Nel quartiere di Prè vico di Santa Fede prende il nome dall’omonima chiesa che un tempo, punto di assistenza dei pellegrini in partenza per la Terrasanta, era orientata verso il lato della vicina Piazzetta di Metelino.
Alzando gli occhi si nota ancora il campanile della ex chiesa inglobato nel corpo degli circostanti edifici adibiti ad aule universitarie.
Particolarmente suggestivo è l’angusto passaggio di un varco laterale da non confondersi con la vicina omonima porta di Santa Fede.
In Copertina: Vico di S. Fede. Foto di Stefano Eloggi
Da via Prè addentrandosi in quel reticolo di caruggi che collegano con via Balbi si incontrano luoghi sconosciuti ai più.
Causa la nomea non proprio edificante della zona sono pochi infatti quelli che vi si addentrano non privi di un qualche timore.
Sopra la nicchia vuota dell’edicola votiva vuota una lapide certifica la proprietà e l’utilizzo del pozzo.
Eppure si tratta di un dedalo antichissimo ricco di tracce del passato, purtroppo mal conservato, in cui le edicole votive sono scomparse o rovinate.
Pietre di sbrecciati muri tardo medievali con arcate in laterizio spuntano dai prospetto dei palazzi del ‘600.
Il restauro della piazza avvenuto circa una decina di anni fa, se da un lato ha reso più vivibile il luogo, dall’altro non ha saputo tramandarne l’anima.
Al centro della piazza, al posto dello scomparso pozzo, una bella pianta verde infonde tuttavia speranza creando un legame con il passato.
Sia la via che la piazza del Roso infatti devono il nome alla forma latino arcaica per indicare il giunco.
Non tutti gli esperti però concordano con questa spiegazione: secondo alcuni storici invece il toponimo deriverebbe dalla macerazione delle corteccia di quercia ad utilizzo della concia delle pelli, secondo altri dalla denominazione di una località detta del Roso nei pressi di Fontanegli.
In Copertina: Piazza Inferiore del Roso. Foto di Stefano Eloggi.
Qui, presso la trattoria Gaia, è possibile gustare i piatti della cucina genovese sotto le volte e i mattoni a vista di un palazzo storico o, se preferite, a cielo aperto nel caruggio stesso.
Orgogliosa sventola la Croce di San Giorgio a ricordarci il nostro glorioso passato.
In Copertina: Vico dell’Argento. Foto di Maurizio Romeo.
Fra i dolci di pasticceria secca il canestrello nella nostra regione è senza dubbio fra i più apprezzati.
Diverse località se ne contendono la paternità anche se il canestrello più famoso è quello di Torriglia in Val Trebbia dove ogni anno a giugno se ne celebra la festa.
Qui infatti i proprietari del Bar Caffè di Torriglia nel 1820 contribuirono in maniera significativa alla sua moderna commercializzazione. Oggi i canestrelli sono confezionati da tutte le principali pasticcerie sia industriali che artigianali del territorio e si trovano anche, con imbarazzo della scelta, nei supermercati.
Il canestrello o canestrelleto, il cui nome varia a seconda della località dell’Alta Val Trebbia che si attraversa, un tempo era sinonimo di ricchezza, a tal punto da essere immortalato in una moneta.
Nel 1252 infatti ben sette canestrelli, che divennero poi otto nelle successive coniazioni, fungono da decorazione sull’orlo interno del genovino d’oro.
I canestrelli orlano il castrum effigiato al centro della moneta.
Nel XIII secolo confezionare un dolce con la preziosa farina di frumento bianca era davvero un lusso per pochi e per questo il biscotto divenne sinonimo di opulenza.
I canestrelli avevano forma secondo alcuni di margherita, secondo altri – appunto- di canestri e di qui dunque l’origine dell’etimo.
La prima volta in cui si ha notizia del nome canestrello risale ad un documento del 1576 in cui si racconta di una aggressione ai danni di un mulattiere avvenuta sulla via pubblica della Trebbia.
Il passante infatti era stato acoltellato e derubato di un “cavagno (cesto) di canestrelli“, il cui valore vista la considerazione che avevano quei biscotti, era stato equiparato ad un sacchetto di monete della Repubblica.
I primi a preparare i canestrelli furono i produttori di ostie che, al fine di incrementare i propri introiti, iniziarono a venderli sui sagrati delle chiese, nei mercati e durante le fiere.
