritirata delle Forze di Polizia.
Ovviamente il Congresso del Partito non si tenne più a Genova e, conseguenza di questo smacco, a Roma cadde il Governo Tambroni.
ESSERE ANTIFASCISTI È IMPEDIRE AI NEOFASCISTI DI MANIFESTARE. (IL DISCORSO DI SANDRO PERTINI A GENOVA NEL 1960)
di Sandro Pertini
“Gente del popolo, partigiani e lavoratori, genovesi di tutte le classi sociali. Le autorità romane sono particolarmente interessate e impegnate a trovare coloro che esse ritengono i sobillatori, gli iniziatori, i capi di queste manifestazioni di antifascismo. Ma non fa bisogno che quelle autorità si affannino molto: ve lo dirò io, signori, chi sono i nostri sobillatori: eccoli qui, eccoli accanto alla nostra bandiera: sono i fucilati del Turchino, della Benedicta, dell’Olivetta e di Cravasco, sono i torturati della casa dello Studente che risuona ancora delle urla strazianti delle vittime, delle grida e delle risate sadiche dei torturatori. Nella loro memoria, sospinta dallo spirito dei partigiani e dei patrioti, la folla genovese è scesa nuovamente in piazza per ripetere “no” al fascismo, per democraticamente respingere, come ne ha diritto, la provocazione e l’offesa.
Io nego – e tutti voi legittimamente negate – la validità della obiezione secondo la quale il neofascismo avrebbe diritto di svolgere a Genova il suo congresso. Infatti, ogni atto, ogni manifestazione, ogni iniziativa, di quel movimento è una chiara esaltazione del fascismo e poiché il fascismo, in ogni sua forma è considerato reato dalla Carta Costituzionale, l’attività dei missini si traduce in una continua e perseguibile apologià di reato.
Si tratta del resto di un congresso che viene qui convocato non per discutere, ma per provocare, per contrapporre un vergognoso passato alla Resistenza, per contrapporre bestemmie ai valori politici e morali affermati dalla Resistenza.
Ed è ben strano l’atteggiamento delle autorità costituite le quali, mentre hanno sequestrato due manifesti che esprimevano nobili sentimenti, non ritengono opportuno impedire la pubblicazione dei libelli neofascisti che ogni giorno trasudano il fango della apologia del trascorso regime, che insultano la Resistenza, che insultano la Libertà.
Dinanzi a queste provocazioni, dinanzi a queste discriminazioni, la folla non poteva che scendere in piazza, unita nella protesta, né potevamo noi non unirci ad essa per dire no come una volta al fascismo e difendere la memoria dei nostri morti, riaffermando i valori della Resistenza.
Questi valori, che resteranno finché durerà in Italia una Repubblica democratica sono: la libertà, esigenza inalienabile dello spirito umano, senza distinzione di partito, di provenienza, di fede. Poi la giustizia sociale, che completa e rafforza la libertà, l’amore di Patria, che non conosce le follie imperialistiche e le aberrazioni nazionalistiche, quell’amore di Patria che ispira la solidarietà per le Patrie altrui.
La Resistenza ha voluto queste cose e questi valori, ha rialzato le glorie del nostro nuovamente libero paese dopo vent’anni di degradazione subita da coloro che ora vorrebbero riapparire alla ribalta, tracotanti come un tempo. La Resistenza ha spazzato coloro che parlando in nome della Patria, della Patria furono i terribili nemici perché l’hanno avvilita con la dittatura, l’hanno offesa trasformandola in una galera, l’hanno degradata trascinandola in una guerra suicida, l’hanno tradita vendendola allo straniero. Noi, oggi qui, riaffermiamo questi principi e questo amor di patria perché pacatamente, o signori, che siete preposti all’ordine pubblico e che bramate essere benevoli verso quelli che ho nominato poc’anzi e che guardate a noi, ai cittadini che gremiscono questa piazza, considerandoli nemici della Patria, sappiate che coloro che hanno riscattato l’Italia da ogni vergogna passata, sono stati questi lavoratori, operai e contadini e lavoratori della mente, che noi a Genova vedemmo entrare nelle galere fasciste non perché avessero rubato, o per un aumento di salario, o per la diminuzione delle ore di lavoro, ma perché intendevano battersi per la libertà del popolo italiano, e, quindi, anche per le vostre libertà.
