Sul lato di levante delle Mura Nuove erette nel 1637, subito dopo il Castellaccio, è situata la Porta delle Chiappe (o di S. Simone). Il Brusco indicava il tracciato di una «strada che conduce alla Baracca del Puin, alla Torrazza e a Croce d’Orero».
In origine, come indicano chiaramente i disegni del Codeviola, la Porta esterna di S. Simone non aveva ponte levatoio, ma una semplice rampa in legno, posta a passerella che conduceva al piazzale esterno; nelle successive trasformazioni del XIX sec. l’intero piano della galleria fu abbassato di circa m. 1,30 e di conseguenza furono abbassate le arcate dei due portali estremi. Su quello esterno, incorniciato da un arco in pietra, fu sistemato un ponte levatoio di cui rimangono solamente i fori per il passaggio delle catene di sollevamento. I due stipiti della Porta furono rinforzati da due paraste in mattoni che salivano verticalmente fino alle mensole della garitta. Infine l’intero piano superiore fu demolito e spianato per permettere il passaggio della strada militare, che doveva proseguire senza interruzioni, lungo i rampari del Bisagno fino allo Sperone.
Tratto da “LeFortificazioni di Genova” di Leone Carlo Forti)
In Copertina: Porta delle Chiappe. Foto di Giovanni Cogorno.
Nel 1893 a marzo la Principessa Sissi venne a Genova in incognito, a settembre nacque il Genoa CFC e di lì a poco si stabilì la costruzione del Mercato Orientale.
Con delibera pertanto del 21 ottobre di quell’anno vennero incaricati gli ingegneri comunali Veroggio, Bisagno e Cordoni per dare una sede stabile al mercato dei prodotti agricoli che arrivavano dalla val Bisagno.
Fino a quel momento infatti i bezagnini portavano le loro merci nelle piazze di De Ferrari e dell’Annunziata.
Il nome del nuovo mercato derivava dal fatto che la sua posizione era ad oriente rispetto al centro cittadino di allora.
Il Mercato Orientale di Genova si trova nella scenografica area del chiostro del convento degli Agostiniani annesso alla chiesa della Consolazione.
Del chiostro originario, il mercato comprende i colonnati ai lati posti verso la chiesa e verso la via XX Settembre nonché il portale chiuso sulla piazzetta di accesso al mercato da via Galata, mentre gli altri due lati sono stati completati con la realizzazione del mercato.
In occasione di tale conversione il Mercato Orientale fu il primo edificio costruito a Genova in calcestruzzo armato con la tecnica del sistema Hennebique.
Il mercato fu concepito all’aperto ed è stato successivamente coperto da lucernai per aumentare lo spazio interno disponibile. Le decorazioni sono in marmo bianco, mentre l’originale pavimento in pietra è oggi purtroppo parzialmente coperto da cemento. L’ala dell’edificio affacciata su via XX Settembre ha ospitato per anni gli uffici finanziari, dal 1931 trasferiti nella nuova imponente sede di via Fiume.
In quella sede 40 anni più tardi mio padre vi avrebbe ricoperto il ruolo di Direttore ed ogni giorno terminato il lavoro, lui grande cultore della buona cucina, in quel mercato vi si recava fiducioso di trovare quel che cercava.
Il Mog occupa una superficie di 5500 metri quadrati. Comprende un piano sotterraneo suddiviso in 42 magazzini ed un pianterreno formato da un porticato perimetrale colonnato che si sviluppa per circa 360 metri. Il mercato ha cinque accessi, di cui due da via XX Settembre, compreso l’ingresso principale a cinque arcate, due da via Galata e uno da via Colombo.
I lavori finalmente si conclusero nel luglio del 1898 e il 2 giugno 1899 il mercato fu inaugurato dal sindaco Francesco Pozzo con una mostra floreale.
Nel dicembre 2017 è stato presentato un progetto per il restauro conservativo e la valorizzazione del piano rialzato dell’edificio, dove è stato realizzato un food market con bar, postazioni per degustare prodotti tipici, scuola di cucina e uno spazio per incontri culturali ed eventi.
La nuova struttura purtroppo inaugurata in pieno covid nel maggio 2019 è oggi, animata dai suoi vivaci locali, assai frequentata.
Il Mog di Genova ha saputo dunque modernizzarsi strizzando l’occhio allo street food, senza per questo rinunciare alla sua storia. Colori, aromi e profumi, sono quelli di sempre.
Se da una parte purtroppo sono quasi sparite le antiche tripperie (ne è rimasta una sola) che occupavano l’ala lato via Galata, dall’altra bezagnini, pesciai, formaggiai, maxellai, pollerie e gastronomie varie continuano ancora a farla da padrone. Qui si trovano primizie ed ogni genere di mercanzie altrimenti difficili da reperire altrove.
