“Arrivato a Voltri, scorsi finalmente da lontano la grande lanterna del porto di Genova; ormai la separava da noi solo una bella pianura. […] Da Voltri a Genova è, si può dire, una sola via, lunga tre leghe, fiancheggiata a destra dal mare e a sinistra da magnifiche case di campagna tutte affrescate. A chi ha veduto questo, non si venga più a parlare dei dintorni di Parigi o di Lione, o delle bastides di Marsiglia”.
“Strada Nuova, Via Aurea un tempo, Via Garibaldi oggi”.
“Le case sono ben più alte che a Parigi; ma le vie sono così strette che Mypont vi può confermare che non esagero se vi dico che la metà di esse non ha più di un braccio di larghezza, per quanto le fiancheggino case di sette piani; di modo che, se da una parte questa città, in quanto a edifici è molto più bella di Parigi, dall’altra ha lo svantaggio di non poter mostrare quanto vale a causa della cattiva distribuzione urbanistica. Del resto, mi sembra che ci sia un che di ridicolo nell’aver adoperato lo stile architettonico più maestoso, sulle aree più ristrette. I palazzi spesso non hanno né giardini né cortili, almeno che si possano chiamar tali. Quando si entra nelle case, vi imbattete magari in quattro peristilii a colonne sovrapposte, messi a racchiudere uno spazio di venti piedi quadrati. Così è dappertutto, eccetto qualche casa della strada Nuova e della strada Balbi, le due più belle della città superiori a quanto di meglio c’è a Parigi.
Strada Nuova, odierna Via Garibaldi, un tempo Via Aurea:
“Quando attraversai Strada Balbi e Strada Nuova, quelle strade tutte palagi, arrestando con istupore lo sguardo sul lusso d’architettura che si estendea per ogni parte d’intorno a me; e quando su l’imbrunire del giorno mi trovai passeggiando fra una bella e giuliva calca di gente che andava a diporto lungo i viali cui fa ombra un curvilineo filare di alberi su la piazza dell’Acqua Verde, o fra i colonnati e i terrazzi de’ maestosi giardini Doria, io pensai ch’uomo non potesse altrove, fuorché in Genova, esser beato”.
Cit. Washington Irvin. Scrittore americano (1783 – 1859).
“Non lontano da Genova, sulla cima dell’Appennino, si vede già il mare. Fra i verdi cocuzzoli delle montagne compaiono i flutti azzurri, e le navi che si scorgono qua e là sembrano voler salire sui monti a vele spiegate. Se però si gode questa vista al crepuscolo, quando gli ultimi raggi di sole iniziano il loro mirabile gioco con le prime ombre della sera e tutti i colori e tutte le forme si intrecciano nebulosamente, allora par d’essere veramente in una fiaba, la carrozza scende stridendo, le immagini più dolci e sonnecchianti nell’anima vengono bruscamente scosse e tornano ad appisolarsi, e infine si sogna d’essere a Genova”.
“S’è fatto tardi. È già buio. Ne approfitterò per godermi ancora una volta – anche se sa un po’ troppo di cartolina illustrata – l’imparagonabile spettacolo della Genova notturna. Dalle bianche lune delle navi […] o dalle gialle fiamme della zona industriale, è tutto un rincorrersi e un salire di lunghe file di luci: linee oblique, linee orizzontali, linee verticali, tutte da dar l’impressione d’una vetrina di gioielliere in pieno scintillamento. O, se vogliamo un’immagine meno logora, di un firmamento rovesciatosi sulla terra e sul mare.”
“Non è nei vasti campi o nei grandi giardini che vedo giungere la primavera. È nei rari alberi di una piccola piazza della città. Lì il verde spicca come un dono ed è allegro come una dolce tristezza”
Il porto nell’odor tenue svanito. Di catrame vegliato dalle lune Elettriche, sul mare appena vivo. Vi si addormentan stanchi i vagabondi. Sotto le nube delle ciminiere.
Ancor fumanti, ancor congiunte al cielo. Abbracciandosi nell’odor del mare. Che culla i loro sogni e i loro amori”.
“Ho visto una bellissima strada, la via Aurelia, ed ora sono in una bella città, una vera bella città, Genova.
Cammino sul marmo, tutto è di marmo: scale, balconi, palazzi. I palazzi si toccano tanto sono vicini e, passando dalla strada, si vedono i soffitti patrizi tutti dipinti e dorati. Vado a visitare le chiese, sento cantare suonare l’organo, guardo i monaci, osservo i paramenti sacri, gli altari, le statue; in altri momenti (ma non so bene quali) forse avrei riflettuto di più e guardato di meno.
Invece qui spalanco gli occhi su tutto, ingenuamente, semplicemente, e forse è molto meglio”.
Cit. Gustave Flaubert
La Grande Bellezza…
In copertina: affreschi di Palazzo Negrone Piazza Fontane Marose n. 4.
