Quando Corso Gastaldi non era ancora stata intitolata al primo partigiano d’Italia, nome di battaglia Bisagno come il torrente che attraversa la città, e si chiamava Giulio Cesare in onore del celebre “Dictator” romano.
Quando l’arteria era stata progettata in funzione dell’importante scalo merci della vicina stazione ferroviaria di Terralba.
Quando l’architetto Braccialini non aveva ancora disegnato nè il tracciato con palazzi in stile razionalista né la Casa dello Studente che poi sarebbe diventata “Casa del Fascista Universitario” e teatro di macabre violenze.
Chi non ha mai gustato seduto ad un tavolino in compagnia dei propri genitori Il Paciugo alzi la mano?
Il gelato Paciugo nacque durante la guerra presso il celebre bar Excelsior di Portofino dove veniva realizzato un composto di panna e creme annaffiato di sciroppo di granatina, amarene sciroppate e granella di nocciola.
A dargli il nome fu il suo ideatore Lina Repetto che lo battezzò, in risposta alla domanda su come si chiamasse quel gelato:” U lè un paciugo”, un pasticcio.
Mai nome fu più azzeccato riportando alla mente, soprattutto dei meno giovani, le ingarbugliate vicende dei protagonisti della leggenda tramandata presso il santuario di Coronata.
Un altro gelato ormai patrimonio dell’assortimento nazionale è “Il Pinguino” la cui affascinante genesi venne raccontata da Gerolamo Boero titolare della Gelateria Giumin di Nervi. Questi ricordava come acquistò delle forme di acciaio da un ferramenta alle quali unì la panna montata intingendola nel cioccolato fuso. Il nuovo gelato venne chiamato Macallè in onore del nome di una vittoria, assai celebrata in quell’epoca, in Etiopia.
Nel dopoguerra l’originale stecco mutò nome in pinguino e venne assaggiato dal Cavalier Motta in persona che, pienamente soddisfatto, ne iniziò la produzione su larga scala.
E fu così che dal Pinguino genovese nacque il gelato che ancora oggi troviamo nei bar e nei banchi frigo dei supermercati, il Mottarello.
A proposito di gelati, impossibile non parlare poi, vista la recente riapertura della Cremeria di Buonafede, della pànera l’autoctona crema genovese a base di panna fresca, caffè arabico in polvere, tuorli d’uovo e zucchero. Genova ha una sorella dal nome, in due lingue diverse, identico che è Napoli (dall’etrusco Kainua Genova, dal greco Neapolis Napoli, entrambe significano “città nuova”) dove – guarda caso – esiste una preparazione molto simile, chiamata “Coviglia”.
In molti, a cominciare da “Amedeo”, la premiata gelateria di Boccadasse dal 1927, ne rivendicano la paternità. Panna nera per contrazione Pànera.
Se l’inventore del moderno gelato fu nel 1686 il siciliano Francesco Procopio che lo esportò a Parigi, l’origine di quello genovese risale al 1770 quando il nostro conterraneo Giovanni Bosio, emigrato in America in cerca di fortuna, la trovò proprio aprendo a New York la prima gelateria italiana artigianale. Fu così che iniziò a proporre un’antica preparazione semifredda ligure diffusa fra le famiglie nobili della sua città natale ideata per soddisfare i capricci estivi dei propri pargoli che non gradivano il caffèlatte caldo, preferendo invece la casalinga versione di quella che sarebbe stata chiamata pànera.
Gli americani ne furono subito entusiasti (e ancor oggi sono i più grandi consumatori di gelati al mondo) e iniziarono a variarne la ricetta, secondo il loro gusto unendo latte intero e aggiungendo altri ingredienti come caramello e noci. perfezionando le prime gelatiere casalinghe, mastelli di legno con manovella che andavano a ghiaccio e sale e in seguito aprendo le prime “fabbriche di gelato”, dando vita così al gelato industriale.
Il gelato insomma a Genova vanta una lunga tradizione che prosegue sia nel nome di prestigiose storiche gelaterie quali in ordine sparso: Carla a Sturla, Amedeo a Boccadasse, Tonitto e Ciarapica in Albaro, Guarino in Castelletto, Profumo, Viganotti e Cremeria di Buona Fede nei caruggi, sia nel solco di esperienze più recenti ma non meno gratificanti, quali Chicco e Gaggero a Nervi, Vittorio a Recco, Gelateria Priaruggia a Quarto, Cremeria delle Erbe e Cremeria Gran Sasso in centro, Don Paolo in circonvallazione, il Siculo alla Foce, Cucchi e Flora nel ponente cittadino… e mi scuso con tutte le altre altrettanto meritevoli realtà che nella mia ignoranza ho sicuramente dimenticato.