E’ necessario ricordare che furono quegli operai, quegli intellettuali, quei contadini, quei giovani che, usciti dalle galere si lanciarono nella guerra di Liberazione, combatterono sulle montagne, sabotarono negli stabilimenti, scioperarono secondo gli ordini degli alleati, furono deportati, torturati e uccisi e morendo gridarono “Viva l’Italia”, “Viva la Libertà”. E salvarono la Patria , purificarono la sua bandiera dai simboli fascista e sabaudo, la restituirono pulita e gloriosa a tutti gli italiani.
Dinanzi a costoro, dinanzi a questi cittadini che voi spesso maledite, dovreste invece inginocchiarvi, come ci si inginocchia di fronte a chi ha operato eroicamente per il bene comune.
Ma perché, dopo quindici anni, dobbiamo sentirci nuovamente mobilitati per rigettare i responsabili di un passato vergognoso e doloroso, i quali tentano di tornare alla ribalta?
Ci sono stati degli errori, primo di tutti la nostra generosità nei confronti degli avversari. Una generosità che ha permesso troppe cose e per la quale oggi i fascisti la fanno da padroni, giungendo a qualificare delitto l’esecuzione di Mussolini a Milano. Ebbene, neofascisti che ancora una volta state nell’ombra a sentire, io mi vanto di avere ordinato la fucilazione di Mussolini, perché io e gli altri, altro non abbiamo fatto che firmare una condanna a morte pronunciata dal popolo italiano venti anni prima.
Un secondo errore fu l’avere spezzato la solidarietà tra le forze antifasciste, permettendo ai fascisti d’infiltrarsi e di riemergere nella vita nazionale, e questa frattura si è determinata in quanto la classe dirigente italiana non ha inteso applicare la Costituzione là dove essa chiaramente proibisce la ricostituzione sotto qualsiasi forma di un partito fascista ed è andata più in là, operando addirittura una discriminazione contro gli uomini della Resistenza, che è ignorata nelle scuole; tollerando un costume vergognoso come quello di cui hanno dato prova quei funzionari che si sono inurbanamente comportati davanti alla dolorosa rappresentanza dei familiari dei caduti.
E’ chiaro che così facendo si va contro lo spirito cristiano che tanto si predica, contro il cristianesimo di quegli eroici preti che caddero sotto il piombo fascista, contro il fulgido esempio di Don Morosini che io incontrai in carcere a Roma, la vigilia della morte, sorridendo malgrado il martirio di giornate di tortura. Quel Don Morosini che è nella memoria di tanti cattolici, di tanti democratici, ma che Tambroni ha tradito barattando il suo sacrificio con 24 voti, sudici voti neofascisti.
Si va contro coloro che hanno espresso aperta solidarietà, contro i Pastore, contro Bo, Maggio, De Bernardis, contro tutti i democratici cristiani che soffrono per la odierna situazione, che provano vergogna di un connubio inaccettabile.
Oggi le provocazioni fasciste sono possibili e sono protette perché in seguito al baratto di quei 24 voti, i fascisti sono nuovamente al governo, si sentono partito di governo, si sentono nuovamente sfiorati dalla gloria del potere, mentre nessuno tra i responsabili, mostra di ricordare che se non vi fosse stata la lotta di Liberazione, l’Italia, prostrata, venduta, soggetta all’invasione, patirebbe ancora oggi delle conseguenze di una guerra infame e di una sconfitta senza attenuanti, mentre fu proprio la Resistenza a recuperare al Paese una posizione dignitosa e libera tra le nazioni.
