«Davanti ai negozi de tûtti i speziæ, esposti in bell’ordine pe mettine coæ gh’è un mûggio asciortio de belli offiçieu delizia, sospio de tanti figgieu»
(Nicolò Bacigalupo 1837-1904). Poeta e drammaturgo genovese autore, fra l’altro, di alcune celebri commedie di Govi.
I versi del poeta ci regalano un nostalgico spaccato delle tradizioni dei nostri nonni quando bastava un offiçieu per far contento un bambino e la festa di Halloween apparteneva solo al mondo anglosassone.
Gli offiçieu sono delle candele con un lungo cerino bianco, colorato e decorato da un sottile filo argenteo, piegato più volte fino a conferire la caratteristica graziosa foggia -appunto- ad officiolo (libretto per la recita dell’ufficio dei Morti).
Successivamente vennero aggiunte le forme a scarpette, cappellini, fiaschette, cestini e borsine fino alle più fantasiose recenti rappresentazioni.
Sugli offiçieu si appoggiavano i santini o le immaginette religiose e venivano utilizzati sia per i rosari in casa che per le funzioni serali nelle chiese durante il periodo compreso tra la novena dei morti (24 ottobre) e la commemorazione dei defunti.
L’origine degli offiçieu è incerta. Probabilmente i primi a realizzarli furono le suore di un convento femminile della Val Fontanabuona zona dove infatti quest’antica usanza resiste.
Di certo gli offiçieu, noti anche come òfiçieu, öffiziêu cambiano nome a seconda della zona ma sono patrimonio comune di tutta la Liguria.
A Chiavari si chiamano muchetti, libaeti nel levante ligure e ceiotti ad Imperia e nel ponente.
Nel quartiere del Molo Vecchio sulla destra del Palazzo della Dogana oggi Caserma della Finanza si imbocca vico dei Lavatoi.
L’origine del nome trae origine dal fatto che, tra la fine del ‘600 e gli inizi del ‘700, si rese necessario, per motivi di igiene, l’utilizzo dei trogoli.
“Trogli” che vengono citati per la prima volta alla Marina, nel 1656 per poi diffondersi, vista l’importanza dell’approvigionamento idrico, ovunque ben protetti in prossimità delle Mura.
Damiata, odierna Dumyãt in Egitto, è Damietta l’antica città portuale sul Nilo delle Crociate dove le forze militari occidentali, nel 1248 durante la settima crociata, costituirono un loro avamposto. Avamposto di effimera durata poiché già nel 1250 il territorio fu riconquistato dai Musulmani.
Fu la crociata fallimentare del re di Francia Luigi IX detto il Santo con il quale i Genovesi avevano siglato un cospicuo contratto per l’allestimento e l’armamento delle navi.
In Copertina: Vico dei Lavatoi incrocia Vico Damiata. Foto di Stefano Eloggi.
Al civ. n. 68 di via San Vincenzo l’edificio che ospita oggi il Circolo Ufficiali un tempo era la chiesa di San Vincenzo di Saragozza.
Attiguo alla ex chiesa si trova l’Oratorio delle Anime e di Nostra Signora della Cintura Confraternirta Agostiniana del 1486.
L’attuale intitolazione dell’oratorio deriva dalla fusione di due realtà più antiche, l’Oratorio delle Anime e quello della Madonna della Cintura, afferenti a due distinte confraternite riunite, nel passato, per far fronte alle difficoltà di una gestione troppo impegnativa ed onerosa.
All’ingresso dell’oratorio una lapide recita:
Triumphale et Sacrum Nunc Sum / Quia Evangelium Christi Nuntians / De Paganis Barbarisque Triumphavit. As MCMXCV (X). Marmor ex Aditu Conv. Consolationis.
Secondo la tradizione in questo sito nel I sec. d. C. ebbero dimora i santi Nazario Celso e qui si edificò una primitiva cappella in loro onore trasformata poi nel XVIII secolo in oratorio con il titolo di N. S. del Rosario sede dell’omonima confraternita.
Passata la proprietà della struttura nelle mani della parrocchia di San Vincenzo vi si insediarono le Confraternite delle Anime Purganti e della Cintura. Quest’ultima infatti, in seguito ai lavori di costruzione della nuova Via XX Settembre, aveva visto demolire la propria sede che si trovava nei pressi della chiesa della Consolazione.
Con l’intitolazione di Madonna della Cintura esistevano anche altri due oratori Agostiniani, uno presso l’odierna Corso Montegrappa, l’altro vicino alla chiesa di S. Agostino in Sarzano.
L’ambiente interno, ristrutturato come testimoniato da apposita lapide nel 1737, si sviluppa intorno all’altare su cui spicca un dipinto raffigurante N. S. del Rosario di mano ignota.
Degna di menzione infine è la statua lignea della Madonna della Cintura realizzata nel ‘600 da Giambattista Bissoni acquistata nel 1834 e che in precedenza apparteneva alla chiesa di S. Agostino in Sarzano.
In Copertina: il cancello di accesso all’oratorio.
Tra Piazza Cavour e via delle Grazie si trova il vico dei Mattoni Rossi che da il nome anche al principale palazzo che vi si affaccia.