Annotò a proposito del gelato Marcel Proust in un brano della sua “À la recherche du temps perdu”: “Tutte le volte che ne mangio, templi, chiese, obelischi, rocce, è come una geografia pittoresca che guardo prima, e di cui converto poi i monumenti di lampone o di vaniglia in freschezza nella mia gola”. Un pensiero che a Genova calza a pennello. Non v’è dubbio che l’affermato scrittore quando appuntava questi pensieri si riferiva a Parigi.
Ma se nella Superba di rocce, chiese e palazzi ve ne sono in abbondanza di certo è priva di obelischi, una carenza questa ampiamente compensata dalla scenografica presenza del mare.
… storia del palazzo Antonio Doria, poi Massimiliano Spinola…
Se Andrea fra il 1521 e il 1529 fece edificare il suo strepitoso Palazzo del Principe fuori le mura commissionandolo a Perin del Vaga, Antonio, dal canto suo, non volle essere da meno. Il capitano parente del più celebre ammiraglio costruì infatti nel 1541 la propria degna dimora ingaggiando sia Bernardo Cantone che G.B. Castello detto il Bergamasco in un’area immersa nel verde degli orti e della collina retrostante nella zona di S. Caterina vicino alla Porta dell’Acquasola.
Il magnifico palazzo, oggi sede della Provincia e della Prefettura, ha mantenuto nei secoli la sua smagliante bellezza anche se nel 1879 è stato fortemente ridimensionato soprattutto nella parte concernente il suo sontuoso giardino per l’apertura di Via Roma e della Galleria N. Bixio.
I prospetti rivolti su Largo Lanfranco e Piazza Corvetto sono stati affrescati dalla bottega dei fratelli Calvi e celebrano, attraverso scene di Trionfi di Antichi romani, le gesta del casato. All’altezza dei balconi del primo piano sono ancora leggibili alcune iscrizioni che raccontano le avventure della famiglia: Gli affreschi cinquecenteschi della facciata, opera di Lazzaro e Pantaleo Calvi che raccontano le gesta dei Doria, sono stati restaurati nel 2001.
“Ansaldus Doria Rebus Optime et Felicissime Gestis Victor in Patriam Redit An. MCXLVII –
Magna in Almeriam Instructa Classe AN . MCXLVII Ansaldus Doria ex Coss Triremium XXV
Praef Mauros Profligavit Genuensis Haud Impar Nomini”.
Spettacolare è il portale scolpito intorno al 1580 da Taddeo Carlone autore anche della maggior parte degli affreschi interni. Monumentale è il portone con doppio ordine di colonne doriche scanalate. Sul trave statue con armature e due armigeri che reggono lo stemma nobiliare degli Spinola il casato che subentrò ai Doria nel 1624; Metope con bucrani, clipei ed elmi, due teste di Medusa alternate a mensole intarsiate a triglifi.
Lo stemma ad inizio ‘800 fu oggetto di una orgogliosa disputa per un contrasto tra il Marchese Massimiliano Spinola proprietario del palazzo e Re Vittorio Emanuele I. Lo Spinola era stato nominato Ciambellano del Re. Avendo egli rifiutato la carica, il Re lo chiamò a Corte. Chiestogli il motivo del rifiuto di cotanto onore lo Spinola rispose: “Maestà son nato per essere servito e non per servire gli altri”.
Congedato dal Re con l’avviso che da quel giorno non avrebbe più avuto relazioni con la Reggia, lo Spinola, di ritorno a Genova, fece apporre sul portone del palazzo l’epigrafe “Omnia Tempus Habent” (ogni cosa ha il suo tempo) in risposta al poco gradito motto utilizzato dal sovrano sabaudo “Sic Transit Gloria Mundi” (così passa la gloria di questo mondo). Il Governatore ne intimò la rimozione per ordine reale e non avendo il Marchese obbedito la fece coattivamente eseguire.
