In primo piano il Ponte Romano costruito per attraversare il torrente Nervi. Si tratta di un classico ponte a schiena d’asino costruito però nel Medioevo probabilmente su fondamenta di epoca romana.
Sullo sfondo si staglia l’imponente edificio di Villa Gnecco, una costruzione caratterizzata, alla maniera delle fortificazioni, da una struttura a angoli rinforzati con corpi angolari avanzati che racchiudono la loggia a tre arcate al centro.
Nella seconda metà dell’Ottocento la villa venne trasformata nella celebre Pensione Bonera, il piu antico albergo di Nervi ancora in attività.
Secondo alcune fonti la villa fu costruita sulle rovine di un antico tempio dedicato a Nettuno. L’edificio risale ai primi anni del Cinquecento ed appartenne ai conti Gnecco Nin di S. Tomaso. Nel 1733 fu oggetto di importanti lavori di ricostruzione che lo trasformarono nelle forme attuali.
Il pionieristico hotel fu tra i primi a promuovere la Nervi turistica e divenne meta prediletta di illustri e facoltosi ospiti provenienti da ogni angolo d’Europa.
All’inizio del ‘900 era frequentato da una cosmopolita comunità di artisti tedeschi, svizzeri, olandesi, russi, inglesi, austriaci e italiani.
Salita alla Spianata di Castelletto conduceva all’omonima zona che in epoca romana era chiamata monte Albano.
Agli albori del X secolo questa contrada disabitata si trovava fuori le mura ed era puntellata da una torre difensiva nominata – appunto – Castelletum.
Fu a partire dal XIII sec. che sulle pendici del monte Albano, nel frattempo inglobato nella cinta muraria, iniziarono a costruirsi le prime case.
Il castello raggiungibile da salita San Gerolamo o da una strada che si dipanava dalla Zecca, iniziò ad ingrandirsi fino a raggiungere nel ‘500 le fattezze di un imponente fortezza con quattro torrioni, cinto da un secondo ordine di mura e torrette minori.
Laggiù in fondo alla discesa il mare, il porto, la Lanterna, Genova.
La Grande Bellezza…
“Genova mia città intera. Geranio. Polveriera. Genova di ferro e aria, mia lavagna, arenaria. Genova città pulita. Brezza e luce in salita. Genova verticale, vertigine, aria scale”
Secondo alcuni storici l’origine del toponimo del caruggio e della piazzetta del Roso deriva dalla traduzione dal latino arcaico del termine giunco.
Per altri invece l’interpretazione corretta sarebbe quella legata alla lavorazione della corteccia della quercia fatta macerare e utilizzata per la concia delle pelli.
Per altri ancora invece sarebbe collegabile ad una località, appunto del Roso, sita nei pressi di Fontanegli.
Qui nella silenziosa piazzetta sul retro della trafficata Via Balbi, ormai sepolta dal progressivo inurbamento, rimane una triste edicola affiancata da una lapide abbandonata.
Testimonianza secolare della presenza dei Balbi e delle loro proprietà la tavella racconta della concessione pubblica di attingere l’acqua dal proprio pozzo fatta da Francesco.
In Via Fontane sotto il porticato che conduce all’Aula Magna dell’Università fa bella mostra di sé una spettacolare Annunciazione di incerta datazione.
Prima delle ristrutturazioni di fine ‘900 al posto di questo edificio completamente rifatto si trovava la millenaria, con annesso ospitale, chiesa di S. Fede sede nel 1142 dei cavalieri Templari del Santo Sepolcro. Oggi gli ambienti superstiti dopo la secentesca risistemazione ospitano aule e locali universitari.
A testimonianza del secolare passato rimangono ancora tre navate e sul retro il piccolo chiostro.
Le opere d’arte, i marmi e gli arredi furono trasferiti nell’omonima moderna chiesa di Corso Sardegna.
Nel 1937 in onore di Eugenia Ravasco fondatrice della congregazione delle Madri Cristiane e promotrice delle scuole femminili gratuite, la Via al Ponte di Carignano muta il suo toponimo assumendone il nome.
Qui, in Via Ravasco 13 sul palazzo Drago proprietà del benefattore che, come ricordato da apposita lapide, donò la cancellata di protezione al ponte per evitare i suicidi, si trova la Madonna dell’Immacolata Concezione.
Si tratta di un grande medaglione barocco in stucco del sec.
XVII – XVIII chiuso in cima da una conchiglia dalla quale si dipanano motivi a
ricciolo.