L’associazione canestrello/abbondanza è testimoniata anche dal fatto che, ad inizio ‘800 quando Genova faceva parte del Regno di Sardegna, i membri della Confraternita di San Vincenzo di Torriglia pagavano una tassa d’iscrizione di una mutta (la moneta dei Savoia) ricevendo come resto un canestrello.
Ricetta:
I burrosi e friabili canestrelli liguri si gustano al naturale ma si possono anche spolverare con zucchero a velo oppure glassare con cioccolato bianco o fondente.
Ingredienti
500 gr di farina 00
150 gr di zucchero semolato fine
300 gr di burro
1 bacca di vaniglia (opzionale)
3 tuorli medi
1 albume per spennellare (opzionale)
Procedimento:
Mettere la farina a fontana, aggiungere al centro il burro non troppo freddo, i semi di vaniglia, lo zucchero e i tuorli. Impastare fino ad ottenere un panetto compatto, fasciarlo con della pellicola trasparente e riporlo in frigorifero per almeno mezz’ora. Sulla spianatoia, leggermente infarinata, stendere l’impasto allo spessore di circa 1 cm o poco meno. Non va steso troppo sottile perchè i canestrelli originali sono piuttosto spessi. Ritagliare i biscotti e posizionarli su una placca rivestita di carta da forno, lasciarli riposare in frigo nel frattempo che viene fatto preriscaldare il forno, In questo modo si avranno biscotti dalla forma perfetta, se lo si vuole si possono spennellare i biscotti con dell’albume. Infornare a 170C circa, per 15/20 minuti a seconda dello spessore. Sfornare i canestrelli e lasciarli raffreddare qualche minuto prima di trasferirli altrove.
In Copertina: I canestrelli. Foto di Mastercheffa.
Pentema è una frazione di Torriglia (Ge) nota per il suo pesto bianco e soprattutto per il suo celebre presepe.
Il borgo di Péntema che si trova alle falde del monte Antola, è un agglomerato di abitazioni fitte che si allungano sul declivio, dominate dalla grande chiesa, tra muretti a secco e strette viuzze di pietra, sulle quali affacciano i balconi coperti tipici dei paesi dell’entroterra.
In questo suggestivo scenario è stato allestito un presepe contadino che racconta momenti di vita quotidiana dei nostri antenati ricostruiti a grandezza naturale con grande cura e realismo.
Antichi mestieri.
Ed è così che le strade del paese si popolano di personaggi fedelmente riproposti anche nei volti degli abitanti di un tempo; i pastori, il falegname, l’ortolano, il fabbro, il cestaio, il barbiere, il ciabattino, il magnano (ovvero il ferramenta di un volta) diventano protagonisti del loro stesso passato.
Momenti di vita quotidiana e preparazione delle castagne.
I volti delle figure -racconta Don Cazzulo- sono stati infatti scolpiti da un artigiano del paese riprendendo i tratti dei compaesani del passato e, per allestire le 40 scene realizzate nel corso di 27 anni, occorrono due mesi di duro e appassionato lavoro.
A completare la narrazione del tempo che fu è presente un piccolo centro multimediale che, corredato di foto d’epoca e un filmato in DVD, racconta la storia di questa vallata.
Giocatori di carte all’osteria.
Seduti al tavolo da pranzo in cucina.
Il Calzolaio
Materassai.
Lavandaie ai troeuggi.
La scuola.
In Copertina: la Natività. Foto di Antonio Corrado.
A Pentema, un paesino nel Comune di Torriglia che sembra -anzi è un presepe-, da alcuni anni è ripresa l’usanza di preparare una salsa bianca, una sorta di pesto arcaico.
Pentema illuminata di sera sembra un presepe.
Si tratta infatti di un composto a base di aglio con aggiunta di pinoli o noci ma senza basilico.
Tale elaborato trae probabilmente origine dall’agliata ovvero un battuto di olio e aglio di cui si ha notizia fin dal Medioevo.
A ciò si aggiunge la conoscenza dei genovesi, maturata grazie ai commerci con arabi, turchi, persiani e terre del Mediterraneo orientale, di noci, mandorle e pinoli.
Nasce così un pesto bianco con cui già nel XIV, nella versione a base di noci, si condivano le lasagne.
L’aggiunta del basilico che caratterizza in maniera inequivocabile il pesto genovese avverrà solo a metà ‘800, messa nero su bianco nel 1863 nella “Cuciniera genovese ossia la vera maniera di cucinare alla genovese” di G.B. e Giovanni Ratto.
Il pesto di Pentema è dunque una salsa bianca a base di aglio che di solito, ma non sempre, contiene pinoli.