Varcato l’ingresso subito si nota la volta dell’atrio affrescata da M. A. Calvi con al centro il medaglione che raffigura il capitano Antonio Doria. Proseguendo lungo le scale che iniziano con teste imperiali si accede al cortile interno allestito con due ordini di loggiato che conduce al piano nobile. Il perimetro del cortile è decorato con ritratti di guerrieri.
Nel cortile si trova anche un secondo portale che un tempo consentiva il passaggio verso la parte di palazzo rivolta sui i giardini oggi convertiti in maniera più pragmatica a posteggi per la Prefettura.
Tale portale con colonne ioniche in marmo è completato da un fastigio in pietra nera di promontorio. Nella nicchia Al centro del piccolo tempio era ricoverato un tempo il busto dell’Imperatore Carlo V, grande amico ed alleato di Andrea. In origine infatti tale portale era custodito nel palazzo del Principe ma non se ne conosce né la locazione esatta né il motivo del trasferimento.
A testimonianza del prestigio dei Doria che avevano interessi commerciali sparsi un po’ ovunque la loggia superiore è impreziosita da una serie di vedute a fresco di città realizzate da Felice Calvi: Genova, Venezia, Milano, Gerusalemme. Firenze, Anversa e Napoli.
Nel XVII secolo Bartolomeo Bianco apportò significative migliorie fra le quali, a levante, la costruzione di una galleria (affrescata poi da Andrea Ansaldo) e l’aggiunta di balaustre marmoree sul prospetto principale. Tra il 1791 e il 1797 l’edificio viene sopraelevato di un piano.
Oltre alle opere di Aurelio, Lazzaro, Pantaleo e Felice Calvi, e quelle di Andrea Ansaldo il palazzo conserva due pregevoli affreschi di Giovanni e Luca Cambiaso: nella Sala degli Arazzi “Ercole in lotta con le Amazzoni” e nel Salone della Vendetta alle pareti “Storie della guerra di Troia” e sul soffitto “Apollo che saetta i Greci alle porte di Troia”. Si tratta, quest’ultima della prima commessa di una certa importanza, in autonomia dal padre Giovanni, realizzata dal giovane Luca. L’allora diciassettenne artista monegliese, che in età matura verrà chiamato dai reali di Spagna per decorare nientemeno che l’’Escorial madrileno, sprigiona qui tutto il suo emergente talento, sebbene ancora influenzato dal fascino manieristico di Giulio Romano e Perin del Vaga. Artisti dei quali Cambiaso aveva avuto occasione di ammirare le opere dal vivo in città (“Decollazione di S. Stefano” del primo e “Sala degli Eroi” del secondo).
Tornati nel traffico della sottostante Via Roma e del viavai di Salita S. Caterina, oltre che osservare ammirati il cielo per i colorati ombrellini, è opportuno rivolgere una preghiera all’edicola della Madonna Assunta del XVII-XVIII sec. Un’elegante edicola barocca di pregevole fattura. Posta sull’angolo dell’edifico in direzione della Salita. La statua della Madonna poggia su un basamento sporgente mentre dalla cornice con riccioli e volute, spuntano due angeli adoranti ai lati: uno prega e l’altro porta le braccia al petto.
Quando al molo Giano c’era la Torre dei Piloti dal 1937 vegliata dalla statua della Madonna della SS. Concezione che sovrintendeva a tutte le attività portuali. La Vergine scolpita nel 1638 da Bernardo Carlone era in origine collocata a ornamento della Porta della Lanterna e, quando questa nel 1877 fu demolita, venne temporaneamente trasferita nell’Oratorio di Sant’Antonio della Marina.
Poggiava su un basamento di teste di cherubini da cui spuntava una mezzaluna. Nella mano destra impugnava lo scettro mentre, nella mano sinistra reggeva il Bambinello con in mano il globo”.
Fra la metà degli anni Novanta e il 1997 la vecchia torre venne affiancata dalla nuova concepita sia come sede del corpo piloti che come centro di coordinamento di un’area ininterrotta di 22 chilometri di fascia costiera dedicata alla movimentazione di persone e merci dello scalo genovese.
La nuova torre alta 50 metri aveva una sala di controllo, di 165 metri quadri di superficie, che si stagliava, per meglio controllare l’arco portuale, a 40 metri dal suolo.