Al centro dell’ovale la statua della Madonna, con braccia al seno e espressione estatica, è impreziosita da una piccola corona di stelle. Alla base la sorreggono dei cherubini che spuntano dalle nubi. Il cartiglio è muto.
L’edicola così elegante nella sua semplicità, nonostante i ripetuti restauri, versa in precarie condizioni, con crepe negli stucchi e trave di sostegno danneggiato.
A Instanbul il prestigio dei genovesi è testimoniato non solo dal quartiere Galata con relativa torre simbolo della città ma anche dalla contrada che ancora oggi, portandone il nome, celebra il nostro eroe: Cağaloğlu (poiché oglu significa figlio, il figlio di Cigala).
Sette tracce che, fondendo in maniera irripetibile e magistrale suoni e parole, celebrano Genova, il mare e le culture del Mediterraneo.
Fra queste canzoni emerge da un lontano passato la storia del nostro nobile concittadino Scipione Cicala che, imprigionato dai turchi, ne divenne condottiero e corsaro fino ad ottenere il massimo degli onori possibili per un infedele, ovvero il titolo di Pascià.
“E questa a l’è a ma stöia, e t’ä veuggiu cuntâ”…
“Sinan Capudan Pascià” racconta appunto le vicende del genovese Cicala (“sinan”, dato che in turco ottomano antico Genova si dice “Sina”, significa genovese) che fu catturato nel 1560 a bordo della nave del padre Vincenzo dopo la disfatta della battaglia di Gerba.
Nei pressi dell’isola tunisina ebbe luogo infatti lo scontro che permise ai Turchi di consolidare in maniera inequivocabile la propria supremazia nel Mediterraneo dopo i decenni in cui Andrea D’Oria vi aveva imposto la propria legge.
In quell’occasione il corsaro Dragut aveva infatti sconfitto la flotta cristiana da pochi anni ereditata dal nipote Gian Andrea con il titolo di Capitan general de las galeras de Génova.
Secondo alcune interpretazioni a quasi 94 anni Andrea si spense nel suo palazzo, corroso dai dolori e soprattutto dalla delusione per la notizia della perdita delle sue invitte galee.
Gian Andrea dovette aspettare il 1584 per vedersi riconoscere, al pari dell’illustre avo in precedenza, l’incarico di massimo prestigio della marina spagnola, ovvero quello di Capitan general de la mar.
Non tutti gli storici però concordano su tale antefatto: per alcuni invece Sinan sarebbe stato catturato da Dragut non nei pressi dell’isola tunisina, ma al largo di Marettimo, alle Egadi, mentre con il padre Vincenzo veleggiava verso la Spagna. Era il 18 marzo del 1561 e Scipione aveva appena 17 anni.
Quale che sia la versione corretta di certo il giovane Scipione e il padre Vincenzo vennero catturati entrambi e tradotti prigionieri ad Instanbul.
Vincenzo pagò il proprio riscatto e venne liberato ma, per carenza di fondi, non quello del figlio. Fu così che Scipione per non finire ridotto in schiavitù, legato a qualche banco di voga a remare, abiurò la propria fede e si arruolò nel corpo scelto degli Giannizzeri.
Per via di questo suo opportunistico cambio di campo religioso, venne disprezzato e battezzato dai Cristiani “rénegôu”:
“E digghe a chi me ciamma rénegôu
che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu
Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü
giastemmandu Mumä au postu du Segnü”.
Ma Scipione bestemmiando Maometto al posto del Signore fece presto carriera dimostrando coraggio e abilità nautiche salvò la vita ad un importante e potente Bey (nobile ottomano).
Le sue vicende incrociarono con alterne fortune i sultanati di Solimano I il Magnifico, Selim II, Murad III e Maometto III.
Cicala si distinse in numerose scorribande piratesche lungo le coste del sud in generale e della Calabria in particolare fino ad ottenere il massimo dei riconoscimenti dal Sultano Maometto III: Sinán Capudán Pasciá, cioè “il genovese grande ammiraglio della flotta ottomana”.
Cağaloğlu Sinan Kapudan Paşa conosciuto anche per assonanze fonetiche come Sinan Bassà diventerà persino per breve tempo Gran Visir e Serraschiere del Sultano di Costantinopoli.