Il senso, il movente, le aspirazioni che ci spinsero alla lotta, non furono certamente la vendetta e il rancore di cui vanno cianciando i miserabili prosecutori della tradizione fascista, furono proprio il desiderio di ridare dignità alla Patria, di risollevarla dal baratro, restituendo ai cittadini la libertà. Ecco perché i partigiani, i patrioti genovesi, sospinti dalla memoria dei morti sono scesi in Piazza: sono scesi a rivendicare i valori della Resistenza, a difendere la Resistenza contro ogni oltraggio, sono scesi perché non vogliono che la loro città, medaglia d’oro della Resistenza, subisca l’oltraggio del neofascismo.
Ai giovani, studenti e operai, va il nostro plauso per l’entusiasmo, la fierezza., il coraggio che hanno dimostrato. Finché esisterà una gioventù come questa nulla sarà perduto in Italia.
Noi anziani ci riconosciamo in questi giovani. Alla loro età affrontavamo, qui nella nostra Liguria, le squadracce fasciste. E non vogliamo tradire, di questa fiera gioventù, le ansie, le speranze, il domani, perché tradiremmo noi stessi. Così, ancora una volta, siamo preparati alla lotta, pronti ad affrontarla con l’entusiasmo, la volontà la fede di sempre.
Qui vi sono uomini di ogni fede politica e di ogni ceto sociale, spesso tra loro in contrasto, come peraltro vuole la democrazia. Ma questi uomini hanno saputo oggi, e sapranno domani, superare tutte le differenziazioni politiche per unirsi come quando l’8 settembre la Patria chiamò a raccolta i figli minori, perché la riscattassero dall’infamia fascista.
A voi che ci guardate con ostilità, nulla dicono queste spontanee manifestazioni di popolo? Nulla vi dice questa improvvisa ricostituita unità delle forze della Resistenza?
Essa costituisce la più valida diga contro le forze della reazione, contro ogni avventura fascista e rappresenta un monito severo per tutti. Non vi riuscì il fascismo, non vi riuscirono i nazisti, non ci riuscirete voi.
Noi, in questa rinnovata unità, siamo decisi a difendere la Resistenza, ad impedire che ad essa si rechi oltraggio.
Questo lo consideriamo un nostro preciso dovere: per la pace dei nostri morti, e per l’avvenire dei nostri vivi, lo compiremo fino in fondo, costi quello che costi.”
Quando all’inizio di Corso Italia, all’angolo fra Via Casaregis e Via dei Fogliensi ancora negli anni ’30 c’erano sì dei parcheggi ma non per le macchine, bensì per i gozzi dei pescatori della Foce…
quando il traffico era costituito da tranvai e tombarelli e la strada era poco più che uno sterrato.
Dall’alto dell’omonimo palazzo di fattura razionalista l’angelo della Vittoria, oggi come allora, vegliava autorevole sull’incrocio.
La statua, di fatto una “Nike” scolpita da Guido Galletti, reggeva in pugno una ghirlanda, credo andata perduta durante la guerra.
Davanti al giardino meridionale, dominato da una statua di Nettuno (eretta al tempo di Giovanni Andrea), chiaro riferimento analogico alla supremazia dell’ammiraglio) proteso verso il mare (immaginatelo senza il porto e la strada sopraelevata, in diretto rapporto col mare quindi), attraccavano le galee della flotta delle aquile dei Doria nel momento in cui l’ammiraglio (prima Andrea, poi Giovanni Andrea) doveva imbarcarsi sulla Capitana (l’ammiraglia) o doveva sbarcarne per tornare a casa.
Oltre all’ormai celebre galeone dei pirati al Porto Antico è ormeggiata la riproduzione della fregata “Argo” di Andrea Doria.
La barca è stata ricostruita seguendo fedelmente i disegni originali del Cinquecento. “Argo” monta issati i due vessilli verdi (il colore della famiglia) ed i due vessilli bianchi fregiati dall’aquila araldica dei Doria. Il tutto è completato da un tendale in prezioso velluto cremisi. L’imbarcazione serviva all’epoca per trasportare i nobili ed i notabili che giungevano via mare fino alla residenza del Palazzo del Principe, la sontuosa villa sul mare da cui l’ammiraglio poteva dominare il porto e il golfo di Genova.
Ma l’ammiraglio aveva sempre, ancorate in Darsena, 12 galee in assetto da guerra (che aumentarono poi fino a 20) al comando della quale v’era la Capitana, la galea più prestigiosa del suo tempo.