L’area portuale genovese è dotata di circa 20 terminal privati attrezzati per accogliere ogni tipo di nave per ogni tipo di merce: contenitori, merci varie, prodotti deperibili, metalli, forestali, rinfuse solide e liquide, prodotti petroliferi e passeggeri.
Il Corpo Piloti è attivo 24 ore al giorno, tutto l’anno ed è composto da 22 membri che hanno a disposizione 6 pilotine. La loro sede era la torre sulla testata del Molo Giano dotata di ogni moderna strumentazione possibile immaginabile. Si legge sul sito del Consorzio: «La sala controllo è provvista di impianti VHF per l’ascolto simultaneo dei canali di soccorso e di quelli di uso portuale, di impianti telex e fax, stazione meteo oceanografica automatica e di impianti AIS (Automatic Identification System) per la copertura dell’intera area portuale»
Il 7 maggio 2013 a causa di una manovra errata della la moto nave Jolly Nero che urtò la torre piloti, la loro sede crollò e alcuni di loro persero tragicamente la vita.
Quando in Via Gramsci davanti a Porta dei Vacca o Sottana (così chiamata per distinguerla dalla coeva Porta Soprana) in darsena c’era la sede della C.U.L.M.V., la Compagnia Unica fra i lavoratori delle Merci Varie che raggruppa tutte le varie Compagnie e i gruppi organizzati che svolgevano attività nell’ambito operativo delle merci varie raccogliendo la secolare eredità dei camalli e dei caravana. Questi ultimi affondavano le loro radici nel giugno 1340 quando ottennero l’esclusiva per il facchinaggio delle merci soggette a dogana.
La Compagnia dei Caravana resistette sostanzialmente immutata durante i secoli, mantenendo un forte potere contrattuale che le consentì di sopravvivere anche quando, nel 1800, il governo centrale del Regno d’Italia sciolse per decreto tutte le corporazioni d’arti e mestieri presenti nei porti. Unica in Italia mantenne il suo status privilegiato fra tutte le corporazioni e venne esplicitamente esclusa dalla legge di soppressione del 29 maggio 1864.
Con l’avvento del Fascismo, le associazioni operaie furono sciolte. I lavoratori portuali fornirono un enorme apporto alla lotta antifascista a Genova e, contribuendo in modo determinante allo sminamento e al salvataggio del porto, scrissero una pagina gloriosa della Resistenza nella nostra città.
Quando l’antica sede non aveva ancora dovuto, causa abbattimento per far spazio nel 1964 alla sopraelevata, trasferirsi in Piazzale San Benigno proprio in faccia alla Lanterna.
« Un uomo solo è al comando, la sua maglia è bianco-celeste, il suo nome è Fausto Coppi » con queste lapidarie parole iniziò una famosa radiocronaca ciclistica di Mario Ferretti. La celebre frase entrata nel patrimonio giornalistico sportivo degli italiani fu pronunciata dal cronista all’apertura della radiocronaca della Cuneo-Pinerolo, terzultima tappa del Giro d’Italia del 1949.
Protagonista assoluto di quegli anni era Fausto Coppi il Campionissimo, soprannome che in passato era appartenuto a Costante Girardengo che ebbe i natali si a Castellania in basso Piemonte ma che, avendo sposato una genovese, un po’ genovese lo è diventato.
Nel memoriale che Fausto Coppi aveva pubblicato in esclusiva su “Oggi” c’era anche il racconto dell’inizio di quella storia d’amore:” Nell’agosto del 1940, esattamente il giorno 29, avevo conosciuto sullo stradone che porta a Villalvernia, la statale 35, una ragazza di Sestri, Bruna Ciampolini, che cinque anni dopo sarebbe diventata mia moglie. Il giorno che le parlai la prima volta stavo pedalando in un breve allenamento. Sono sempre stato timido, ma quella sera, vedendola sola, presi finalmente il coraggio e frenai”…
“Fu mio fratello Serse ad informarsi : si chiama Bruna Ciampolini, ha diciotto anni e proprio quest’anno è diventata maestra.
Viene da Sestri, vicino a Genova e si trasferita a Villalvernia per sfuggire ai rischi di bombardamento della sua città”.
Cosi Fausto interrompe un giorno l’allenamento, scende ed inizia a parlare con Bruna.
Ma i giorni sono contati, c’è la guerra ed il Campionissimo deve partire.