A proposito di mercati storici tutti conoscono la celeberrima e più antica Boqueria di Barcellona costruita nel 1836 che in Catalogna è divenuta addirittura una ricercata attenzione turistica.
Credo che il nostro Mercato che è grande il doppio e non meno storicamente affascinante della Boqueria possa in futuro, seguendone l’esempio, ottenere lo stesso successo.
Per quelli della mia generazione, non essendo purtroppo più fruibile il bianchetto, il rossetto ne è più che mai divenuto irrinunciabile sostituto.
Il rossetto infatti è un piccolo pesce (Aphia minuta) molto utilizzato nellagastronomia ligure. Gli esemplari adulti al massimo raggiungono i 6 cm ma in genere è lunga 3/4 cm.
Secondo il Regolamento Europeo CE n. 1967 del 2006 sulla pesca nel Mediterraneo anche il rossetto è una specie definita ‘a rischio’. La sua raccolta è permessa ma è subordinata all’approvazione di piani di gestioneperché l’obiettivo della legislazione vigente è fare in modo che il prelievo sia sostenibile e responsabile.
Dall’entrata in vigore infatti di tale disposizione relativa alle misure di gestione per lo sfruttamento sostenibile delle risorse della pesca nel Mar Mediterraneo, in base all’art. 15 (taglie minime degli organismi marini) ne è vietata la pesca, la tenuta a bordo, lo sbarco, il trasferimento, l’immagazzinamento e la vendita.
I “gianchetti” (bianchetti) di cui accennavo prima, invece, sono il novellame (i piccoli) del pesce azzurro (ma non solo), in particolare acciughe e sardine pescate nel Mar Mediterraneo.
E allora da tempo nella famosa frittata ai bianchetti si sono sostituiti i rossetti.
In una ciotola sbattere le uova con un pizzico di sale, aggiungere il parmigiano grattugiato, il latte e la lattuga. Amalgamare e poi aggiungere i rossetti. Mescolare bene.
Fare scaldare bene un filo d’olio evo in una padella antiaderente e poi versare il composto di uova e rossetti. Lasciare che la frittata cuocia con un coperchio, a fiamma moderata, fino a quando la base non si rapprende.
Poi, con l’aiuto di una spatola in silicone, staccare delicatamente i bordi della frittata e farla scivolare in un piatto piatto e largo, con molta cautela. Mettere sopra un secondo piatto, capovolgerla e farla scivolare nuovamente nella padella.
Finire la cottura e metterla ad asciugare su carta assorbente.
Servirla in un piatto tiepida o a temperatura ambiente con una bella insalata di contorno e un buon bicchiere di Vermentino o Pigato.
Nella frittata e nella farinata i rossetti sono ottimi ma io continuo a preferirli appena sbollentati qualche secondo e conditi con un filo di olio extra vergine
In Copertina: Frittata di Rossetti. Foto e preparazione di Emanuele Silvano Foppiani.
La rappresentazione della natività si dipana fra la città e il porto di Genova con figure orientali che rappresentano da sempre la multi etnicità di una città aperta ai commerci e al mondo.
Il presepe in vetrina – come battezzato dai suoi curstori Giulio Sommariva e Simonetta Maione – dei Musei di Strada Nuova è stato allestito a Palazzo Rosso in una scenografica teca, visibile da via Garibaldi.
Le statuine che animano le scene con la Sacra Famiglia, i pastori e i nobili sono in gran parte dovute all’opera di Pasquale Navone che, pur nato dopo la morte del Maestro, si formò alla bottega del Maragliano.
In tutto circa 30 statuine – alcune delle quali provenienti dalle collezioni civiche, in particolare dal Museo Giannettino Luxoro di Nervi – ispirate dalle stampe seicentesche e settecentesche dell’incisore Antonio Giolfi e del pittore fiammingo Cornelis de Wael. Si riconoscono ad esempio Piazza Banchi e ponti Spinola, Reale e Calvi sotto la futura Piazza Caricamento.
Si tratta di figure a manichino in legno con parti visibili scolpite e policromate e rivestite con tessuti pregiati, tra i quali sete finemente ricamate e tele jeans del 700.
Il presepe è illuminato e visibile anche la sera per tutti coloro che si troveranno a transitare in via Garibaldi e resterà aperto fino al 5 febbraio.
Quando si pensa ai Liguri l’associazione con il mare, vista la gloriosa storia della Repubblica marinara e dei suoi intrepidi naviganti, diventa imprescindibile.
Eppure i Liguri, che sono da considerarsi la più antica popolazione italica di cui si abbia notizia, erano essenzialmente dei montanari costretti per necessità a navigare.