Non è un caso che un vecchio detto popolare reciti: “chi sala le acciughe ad aprile perde il sale, le acciughe ed anche il barile”.
A me piace consumarli subito insieme al pane per gustarne tutta la marina sapidità. Altri preferiscono “ingentilirli”, per mitigarne la salmastra intensità, con un ricciolo di burro.
Ad inizio estate nelle case dei genovesi e dei liguri è tradizione procedere alla salagione delle acciughe, i pesci saê. Si inizia già a maggio e a giugno ma il momento migliore è durante la luna piena di luglio perché le acciughe raggiungono in quel periodo la loro massima dimensione.
Non è un caso che un vecchio detto popolare reciti: “chi sala le acciughe ad aprile perde il sale, le acciughe ed anche il barile”.
Fondamentale per una corretta preparazione è la freschezza del pesce che deve essere, e non solo per questioni di gusto, ma soprattutto di salubrità, della nostra riviera: preferibilmente di Camogli o Monterosso.
Alle acciughe vanno tolte le teste, spezzando il pesce e tirando con le mani a livello delle branchie. Per essere sicuri che le interiora siano completamente pulite bisogna passare l’indice all’interno della pancia del pesce, aprendola e togliendo eventuali residui.
Ogni arbanella contiene circa un chilo e mezzo di prodotto e due chili di pesce necessitano di un chilo di sale grosso.
Si cosparge il fondo del vaso di vetro con un pugnetto di sale grosso, due cucchiai da cucina e poi si adagiano i pesci, in una fila da 12-14 pesci disposti testa-coda, con due o quattro pesci ai lati per riempire lo spazio rotondo che avanza ai lati della fila.
Si aggiunge poi un’altra presa di di sale per riempire i buchi fra i pesci e formare un leggero strato sovrastante. Per evitare pericolose bolle d’aria ogni tanto scuotere l’arbanella e aggiustare di sale laddove necessita.
In
croce si fa un altro strato, ossia se hai fatto una fila dall’avanti verso di
te, lo strato successivo lo fai da destra a sinistra. E lo strato successivo lo
fai di nuovo dall’avanti verso di te. Si va avanti così, per 5-6-7 strati
finché non si riempie l’arbanella fino a 2 cm dal bordo.
Giunti a questo punto si riempie di due centimetri di sale fino all’orlo, si mette una pietra piatta o un peso cilindrico di almeno 1 kg al fine di schiacciare il più possibile il contenuto.
Il
pesce così salato, schiacciandosi al massimo, perde i propri liquidi interni e
diminuisce di volume. Deve essere lasciato così schiacciato, al buio e aperto
all’aria, per almeno un mese, meglio due.
L’arbanella può ora essere chiusa per limitare l’evaporazione del liquido ma il pesce deve rimanere comunque sempre schiacciato.
E’ sufficiente anche una comune pietra di mare piatta e rotonda da mezzo chilo. Quando il liquido evapora il pesce va coperto con una salamoia preparata al momento di acqua e sale.
Per la salamoia si fanno sciogliere a caldo due cucchiai di sale grosso in un bicchiere d’acqua che si lascia raffreddare e poi si aggiunge al bisogno. Per due mesi bisogna accertarsi che non si asciughi.
Trascorso il necessario periodo di “salagione” finalmente è possibile, secondo gli esperti per Ognissanti, procedere alla preparazione del pesce: si apre, pulisce e si toglie la lisca.
Io, dopo aver sciacquato i pesci saê con abbondante acqua corrente, li asciugo con cura sopra un tagliere di legno o carta assorbente e poi li dispongo a strati in un contenitore di vetro, ricoperti di olio extra vergine di oliva, aglio a scaglie e un po’ di origano.
Così sono già pronti come base per altre preparazioni, sughi o salse.
A me piace consumarli subito insieme al pane per gustarne tutta la marina sapidità. Altri preferiscono “ingentilirli”, per mitigarne la salmastra intensità, con un ricciolo di burro.
“Una piccola acciuga nel piatto vale più che un tonno in mare”. (Proverbio francese).
In copertina le mie acciughe con i tetti di Genova di sfondo.
Il toponimo Coccagna deriva dalla voce dialettale “cocagna” che indica, a ricordare il fatto che siamo sulla sommità dell’antico castrum, la cima di un colle.
In effetti questo è il punto culminante delle Murette che degradano poi verso Via Ravasco.
Secondo altri l’origine dell’etimo del vicolo sarebbe invece da ricondurre al nome dell’omonima famiglia che abitava nel Medioevo la contrada oppure, addirittura, alla presenza di alberi – appunto – della cuccagna innalzati in zona durante le feste popolari.
Nel cortile del palazzo del civ. n. 1 fa bella mostra di sé un grazioso medaglione tondo, con sbiadite tracce della primitiva colorazione, raffigurante una Madonna col Bambino.
In origine il piccolo settecentesco manufatto in stucco era collocato sulla facciata del palazzo ricostruito poi dopo i bombardamenti del ’43 – ’44.