Si ritroveranno a guerra finita per poi sposarsi il 22 novembre 1945 a Sestri Ponente, nel quartiere dove andranno a vivere da sposini nella casa dei genitori di lei.
L’appartamento, condiviso con i suoceri, era al terzo piano di un edificio d’angolo tra Via Donizetti e Via Sestri, a poca distanza dal tratto di Via Travi che, per iniziativa dei ciclisti sestresi, è stato intitolato al campione. Coppi infatti spesso frequentava nel quartiere il negozio di Via Puccini di articoli e cicli sportivi del suo amico Azzari.
Qui sulla facciata del palazzo nel 1991, alla presenza della figlia Marina (che in quella casa era nata nel ’47), è stata affissa la targa dall’allora Presidente della Ciclistica Sestrese, Attilio Canneva, e realizzata dall’Arch. Enzo Rossi, nonché dallo scultore Giuseppe Bottaro.
Gli intarsi in rame sulla lastra d’ardesia rappresentano il volto del campione, la Galleria del Turchino (per ricordare i successi nella Milano-Sanremo), la stilizzazione di una gru della Fincantieri (per ricordare la presenza a Sestri Ponente del campione) e una stilizzazione della Tour Eiffel (per ricordare i successi francesi di Coppi).
”Al Giro d’Italia – ricorda Bruna – quando correva per i colori della squadra di Learco Guerra di averlo visto cadere ,proprio a pochi metri, e rialzarsi tutto sanguinante. Lo spavento di quel giorno le è rimasto sempre nel cuore”. Per questo non amava seguire Fausto nelle corse. Proprio alla fine di una corsa, a Lugano, Coppi incontrò Giulia Occhini quella che i giornali definirono “la Dama Bianca”. E la relazione con Bruna finì. Nonostante ció i coniugi Coppi, anche se i loro destini avevano ormai preso strade diverse, rimasero insieme come prassi del tempo, a crescere Marina a Sestri Ponente.
Nell’anno 218 a.C., durante la Seconda Guerra Punica, Genova alleata di Roma, subì l’imprevisto e violento attacco di Magone, fratello minore dei più celebri condottieri cartaginesi Asdrubale e Annibale. Distrusse, devastò e saccheggiò la città che, parole sue: “non meritava di essere risparmiata perché priva di una buona vigna” (il nostro vino gli era parso infatti aceto). Probabilmente – dico io -non aveva avuto occasione di assaggiare il bianco di Coronata altrimenti non avrebbe potuto pronunciare tale nefasta sentenza e Genova si sarebbe salvata.
Sulle alture di Cornigliano si erge infatti la collina di Coronata il cui nome deriverebbe da “columnata”, le colonne che erano impiantate nei terreni a confine, o a supporto della vigna stessa. Eh si di vigna stiamo parlando perché per noi genovesi Coronata è sinonimo dell’omonimo vino bianco che da secoli viene prodotto in Val Polcevera nei comuni di Morego, Sestri Ponente, Fegino, Borzoli e, appunto, Coronata.
Oggi, dopo essere stato per anni quasi introvabile, se non nelle cantine di qualche contadino che ne produceva per il fabbisogno familiare, grazie all’intraprendenza di alcune piccole aziende agricole locali (quella di Cognata su tutte che ha ottenuto anche diversi riconoscimenti a livello nazionale) sta vivendo una sorta di rinascita.
Nella galleria dei miei ricordi il profumo fruttato di questo vino mi riporta indietro nel tempo ai primi anni ’90 quando ragazzo, insieme ad altri coetanei, fui ospite ad una cena di un caro amico: ad un certo punto il papà del padrone di casa presentò in tavola una casareccia bottiglia di vetro verde spesso con tappo di sughero artigianale e disse: “Questo è il vero bianco di Coronata… non se ne trova tanto facilmente … assaggiate e ditemi…”. La bottiglia ancora perlata di frigo fu un successo sorprendente e il nostro Trimalcione dovette dare fondo alle scorte della cantina per accompagnare il nostro pantagruelico pasto a base di pesce amorevolmente preparato dalla padrona di casa.
Non so se il mio giudizio sia influenzato dal piacevole ricordo di quella spensierata serata fra amici ma, quel profumo e aroma non li ho mai dimenticati, un po’ come il sapore delle madeleines della zia per Proust nel suo celeberrimo “À la recherche du temps perdu”.