Curioso l’equivoco che si è generato in relazione alla genesi del toponimo che non è, come invece erroneamente ritenuto, legato al colore del laterizio.
L’origine corretta del sito rimanda infatti ai nomi delle famiglie Rossi e Matoni che abitavano un tempo in loco.
L’associazione ai mattoni rossi intesi come elemento cromatico è dunque dovuta all’arbitraria annotazione di un burocrate piemontese ottocentesco che contribuì così a creare confusione.
Chissà se l’architetto che sul finire del secolo scorso si è occupato della ricostruzione è caduto anch’egli nell’equivoco o vi ha giocato caratterizzando appunto l’edificio con tanti bei mattoncini rossi?
In Copertina: l’edificio dei Mattoni rossi sito nell’omonimo vico.
Sullo spiano della collina a 180 mt. s.l.m. nel 1100 sorgeva una piccola chiesa dedicata a Santa Tecla.
La zona nel ‘300 divenne proprietà del doge Simone Boccanegra che qui eresse alcuni suoi edifici. Fra questi Il castello è ancora oggi visibile, utilizzato come suggestiva quinta per eventi e congressi, nei giardini dell’ospedale San Martino.
Nel 1747 dopo lo scampato pericolo dell’assedio austriaco Genova sentì l’esigenza di rafforzare e puntellare l’ormai obsoleta secentesca cinta muraria con un sistema di nuove fortificazioni.
Il Forte di Santa Tecla fu uno dei primi quattro forti (insieme al Richelieu, al Quezzi e al Diamante, ad essere progettato.
La costruzione fu iniziata nella seconda metà de Settecento e quasi subito interrotta. Proseguita con scarsi risultati in età napoleonica e portata avanti, fino al completamento (con modifiche al progetto) dopo l’annessione di Genova al Regno di Sardegna 1815.
Alle strutture edificate inizialmente infatti fu integrata una ridotta casamatta. Tale ridotta su due piani era destinata a quartiere e presidio per i soldati, locale per la Cappella, Santa Barbara (polveriera), corpo di guardia, alloggio per gli ufficiali, prigioni, magazzini per legna e provviste alimentari.
Durante l’assedio austriaco del 1800 passato alla storia per la stoica resistenza del generale nizzardo Massena comandante della Piazza di Genova, il forte faceva parte dei cinque contraforti previsti al presidio del settore orientale della città.
In proposito annotava il Tiebalt:
“Il secondo controforte è quello, su cui si trova il Forte di Santa Tecla, la cui costituzione non è finita, ma che con un grande sforzo in pochi istanti può esser posto al coperto degli insulti, e fare grande effetto su tutte le parti della posizione di Sturla e di Albaro. Questo Forte vede tutti i rovesci del primo contro forte, tutte le ondulazioni dei contorni di Albaro, tutti i rovesci della Madonna del Monte, che sarebbe pericolosissimo lasciare occupare, e finalmente assicura la comunicazione della Piazza col Forte Richelieu”.
Dopo aver resistito di nuovo agli austriaci, sotto il governo sabaudo ad opera del Corpo del Genio Sardo, il forte nei primi decenni del secolo venne ristrutturato, rafforzato e ampliato con la costruzione della caserma centrale.
A questo periodo risale appunto l’affissione sul varco principale dello stemma dei Savoia.
“Ha un tracciato a doppia opera a corno, con i mezzi bastioni rivolti a nord e sud che vanno a formare due tenaglie rivolte a est e ovest. Particolarmente interessanti le casematte per artiglieria dei due mezzi bastioni rivolti a nord e il cavaliere sulla cortina che le collega. Fa parte della linea di difesa orientale della piazzaforte formata dai forti San Giuliano, San Martino, Santa Tecla, Richelieu e Monteratti (ciascuno in posizione dominante rispetto a quello che lo precede) e completata, in posizione arretrata a copertura del suo fianco nordoccidentale, dal forte Quezzi e dalla torre Quezzi (un torrione casamattato).” Prof. Emiliano Beri.
Concepito su tre ordini concentrici di mura poteva ospitare nella conformazione ordinaria circa cento soldati che alla bisogna potevano aumentare fino ad oltre quattrocento unità.
Nel 1849 durante i moti insurrezionali contro i Piemontesi fu per un breve tempo occupato dai ribelli e subito recuperato dagli oppressori sabaudi.
Durante la prima guerra mondiale rivestì anche la funzione di carcere per i prigionieri austriaci.
Abbandonato dai militari nel dopoguerra fu fino agli anni ’80 abitato abusivamente da sfollati ed emigrati.
Oggi il forte è fruibile grazie all’opera dei volontari dell’associazione Rete Forte di Santa Tecla che si occupa del mantenimento e della valorizzazione della struttura. Fra gli ambiziosi progetti futuri oltre ad alcuni importanti interventi conservativi, la volontà di bonificare e attrezzare l’area esterna antistante per renderla uno spazio verde godibile da tutti.
In Copertina: Il Forte di Santa Tecla. Foto del Prof. Emiliano Beri.
Fonti: Mura e Fortificazioni di Genova di Carlo Dellepiane.