La fonte più antica che cita i Liguri è rappresentata dalla versione di un frammento di Esiodo (fine VIII-inizi VII secolo a.C.), riportato da Strabone che cita i Liguri (Libuas, Libui o i Libi) insieme agli Etiopi e agli Sciti come i più antichi abitanti del mondo: “Etiopi, Liguri e Sciti allevatori di cavalli”.
Esiodo considera i Liguri la principale Nazione dell’Occidente, elencate i tre grandi popoli che definisce barbari, che controllavano il mondo allora conosciuto, gli Sciti a Oriente, gli Aetiopi nell’Africa, i Liguri a Occidente.
Ad esempio Diodoro Siculo descrive una razza di individui “tenaci e rudi, piccoli di statura, asciutti, nervosi… Costoro abitano una terra sassosa e del tutto sterile e trascorrono un’esistenza faticosa ed infelice per gli sforzi e le vessazioni sostenuti nel lavoro. E dal momento che la terra è coperta di alberi, alcuni di costoro per l’intera giornata, abbattono gli alberi, forniti di scuri affilati e pesanti, altri, avendo avuto l’incarico di lavorare la terra, non fanno altro che estrarre pietre… A causa del continuo lavoro fisico e della scarsezza di cibo, si mantengono nel corpo forti e vigorosi. In queste fatiche hanno le donne come aiuto, abituate a lavorare nel medesimo modo degli uomini. Vivendo di conseguenza sulle montagne coperte di neve ed essendo soliti affrontare dislivelli incredibili sono forti e muscolosi nei corpi… Trascorrono la notte nei campi, raramente in qualche semplice podere o capanna, più spesso in cavità della roccia o in caverne naturali… Generalmente le donne di questi luoghi sono forti come gli uomini e questi come le belve… essi sono coraggiosi e nobili non solo in guerra, ma anche in quelle condizioni della vita non scevre di pericolo” (Diod. IV,20,1.23).
L’esigenza di navigare, abilità poi perfezionata al tempo dei greci e dei romani, nasce in epoca antichissima quando i Liguri erano noti nel Mediterraneo per il commercio della preziosissima ambra baltica e, per questo, erano detti Ambrones. Con lo sviluppo delle popolazioni celtiche i Liguri si ritrovarono a controllare un cruciale accesso al mare, divenendo (a volte loro malgrado) custodi di un’importante via di comunicazione.
«Navigano eziandio per cagione di negozi pel mare di Sardegna e di Libia, spontaneamente esponendosi a pericoli estremi; si servono a ciò di scafi più piccoli delle barchette volgari; né sono pratici del comodo di altre navi; e ciò che fa meraviglia, si è che non temono di sostenere i rischi gravissimi delle tempeste.»
Il mare allora diventa ambito indispensabile per il sostentamento quotidiano (pesca), per il commercio con la speranza sempre rivolta oltre quell’azzurro infinito orizzonte.
Ma il mare significa anche lontananza da casa, precarietà, guerra, invasioni nemiche, tempeste, paura di perdere i propri beni, la morte. Un’eterna scommessa dunque sintetizzata con essenziale pragmatismo dall’atavico detto popolare:
O mâ o l’é o mâ (il mare è il mare/male) palindromo che si può leggere anche in senso inverso.
Non a caso mare e male in lingua genovese si scrivono e pronunciano alla stessa maniera.
In Copertina: mareggiata a Deiva Marina (Sp). Foto di Anna Daneri.
Muscoli o cozze? questo è il problema. Qualche anno fa persino l’Accademia della Crusca è intervenuta in merito all’amletica questione sentenziando come entrambe le forme siano corrette.
Gli stessi esperti hanno però precisato che, in virtù dell’utilizzo più frequente nella nostra Penisola del vocabolo “cozza” (sopratutto al Sud) quest’ultimo termine sia da preferirsi.
Nonostante ciò noi liguri non ci rassegniamo e continuiamo comunque a chiamare, non senza giustificato motivo, i mitili “muscoli”.
Se è vero infatti che entrambe le parole derivano dal latino, delle due la forma più antica risulta essere quella di “musculus”dalla quale hanno avuto origine anche i corrispondenti termini di numerose lingue europee.
Ad esempio: il tedesco Muscheln, l’inglese mussels, il francese moules, il portoghese mexilhão, il catalano musclos, l’olandese mosselen, il danese muslinger, lo svedese musslor.
Il primo a farne menzione è addirittura Plinio il Vecchio (23-79 d.C) che mel suo trattato enciclopedico Naturalis historia (Storia naturale, libro XXXII, par. 150) ne descrive addirittura il metodo di coltura.
Ancora a fine ‘800 in Liguria gli addetti alla raccolta dei muscoli erano detti “muscolari”.