Teste fascië ‘nscià galéa ë sciabbre se zeugan a lûn-a a mæ a l’è restà duv’a a l’éa pe nu remenalu ä furtûn-a
Teste fasciate sulla galea le sciabole si giocano la luna la mia è rimasta dov’era per non stuzzicare la fortuna
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu tundu che quandu u vedde ë brûtte u va ‘nsciù fundu
in mezzo al mare c’è un pesce tondo che quando vede le brutte va sul fondo
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu palla che quandu u vedde ë belle u vegne a galla
in mezzo al mare c’è un pesce palla che quando vede le belle viene a galla
E au postu d’i anni ch’ean dedexenueve se sun piggiaë ë gambe e a mæ brasse neuve d’allua a cansún l’à cantà u tambûu e u lou s’è gangiou in travaggiu dûu
E al posto degli anni che erano diciannove si sono presi le gambe e le mie braccia da allora la canzone l’ha cantata il tamburo e il lavoro è diventato fatica
vuga t’è da vugâ prexuné e spuncia spuncia u remu fin au pë vuga t’è da vugâ turtaiéu e tia tia u remmu fin a u cheu
voga devi vogare prigioniero e spingi spingi il remo fino al piede voga devi vogare imbuto (= mangione) e tira tira il remo fino al cuore
e questa a l’è a ma stöia e t’ä veuggiu cuntâ ‘n po’ primma ch’à vegiàià a me peste ‘ntu murtä
e questa è la mia storia e te la voglio raccontare un po’ prima che la vecchiaia mi pesti nel mortaio
e questa a l’è a memöia a memöia du Cigä ma ‘nsci libbri de stöia Sinán Capudán Pasciá
e questa è la memoria la memoria del Cicala ma sui libri di storia Sinán Capudán Pasciá
E suttu u timun du gran cäru c’u muru ‘nte ‘n broddu de fàru ‘na neutte ch’u freidu u te morde u te giàscia u te spûa e u te remorde
e sotto il timone del gran carro con la faccia in un brodo di farro una notte che il freddo ti morde ti mastica ti sputa e ti rimorde
e u Bey assettòu u pensa ä Mecca e u vedde ë Urì ‘nsce ‘na secca ghe giu u timùn a lebecciu sarvàndughe a vitta e u sciabeccu
e il Bey seduto pensa alla Mecca e vede le Uri su una secca gli giro il timone a libeccio salvandogli la vita e lo sciabecco
amü me bell’amü a sfurtûn-a a l’è ‘n grifun ch’u gia ‘ngiu ä testa du belinun amü me bell’amü
amore mio bell’amore la sfortuna è un avvoltoio che gira intorno alla testa dell’imbecille amore mio bell’amore
a sfurtûn-a a l’è ‘n belin ch’ù xeua ‘ngiu au cû ciû vixín e questa a l’è a ma stöia e t’ä veuggiu cuntâ
la sfortuna è un cazzo che vola intorno al sedere più vicino e questa è la mia storia e te la voglio raccontare
‘n po’ primma ch’à a
vegiàià
a me peste ‘ntu murtä
e questa a l’è a memöia
a memöia du Cigä
ma ‘nsci libbri de stöia
Sinán Capudán Pasciá.
un po’ prima che la
vecchiaia
mi pesti nel mortaio
e questa è la memoria
la memoria di Cicala
ma sui libri di storia
Sinán Capudán Pasciá
E digghe a chi me ciamma rénegôu che a tûtte ë ricchesse a l’argentu e l’öu Sinán gh’a lasciòu de luxî au sü giastemmandu Mumä au postu du Segnü
E digli a chi mi chiama rinnegato che a tutte le ricchezze all’argento e all’oro Sinán ha concesso di luccicare al sole bestemmiando Maometto al posto del Signore
intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu tundu che quandu u vedde ë brûtte u va ‘nsciù fundu intu mezu du mä gh’è ‘n pesciu palla che quandu u vedde ë belle u vegne a galla
in mezzo al mare c’e un pesce tondo che quando vede le brutte va sul fondo in mezzo al mare c’è un pesce palla che quando vede le belle viene a galla.
A Istanbul il prestigio dei genovesi è testimoniato non solo dal quartiere Galata con relativa torre simbolo tuttora della città ma anche dalla contrada che ancora oggi, portandone il nome, celebra il nostro eroe:
Cağaloğlu (poiché oglu significa figlio, il figlio di Cigala).
In Via Prè all’angolo all’altezza del civ. 30r si notano i resti di un’imponente edicola barocca. Del dipinto originale di cui rimangono sbiadite tracce non si conoscono i protagonisti.