Una nave sfarzosa e dalle dimensioni ragguardevoli al servizio del Signore del mare. A quel tempo era stata stabilita insieme all’imperatore Carlo V la spedizione in Africa e, per l’occorrenza, l’ammiraglio aveva dato disposizione per l’allestimento di una nuova flotta e di una degna capitana di tale stuolo.
“Il Signor Principe facea fare una quadrireme, legno non usitato, per vedere se riuscita bene, per servirsene riuscendo molto utilmernte” raccontano i cronisti del tempo e ancora “L’Imperatore è sbarcato in la quadrireme, la quale è la più bella galera che si possa immaginare, e a popa li è preparata una cameretta ove dormirà esso et lo Infante Don Luis di Portugal”.
“La quadrireme è tale che a gran fatica non si potrebbe meglio pingersi et immaginarsi”… un altro storico… “Questo legno era con sì raro artificio et con tanta et si nuova magnificenza fabbricata, et ornato così riccamente, che pareggiava in questo genere le spese superbissime delli antichi imperatori”.
“Il Principe Andrea Dorio ha fatto una galera per la cesarea Maiestà; quale dicono essere longa quindice palme et larga quatro più delle altr. Dove che nelle altre usano tre rafforzati (tre fila di rematori) per banco in questa ne usano quatro: E de qui preso il nome Quadrireme. In prora vanno tre gagliardi, che così dicono stendardi, con Bandere de damasco cremesin; longhe palmi ventitrè l’una, posti tutti in oro. In quello de mezo una stella tutta d’oro col campo pieno de razi et freze atorno, con littere che dicono, “Vias tuas Domine dimostra mihi (Signore mostrami le tue vie”.
Nelle altre dui la impressa de sua Maestà; con facelle de foco, con parole che dicono Ignis ante ipsum precedet (il fuoco lo precede).
Ne la bandiera della Gabbia qual pendeva fino al mare un Angelo molto grande con littere intorno che dicono Misit deus angelus suum ut custodiat te in omnibus viis tuis (Dio pose un suo angelo a custode delle tue vie).
Ne la bandiera de la Antena (pennone) uno Scuto, una celata (elmo), una spada con parole intorno Apprehende arma et scutum et exurge in adiutorium mihi (Afferra lo scudo e le armi e corri in mio aiuto).
Tre stendardi, dui de largheza de sette pezze, l’altro de otto longo palme vinticinque; l’altro trenta.
Nel grande il Crucifixo con freze (frecce) d’oro senza parole. Neli altri dui le armi de sua Maestà et staranno innanzi la popa dreto le qual anderà una bandiera de damasco biancho longa vintisei palmi; in mezo una pietra de littere Arcum conteret et confriget ; arma et scuta comburet igni (l’arco si consuma e si spezza; brucia le armi e gli scudi col fuoco), et per lo campo chiave calici et croce de sancto Andrea. Dale bande duoi altre bandiere con littere intagliate Et plus ultra con l’impressa stemma di sua Maiestà.
Poi si ferno vintiquatro bandiere de damascho con campo gialo messo in oro con le arme de sua Maiestà: con le frezi rosse ne li cantoni de argento con le impresse de la sua Maiestà.
La Camera viene tutta intaliata de lavori bellissimi de legname messi in azuro et or, et de più altri paramenti di tela d’oro e d’argento.
Le pope viene medesimamente intagliata de uno Cendale de Veluto cremisino fodrato de brocato riccio sopra riccio; et un altro di scarlato pe ogni dì.
La Ciurma vestita di seta con camise lavorate di seta. L’arteglieria che è portata da ogni parte serà molto grossa e minuta.; gli huomini che ce andaranno si pensa che saranno ben vestiti et ben armati con questa et quatordece altre galere andava in Barzellona ove se intende che serà sua Maiestà. Et sono opinioni che voglia venir in Italia un’altra volta: pur il più crede che no, et che il Principe piglierà li sette mila spagnoli che sono in ordine per questa impresa: et l’armata de Spagna et de Portugallo et verrà in Sardegna. El signor Marchese con le altre galere et nave che son qui, imbarcarà li quatro milia italiani et sette milia Todeschi che sono in Lombardia, et andràno a napoli e de lì in Sicilia per pigliare cinque milia spagnoli che sono lì: et le galere passeranno in Sardegna”.