L’ottocentesca cucina di Palazzo Spinola. Foto di Anna Armenise.
Nel cremoso condimento il carattere deciso dell’aglio è bilanciato dalla morbidezza della panna e, se presenti, arricchito dalla gradevole nota dei pinoli (io li metto).
Con il pesto di Pentema si condisce la polenta, le patate e la pasta, soprattutto quella ripiena come i ravioli di magro.
Ingredienti. Quattro spicchi d’aglio, mollica di pane imbevuta nel latte, o un bicchiere di panna fresca, sei cucchiai di parmigiano grattato (in origine si usavano formaggette locali), 25 grammi di pinoli, sale.
Tritare nel mixer l’aglio (meglio nel mortaio), la panna o la mollica? gli eventuali pinoli e il sale, infine aggiungere il formaggio grattato.
Buon appetito!
Dicembre 2016
In Copertina: ravioli di magro della Nuova Locanda del Pettirosso di Pentema.
Nella zona della Maddalena si trova vico Mallone oggi chiuso, come per altro diversi caruggi per motivi di sicurezza, da un imponente cancello.
Il vico trae origine del casato dei Maloni o Mallone provenienti da Quarto nel 1100. Fra questi nel 1263 un tal Pescetto capitano di galee si distinse nelle guerre contro Pisa.
Costoro nel 1305 confluirono nei Cattaneo Della Volta che diedero alla Repubblica ben cinque dogi: Uberto (1528), Leonardo (1541), Giambattista (1691), Nicolò (1736) e Cesare (1748).
La prima intitolata al sacerdote Francesco Maria illustre storico e geografo genovese del ‘700.
La seconda dedicata invece ad Emanuele capitano ed eroe, insieme al più celebre Andrea Doria, della leggendaria impresa della Briglia.
Salita Accinelli. Foto tratta dall’Archivio fotografico del Comune di Genova.
Ad inizio ‘500 queste due strade che si chiamavano Monta dell’Agonia (Salita Cavallo) e Monta della Morte (Salita Accinelli) erano le uniche creuze attraverso le quali era possibile giungere alla zona preposta alle impiccagioni del Castellaccio.
I condannati le percorrevano entrambe: da vivi la prima all’andata, e da cadaveri la seconda al ritorno.
In Copertina: Salita Emanuele Cavallo. Foto di Antonio Corrado.
«Davanti ai negozi de tûtti i speziæ, esposti in bell’ordine pe mettine coæ gh’è un mûggio asciortio de belli offiçieu delizia, sospio de tanti figgieu»
(Nicolò Bacigalupo 1837-1904). Poeta e drammaturgo genovese autore, fra l’altro, di alcune celebri commedie di Govi.
I versi del poeta ci regalano un nostalgico spaccato delle tradizioni dei nostri nonni quando bastava un offiçieu per far contento un bambino e la festa di Halloween apparteneva solo al mondo anglosassone.
Gli offiçieu sono delle candele con un lungo cerino bianco, colorato e decorato da un sottile filo argenteo, piegato più volte fino a conferire la caratteristica graziosa foggia -appunto- ad officiolo (libretto per la recita dell’ufficio dei Morti).
Successivamente vennero aggiunte le forme a scarpette, cappellini, fiaschette, cestini e borsine fino alle più fantasiose recenti rappresentazioni.
Sugli offiçieu si appoggiavano i santini o le immaginette religiose e venivano utilizzati sia per i rosari in casa che per le funzioni serali nelle chiese durante il periodo compreso tra la novena dei morti (24 ottobre) e la commemorazione dei defunti.
L’origine degli offiçieu è incerta. Probabilmente i primi a realizzarli furono le suore di un convento femminile della Val Fontanabuona zona dove infatti quest’antica usanza resiste.
Di certo gli offiçieu, noti anche come òfiçieu, öffiziêu cambiano nome a seconda della zona ma sono patrimonio comune di tutta la Liguria.
A Chiavari si chiamano muchetti, libaeti nel levante ligure e ceiotti ad Imperia e nel ponente.
Nel quartiere del Molo Vecchio sulla destra del Palazzo della Dogana oggi Caserma della Finanza si imbocca vico dei Lavatoi.
L’origine del nome trae origine dal fatto che, tra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700, si rese necessario, per motivi di igiene, l’utilizzo dei trogoli.
“Trogli” che vengono citati per la prima volta alla Marina, nel 1656 per poi diffondersi, vista l’importanza dell’approvigionamento idrico, ovunque ben protetti in prossimità delle Mura.