Il bassorilievo è collocato nella posizione dove si presume fosse collocato il pozzo infestato dal mostro.
Narra la leggenda che il gallinaccio con la coda di serpe ammorbasse l’aria con il suo alito nefasto.
S. Siro, metafora della potenza della preghiera sulla falsità dell’eresia ariana, lo fece uscire dal pozzo impartendogli un deciso comando e lo condusse in mare dove annegò.
L’epigrafe scolpita sulla tavella recita:
Hic Est Puteus Ille / Ex Quo Beatissimus Sy / Rus Eps Ondam Ianven / Exthrasit Durum Ser / pentem Noie Ba / Xiliscum / In CCCCC/ LXXX.
Dal colle del Brolio si dipanava, per sfociare in mare, la chiavica lunga, il rio da cui il toponimo della zona medievale.
A fianco del fossato si ergevano le mura della seconda cinta muraria cittadina (di cui si ha notizia) demolite, per riutilizzare i conci nella costruzione di nuove case, intorno all’anno 1000.
Nel XIV secolo, con la definitiva copertura della chiavica e con l’abbattimento delle ultime abitazioni in legno, la contrada cambiò completamente assetto.
Fu allora che la nobile famiglia dei Giustiniani iniziò qui la costruzione dei propri sontuosi palazzi.
Allargò, sul tracciato del vecchio rivo, il caruggio che divenne così ampio da costituire la più importante e frequentata arteria della città.
Fra questi il principale edificio è senz’altro quello di Marcantonio Giustiniani realizzato per volere del cardinale Vincenzo, generale dell’ordine dei domenicani, successivamente intitolato in onore dell’illustre doge veneziano.
L’imponente struttura in realtà è il risultato dell’accorpamento di due edifici medievali avvenuto a partire dal XVII sec.
Sulla sinistra della piazzetta è conservato ancora un brano dell’originale pavimentazione in laterizio.
All’esterno il palazzo presenta un semplice portale con cornice marmorea con arco a tutto sesto sormontato dallo stemma di famiglia.
L’elegante facciata è invece un tripudio di decorazioni architettoniche a fresco con disegnate le insegne del casato e busti sulle finestre.
Sul lato destro è incastonato il celebre leone di San Marco preso a Trieste nel 1380 dopo la battaglia di Chioggia.
Varcato il portone si apre un atrio colonnato con maestosa volta a padiglione:
quattro porte in pietra nera sovrastate da busti marmorei, realizzati da Bartolomeo Spazio e Daniele Solaro, rappresentano personaggi illustri della famiglia (il cardinale Benedetto,il doge Francesco Vincenzo, il poeta Giuseppe e il generale domenicano Vincenzo).
Immancabile sulla sinistra, a testimonianza dell’indiscusso prestigio del ramo genovese dei Giustiniani, un bassorilievo in pietra di San Giorgio e il drago, fra due stemmi.
Sulla destra si trova, allegoria dell’Abbondanza, un altro bassorilievo in marmo con cornucopie, genietti e festoni.
Sotto, a cementare il legame del sovranazionale casato con la città, è posta una piccola e recente edicola in ceramica della Madonna della Guardia.
Sul fondo dell’atrio si aprono due scenografici scaloni con al centro uno spettacolare ninfeo con la statua in groppa di un delfino e vasca decorata con stemma di famiglia e teste di leone.
Da qui si accede a quella che, all’angolo fra i due palazzi originari, era la loggia. Venne chiusa a metà del ‘800 in concomitanza con la sopraelevazione di due piani del palazzo.
Nella loggia con colonne doriche è collocato un secondo ninfeo senza vasca, con volta a conchiglia e un grande pesce in stucco.
“Genova digerisce e supera tutte le sue crisi, attaccandosi tenacemente al presente. […] Città che sembra chiusa, incapace di slanci, e poi reagisce sempre nel modo più diretto alle occasioni decisive: supera il declino della Repubblica marinara mettendosi alla testa del movimento risorgimentale per l’unità italiana; supera la crisi della sua industria pesante protezionistica ritrovando l’efficienza con l’industria a partecipazione statale; al termine della guerra disastrosa salva il suo porto con una delle più riuscite insurrezioni partigiane d’Europa, costringendo — fatto unico nella storia — un’armata tedesca di 30 mila uomini ad arrendersi a un comitato di cittadini; questa città che oggi è un campo di lotte sociali in cui le forze opposte si fronteggiano con meno mediazioni e sfumature che altrove; questa città che è difficile da capire, perché parla poco, ma certo non gira a vuoto”.