Nel 1538 Andrea Doria, in occasione dell’arrivo a Genova sia dell’Imperatore Carlo V che del Papa Paolo III organizzò un’imponente parata navale davanti al porto con lo scopo di dimostrare, se mai ce ne fosse stato il bisogno, tutta la sua potenza.
L’incontro aveva l’obiettivo di preparare una crociata contro gli Ottomani: un anticipo di quella alleanza che porterà alla vittoria di Lepanto nel 1571. La flotta genovese, seconda per numero di galee a quella turca e veneziana ma non per efficienza e qualità, avrà un ruolo decisivo nelle guerre combattute dalla Spagna nel Mediterraneo durante il XVI secolo.
In copertina: Il convegno del 1538 tra l’Imperatore Carlo V, il papa Paolo III e Andrea Doria di fronte a Genova, in un dipinto fiammingo. Sulla galea che ospita i tre personaggi, in primo piano a destra, sono raffigurati i simboli papale [l’Eucarestia], imperiale [l’aquila] e di Andrea Doria [il rostro]. L’ammiraglio indica con la mano ai due capi della Cristianità la rotta verso levante. Immagine tratta da giuntafilippo.it.
Quando intorno alla millenaria Abbazia di San Bartolomeo c’era solo una verde e disabitata collina che precipitava nel Fossato; un fossato (ö fossôu) così ripido e scosceso, sino all’avvento dei mezzi a motore e all’apertura (nella seconda metà dell’800) dell’omonima via attuale, da essere difficilmente percorribile e, per questo, fuori dalla rete di strade e sentieri romani.
Per secoli quella di S. Bartolomeo, è rimasta una boscosa isolata valle ideale rifugio per custodire l’Abbazia, costruita “extra muros Ianuae” alla fine dell’ XI secolo (1064), in un anfratto solitario lontano dalla marina e sotto le falde del colle.
Progettata, come la cattedrale di San Lorenzo, in stile romanico-gotica ad imitazione delle forme, provenienti dalla Francia e da tempo in voga in Lombardia e Toscana ; aveva caratteristicamente i muri con in basso pietre scure di Promontorio ben squadrate, e in alto, dai due metri circa in su, con mattoni bene ordinati.
Quando ancora non era sorto il popolare quartiere, ad uso e consumo del porto e delle industrie sampierdarenesi, che avrebbe riempito il Fossato e cementificato la collina.
Quando al centro della Rotonda di Piazzale san Francesco d’Assisi venne eretta la colossale statua di Costanzo, padre di Galeazzo, Ciano.
Il 20 novembre 1941 il monumento venne inaugurato alla presenza delle maggiori autorità fasciste per omaggiare l’eroe, insieme a D’Annunzio, della celebre “Beffa di Buccari”e con esso tutti i combattenti del mare.
Posto a vegliare ed impreziosire l’imbocco del porto come una sorta di nostrana statua della libertà, perché fosse visibile ai naviganti…
una libertà, quella sì preziosa, che circa tre anni e mezzo dopo, Genova avrebbe riconquistato con il sangue dei suoi figli.
Quando sul camminamento delle secentesche mura dello Zerbino i signori già si sporgevano pericolosamente per spiare le sottostanti combattute partite di bocce. Un passatempo assai radicato nella tradizione genovese visto che già nel 1843 Charles Dickens ne raccontava ammirato nel suo soggiorno nella Superba. Riferendosi al quartiere di Albaro dove dimorava annotava infatti:
“Subito fuori della chiesa, gli uomini col berretto rosso in testa e la giacca sulle spalle (non se la mettono mai) giocavano alle bocce e compravano gli zuccherini. Quando cinque o sei di essi avevano finito una partita, entravano in chiesa, si segnavano con l’acqua santa, si inginocchiavano per un momento con una gamba, e poi uscivano di nuovo per fare un’altra partita a bocce. Sono abilissimi in questo passatempo, e sono usi giocare sulle vie e sulle straducole sassose e sul terreno meno adatto allo scopo, con la stessa precisione che se si trovassero davanti a una tavola da biliardo”.