Il Papà del mio amico era giardiniere del Comune ed era entrato in possesso di una vera partita di Coronata regalatagli da un contadino del luogo che intendeva così sdebitarsi per un intervento da questi effettuato nella sua vigna, per risistemare alcuni viticci.
Il Val Polcevera Coronata si produce con le uve dei vitigni Bianchetta Genovese,Vermentino e Albarola da soli o congiuntamente per almeno il 60%; possono inoltre essere utilizzate le uve dei vitigni Pigato, Rollo e Bosco per un massimo del 40%. Deve avere una gradazione alcolica non inferiore a 11 gradi. Va consumato entro un anno dalla vendemmia e va servito ad una temperatura tra i 10 e gli 11 gradi.
Il Coronata ha un colore tonico, non slavato, e al naso ha una fragranza intensa, con note di frutta bianca un po’ macerata. Nell’assaggio colpisce subito la vena salata intensa, affilata, e un sottile amaro finale, così delicato da risultare in definitiva elegante.
La caratteristica più tipica del bianco di Coronata è il suo sentore di zolfo che qualcuno sostiene fosse generato dalle abbondanti dosi di verderame utilizzate nelle vigne mentre altri, vogliono che lo zolfo provenisse dai fumi delle vicine acciaierie. “U vin giancu de Cônâ” si accompagna al pesce in generale al “ciupin” – la zuppa di pesce ligure – alle acciughe all’ammiraglia, ai totani e cavoli ripieni in particolare e, secondo alcuni, può essere una valida alternativa alla Bonarda (vino rosso) per il classico abbinamento fave e salame di S. Olcese.
E se non è dato sapere se Magone l’avesse assaggiato e se gli fosse piaciuto o meno certamente Stendhal ne era rimasto più che soddisfatto a tal punto da citarlo nel suo famoso “Viaggio in Italia”.
“Grande è la fortuna di colui che possiede una buona bottiglia, un buon libro e un buon amico”. Cit Molière.
Anticamente Via Luccoli era poco più che una mulattiera che attraversava un bosco consacrato alle divinità pagane. “Luculus”che in latino infatti significa “piccolo bosco” era l’area dedicata a Camuho Dio del Sole e ad Acca la dea della Luna. Da questa curiosa unione deriva anche il nome di Acquasola che culminava proprio in cima alla zona dei boschetti sacri. In quel tempo era purtroppo normale fare sacrifici umani per ingraziarsi le divinità.
Secondo una popolare leggenda una di queste vittime che, oltre mille anni dopo, gironzola ancora oggi nel vicolo, ignara del proprio triste destino, è il fantasma di un ingenuo fanciullo che sorride ai passanti.
Il caruggio fu costruito nel XIII sec. al tempo in cui gli Spinola si insediarono nella zona costruendo i propri palazzi e aprendo le proprie botteghe.
Il tracciato della creuza segue pari pari il corso del sottostante rio che convoglia le acque provenienti da Via Caffaro e proseguiva fino alla Porta dell’Acquasola. In origine, era fuori le mura, all’interno delle quali venne inserito solo con l’erezione della cinta cinquecentesca.
La funzione di tale strada venne ridimensionata nei secoli successivi quando venne interrotta a causa dell’ottocentesca costruzione di Via Carlo Felice e all’ ampliamento di Piazza Fontane Marose nel 1825.
La conformazione in cui ancora oggi la possiamo ammirare risale al XVI sec quando le torri furono abbattute, le logge murate e i porticati chiusi. Vennero così edificate nuove costruzioni sfarzosamente decorate ed affrescate. Alcune di esse, nonostante gli stravolgimenti urbanistici avvenuti fino ai giorni nostri, mantengono ancora intatto il loro fascino e sono sempre fonte di sorprendenti scoperte..
Proseguendo nella passeggiata al civ. n. 14 si può ammirare un raffinato portale marmoreo che riproduce la tradizionale scena di S. Giorgio che uccide il drago.
Ai numeri 16 e 18 si nota il basamento in pietra nera di promontorio di una loggia tamponata del XV sec. che in origine, proseguiva in Vico Lavagna e Via ai Macelli di Soziglia e occupava tutto il perimetro del palazzo. I sei archi tamponati, speculari rispetto a quelli della parte residenziale della loggia lato Via Luccoli, un tempo ospitavano le botteghe dei macelli.