Tra i tanti modi in cui si cucinano i muscoli nella nostra regione sicuramente uno dei più appetitosi è quello alla spezzina.
In questa ricetta i gustosi mitili vengono farciti con un ripieno di mollica di pane imbevuta nel latte, parmigiano, aglio, mortadella, odori e cotti in una salsa di pomodoro insaporita con cipolla.
Un buon bicchiere di Vermentino come accompagnamento e la soddisfazione dei commensali è garantita.
Nelle pescherie liguri dunque quando vi rivolgete al pescivendolo (pesciaio in genovese) chiamate i mitili muscoli perché altimenti con il termine cozze rischiereste non solo di non essere compresi ma anche di essere guardati con sospetto.
1 kg muscoli
60 g mortadella
90 g panini al latte
50 ml latte
1 tuorlo
2 cucchiai parmigiano Reggiano (grattugiato)
1 cucchiaino prezzemolo
1 cucchiaino timo
2 pizzichi pepe nero
1 spicchio aglio
Per il sugo: 300 gr di pomodori pelati, olio, una cipolla piccola o uno spicchio d’aglio, mezzo bicchiere di vino bianco secco e qualche foglia di basilico sminuzzata all’ultimo.
Rispetto alla ricetta sopra descritta io personalmente non metto la mortadella e riduco un pò la dose del formaggio in modo da privilegiare, a scapito della sapidità d’insieme, il gusto del pesce
In Copertina: muscoli ripieni. Foto e preparazione dell’autore.
In Vico dell’Arancio 9r. si trova quel che resta di una settecentesca edicola di Madonna col Bambino.
Il tabernacolo marmoreo a tempietto è in stile classico.
Purtroppo la statua della Vergine, così come il rilievo raffigurante Dio Padre Benedicente che si trovava nel timpano è stato trafugato. Si è salvato invece, sotto la mensa, il rilievo di un cherubino alato.
Anticamente nel 1200 tutta la zona occupata da vico indoratori e dagli attigui Piazza dei Ragazzi, Vico dei Carlone e Vico Scudai costituiva il principale collegamento fra la zona del futuro palazzo ducale e il mare.
A partire dal ‘500 vi si insediarono le botteghe dei doratori ovvero quegli artigiani che rivestivano le armi e decorazioni in legno con sottili e pregiate lamine d’oro.
Così mentre Campetto era il campo dei fabbri, Scurreria e Vico Scudai si specializzarono negli ornamenti degli scudi.
All’inizio del caruggio si notano le fasce in conci bicromi del palazzo medievale al civ. n.1 la cui loggia è stata tamponata con intonaco dozzinale ed invadenti finestrature in ferro.
In Copertina: Vico Scudai. Foto di Giovanni Cogorno.
Il toponimo rimanda al nome della famiglia proveniente dall’omonima città albanese.
Costoro che giunsero a Genova attorno al 1350 divennero una delle schiatte più influenti della città.
I Durazzo annoverarono tra le loro file decine di senatori, due cardinali Marcello nel 1683 e Stefano nel 1633 che ricoprì anche la carica di arcivescovo e ben nove dogi: Giacomo di Giovanni nel 1573, il figlio Pietro nel 1619, Gio-Batta di Vincenzo nel 1639, Cesare figlio del precedente Pietro nel 1665, suo figlio Pietro nel 1685, Vincenzo di Gio-Matteo nel 1709, Stefano di Pietro bel 1734, Marcello nel 1787 e Gerolamo, forse il più famoso per la sua inconsapevole parte nella nascita della maschera piemontese di Gianduja, nel 1802.
Il nome del caruggio rimanda alla lavorazione in loco delle “cavigge”, grossi chiodi di legno o ferro utilizzate per fissare le corbe nelle stive delle navi.
Il pezzo forte del caruggio però è un sovrapporta in pietra nera del XV secolo al civ. n.21 che ritrae il Dio Padre che mostra il Bambino avvolto in una raggiera all’Imperatore Ottaviano Augusto raffigurato in ginocchio ed in adorazione. Alle sue spalle la Sibilla che consiglia al Sovrano di rivolgersi il preghiera direttamente a Gesù. Fanno da sfondo i sette colli di Roma.
La rappresentazione trae origine dal racconto secondo cui la Sibilla Tiburtina nel tempio di Giunone Moneta avrebbe predetto all’Imperatore l’avvento del Cristo, l’unico vero re degno di adorazione. Secondo la tradizione nel cielo apparve una raggiera di fuoco con al centro la Vergine e il suo Bambino.
“Haec est ara primogeniti” proclamò una voce divina. Fu così che Ottaviano rifiutò di farsi chiamare Signore e abbracciò la vera fede. Nel luogo dove in Campidoglio avvennero i fatti i francescani eressero la basilica di Santa Maria in Aracoeli.