Non doveva apparire molto diversa la scena girata proprio a Genova che ispirò addirittura uno dei primi cortometraggi in Italia, presente nel catalogo Lumière, intitolato “Partita di bocce allo Zerbino”.
Una tradizione quella genovese nata con la fondazione nel 1913 dell’Associazione Bocciofila Genovese che, dal primo dopoguerra in poi, raccolse allori sia in campo nazionale che internazionale:
“Nel 1914 l’Associazione bocciofila genovese, nata l’anno prima, organizzò una gara nazionale sul campo del Genoa cricket and football club. Campioni di quest’epoca pionieristica furono il genovese Federico Dondero, soprannominato ‘il Cicagnino’, Gio Batta Solari, detto ‘Baciccia’, e Francesco Edilio Canessa, chiamato ‘il Poeta’.
Il 28-29 settembre 1951 l’Italia ospitò per la prima volta i Campionati del Mondo. A Genova, sui campi di Marassi, sette nazioni si confrontarono usando le bocce sintetiche italiane, accanto a quelle metalliche francesi: i due tipi vennero uniformati nel diametro e nel peso. La Francia dettò legge fino al 1957, quando, a Béziers, una quadretta formata da Motto, Chiusano, Bauducco e Granaglia (quest’ultimo, soprannominato “il Maestro” in Italia e “Le Roi” in Francia fu 13 volte campione del mondo e ritenuto il più grande boccista di sempre) conquistò la prima vittoria azzurra ai Mondiali. Nelle successive edizioni e per tutti gli anni Sessanta l’Italia salì più volte sul gradino più alto del podio.
Probabilmente i due eleganti signori dell’immagine stavano assistendo dall’alto proprio ad una partita come quella descritta dall’apprezzato illustratore locale di inizio ‘900 G. Mazzoni.
Anche Gilberto Govi, il celebre interprete di commedie e alfiere della genovesità, fu un assiduo praticante degli improvvisati terreni dello Zerbino.
E’ passato oltre un secolo ma i campi di bocce dello Zerbino continuano ancora oggi ad essere fra i più frequentati dagli appassionati cultori di quest’antico e popolare sport.
Quando prima dell’edificazione di quello di Marassi avvenuta nel 1902, quello di S. Andrea, sito sull’omonimo piano nei pressi di Porta Soprana, è stato per tutto l’800 il principale carcere cittadino.
Fu edificato sui terreni di un Monastero benedettino risalente al XII sec. sopra la collina che poi, nel secolo successivo, sarà sbancata per far spazio all’attuale palazzo in stile liberty della Borsa.
A decretarne la trasformazione fu Napoleone nel 1810 che ritenne insufficienti e carenti le strutture del Palazzetto Criminale e della Torre Grimaldina, le storiche prigioni della Repubblica.
Quando alla Foce, nei pressi delle case dei pescatori c’era il ristorante San Pietro. Raffinato esempio di costruzione razionalista progettata fra il 1935 e il 1938 dall’architetto Mario Labò.
Davanti si erge la statua del Navigatore dello scultore Morera che, inaugurata anch’essa nel 1938, sembra scrutare l’orizzonte in attesa dell’arrivo degli avventori del locale.
Quando, per far spazio alla nascente sopraelevata con relativa rampa d’accesso, venne in parte demolito nel 1965.
In origine era infatti lungo circa il doppio della versione mutila e rimaneggiata di cui ancora oggi resta traccia. Terminata la sua funzione ristoratrice venne convertito negli anni ’90 in uffici e poi in un casotto per distributore di benzina.
Lontani i tempi in cui davanti erano parcheggiate le fuoriserie e le sue eleganti sale erano frequentate dalla ricca borghesia genovese.
Oggi, dopo un periodo di triste abbandono, per lo meno funge da centro di prima accoglienza per gli extracomunitari.