Al civ. 11 r si nota sopra un portone bianco un bel fregio con tre cornucopie colme di frutta che sovrasta un’attività commerciale.
Sul retro del civ. n. 22 nel giardino pensile ricoverava, prima di essere trasferito nell’atrio del palazzo di Via Sebastiano 15, un ninfeo con Tritone del XVII sec.
Nella piazzetta al civ. n. 23 si ci imbatte nello spettacolare Palazzo Niccolò Spinola di Luccoli, noto anche come Bertollo già Franzoni. Il portale presenta semicolonne ioniche mentre nel bel atrio con volte alcune colonne barbaramente murate sono semi nascoste dalla vetrina di un negozio di erboristeria. L’edificio è stato completamente ristrutturato nel XVIII sec. e arricchito sul prospetto con eleganti ornamenti in stucco.
Ai civ. 9 r e 24 edicole di Madonne col Bambino o mancanti o mutile.
Al civ. 26 sopra il portale in marmo bianco inciso un motto, per noi genovesi, assai pertinente: “Sumptus Censum non Superet” (la spesa non sia maggiore dell’entrata). Varcato il portone, scale, ballatoio e colonne tutti rigorosamente in marmo con i primi due piani superbamente rivestiti in azulejos.
Infine, sempre al 26 l’edicola gotica del XIV sec. della Madonna col bambino, San Giovanni Battista e San Michele Arcangelo attraversata, senza il minimo rispetto, da un pluviale e offesa da una persiana. Il trittico raffigura la Madonna e il Bambino al centro e ai lati sotto le cuspidi coniche i due santi con S. Michele che calpesta il drago. Alla base una metaforica rappresentazione della grottesca natura umana.
Collocata all’altezza del secondo piano del civ. n. 26 di Via Luccoli si trova un edicola del XIV sec. della Madonna col Bambino, San Giovanni Battista e San Michele Arcangelo, una delle poche in stile gotico della città. Fin qui nulla di strano –direte voi- una delle tante edicole sparse per i caruggi. Peccato che il muro al quale si appoggi risulti sommariamente intonacato e la statua, infastidita da una sbatacchiante persiana, sia affiancata da un orrendo tubo di raccolta delle acque piovane. Per questo l’ho amaramente ribattezzata “la Madonna del pluviale”.
La particolarità di quest’immagine sta nel fatto che non è, come di solito avviene, contenuta in un tempietto, bensì concepita come un trittico di una pala: al centro la statua della Vergine con il bambinello mentre , ai lati, sotto due cuspidi coniche , i santi Giovanni Battista e Michele con quest’ultimo che calpesta il drago.
Alla base una grottesca rappresentazione della natura umana.
Se non erano “Quattro amici al bar che volevano cambiare il mondo…” come nella celebre canzone di Gino Paoli, certo si può ben dire che, già prima della seconda guerra mondiale, c’erano quattro amici in mar che il mondo, per lo meno quello subacqueo, l’avrebbero cambiato per davvero: Duilio Marcante, assieme ai suoi tre amici, Egidio Cressi (che sarebbe stato il fondatore della Cressi Sub), Luigi Ferraro (fondatore poi della Technisub), Ludovico Mares (fondatore della Mares), si dedicò allo sviluppo delle prime strumentazioni per la subacquea, rivoluzionando completamente il settore.
Marcante viene infatti considerato il patriarca della scuola subacquea italiana e a lui, assieme a Luigi Ferraro, si deve la nascita nel 1948 del metodo didattico italiano, mirato all’avvicinamento alla subacquea, sviluppatosi poi fin dal 1957 nei corsi della Federazione Italiana Pesca Sportiva ed Attività Subacquee (FIPSAS).
A Marcante, Mares e Cressi durante la guerra si unirono anche Dario Gonzatti che creò in questi primi laboratori il prototipo sportivo dell’autorespiratore ad ossigeno (ARO) sulla base dello stesso respiratore usato dalla Marina militare italiana e Luigi Ferraro, conosciuto durante una battuta di pesca subacquea. Nacque così la prima moderna scuola subacquea del mondo.
Luigi Ferraro era stato un ufficiale della Marina Militare nella seconda guerra mondiale, pioniere della subacquea italiana. Aveva prestato servizio come palombaro nella Decima Flottiglia MAS della Regia Marina venendo decorato con la medaglia d’oro al valor militare per aver affondato da solo tre navi nemiche.
Terminata la guerra nel 1947 durante una delle tante immersioni effettuate da quei coraggiosi ragazzi qualcosa andò storto e Gonzatti vi perse la vita. Marcante si presentò al funerale del compagno in tenuta da sub e poi, ancora scosso, si recò a scrutare il mare in riva alla baia. Nacque così, in quel momento di profondo dolore, l’idea di Duilio di far costruire la statua battezzata Cristo degli Abissi, un luogo mistico per tutti i sub, in omaggio all’amico scomparso.
Il bronzo della statua creata nella fonderia artistica Battaglia venne ottenuto dalle fusioni di medaglie, elementi navali (perfino eliche di sommergibili americani donati dall’U.S. Navy) e campane.
La scultura, alta circa 2,50 metri, fu realizzata dal celebre artista Guido Galletti e rappresenta il Cristo con le braccia rivolte al cielo verso il Padre Eterno e aperte in segno di pace. Il 29 agosto 1954 la statua venne calata in mare davanti all’abbazia di San Fruttuoso nell’omonima baia a 17 metri di profondità grazie all’intervento della Marina Militare.
Alla morte di Marcante avvenuta nel 1985 sul basamento della statua è stata apposta una lapide in suo ricordo. Nel 2017 in occasione di un intervento di pulizia i sommozzatori di Guardia di Finanza, Capitaneria, Carabinieri, Polizia, Marina Militare e Vigili del Fuoco che avevano effettuato il restauro sotto il coordinamento della Soprintendenza alle belle arti, si sono accorti della scomparsa della targa. La stessa venne ritrovata pochi giorni dopo, non è chiaro se trasportata dal mare o abbandonata dopo un tentativo di furto, sulla spiaggia di san Rossore a Pisa.
Nel 2003 la statua è stata restaurata per preservarla dalla corrosione e dalle incrostazioni e, soprattutto, per riattaccarle la mano staccata da un’ancora, ritrovata dal subacqueo Enea Marrone, per poi essere riposizionata sott’acqua il 17 luglio 2004 su un nuovo basamento, ad una profondità inferiore a quella precedente.
La prestigiosa scuola subacquea genovese è tuttora attiva in Via Cinque Maggio 2/C e si chiama Unione Sportivi Subacquei “Dario Gonzatti”, fondata nel lontano maggio 1948 da Luigi Ferraro, Duilio Marcante, Egidio Cressi e altri soci, in onore dell’amico scomparso.
L’innovativo sodalizio non era stato ancora costituito quando Luigi Durand de la Penne (anch’egli genovese purosangue) il 18 dicembre 1941, al comando di una formazione di palombari si rese protagonista dell’eroica impresa della notte di Alessandria. In quel frangente dimostrò di essere della stessa pasta dei suoi colleghi affondando una nave e un sommergibile inglese.
Sempre nel 1948, anno di fondazione, si tennero all’isola d’Elba i primi corsi del mondo di scuola subacquea. Fu sempre l’USS di Genova a pubblicare la prima rivista del mondo di cultura subacquea. Genova, nei decenni a seguire, vinse tutte le competizioni del genere: dalla prima crociera sub alle Isole Tremiti nel 1950 alle varie competizioni di foto sub, nuoto pinnato, caccia sub. Sempre per merito di Ferraro ma anche di Duilio Marcante e delle loro prove sull’adattamento fisiologico dell’uomo in immersione, si arrivò, in collaborazione con l’Università di Genova a cognizioni che aprirono quello che fino ad allora era un territorio vergine della ricerca.
Si passò così dalle rudimentali pinne ai modelli “rondine”, tuttora insuperate. Fu sempre il Ferraro ad organizzare una settimana ininterrotta di vita in una capanna sottomarina per il figlio, che superò la prova brillantemente. Sempre i genovesi convocarono nel 1964 nella nostra città l’assemblea Generale della Confederazione Mondiale delle attività subacquee alla quale partecipò il fior fiore dell’oceanografia mondiale. Fra gli altri: J.J. Cousteau, Dumas, Bond, Piccard.
Il tempio di questi coraggiosi pionieri si trova qui nel mare di Camogli all’interno dell’area protetta del parco marino di Portofino dove nuota un Cristo sott’acqua che volge lo sguardo al cielo.