In questo edificio oggi scomparso, luogo di culto della comunità lucchese, era custodito un simulacro del crocifisso, da non confondersi con il Cristo Moro, del celebre “Volto Santo” tanto venerato in patria dai toscani.
Il crocifisso del Cristo Moro così caro ai genovesi, oggi ricoverato in S. Maria di Castello, invece un tempo si trovava in una cappelletta sottostante il vicino monastero di San Silvestro.
In Piazza inferiore del Roso sul muro di contenimento del giardino del palazzo dell’Università di via Balbi n. 4 si trovano i resti di un’edicola votiva ed un’antica lapide.
Di quel che rimane dell’edicola ormai nel più completo abbandono non si hanno significative notizie.
La lapide invece racconta della concessione, riservandosene comunque i diritti, per l’utilizzo pubblico dell’acqua rilasciata dal proprietario Francesco Balbi:
Quando il 19 gennaio 1958 il regista Orson Welles con elegante cappello, in compagnia della moglie, l’attrice Paola Mori con in braccio il suo bassotto, passeggiavano davanti alla stazione.
“Credo che l’orgoglio della città sia il porto, con la sua grande capacità e che il testamento dell’ultimo duca di Galliera, il quale ha lasciato quattro milioni di dollari per il suo ampliamento e per il miglioramento delle attrezzature, ne farà senza dubbio uno dei più grandi scali commerciali di Europa.”
Cit. Henry James (1843 – 1916) scrittore americano.
Nella curiosa struttura a chalet che ospitava la delegazione del sol levante, oltre alla birra vera e propria accompagnata ai fagioli di soia e calamari essiccati o al tradizionale Sakè si potevano degustare bevande a base di soia, riso e mais e altre specialità orientali come l’allora poco noto sushi.
Tra Via Prè e Via Balbi “nei quartieri dove il sole del buon Dio non da i suoi raggi..”, si trova Vico delle Monachette, il caruggio più stretto della Superba, appena settantanove centimetri di larghezza!
In un’anonima abitazione di questo piccolo vicolo nel 1857 trovò rifugio, ricercato dalla polizia sabauda, Giuseppe Mazzini che si trovava in città per organizzare un’insurrezione.
Nella chiesa di S. Stefano è conservato uno dei quadri più importanti di tutto il ‘500, la “Lapidazione di Santo Stefano” di Giulio Pippi de’ Jannuzzi, detto il Romano.
Se Rubens a Genova con il morbido stile della sua “Circoncisione” influenzò il ‘600, Romano fece altrettanto con la sua raffaellesca “Lapidazione” per il ‘500.
Quest’opera divenne infatti punto di riferimento e modello della riscoperta della grande cultura romana che l’illustre artista manierista portò al nord a Genova, prima ancora che a Milano, Mantova e Venezia.
Il Martirio di S. Stefano rappresenta infatti il monumento, il trionfo, l’apogeo del classicismo, una vera e propria celebrazione del maestro indiscusso del Rinascimento, l’appena scomparso Raffaello.
L’opera in origine commissionata nel 1519 al genio urbinate l’anno prima della sua morte, fu invece realizzata nelle Stanze Vaticane dal suo allievo Giulio Romano che, evidentemente, aveva avuto modo di vedere i disegni e i bozzetti del Maestro.
Ma il Romano non procede solo ad una fedele e puntuale esecuzione dell’opera: laddove possibile – infatti – osa, riuscendo nel suo ambizioso intento, migliorare il progetto dell’illustre mentore con qualche personale e azzeccata correzione.
Ed ecco quindi che il Martire, protagonista assoluto, sta al centro, mentre i suoi assassini gli si schierano attorno a semicerchio.
Tra l’apparizione della Trinità in cielo fra angeli che trasfigurano in pura luce e la scena del martirio, sulla linea dell’orizzonte si apre dunque uno spazio per un paesaggio di rovine, in una luce radente, quasi artificiale, certo innaturale perché emanata dall’aureola divina che il pittore fa coincidere con il sole.
L’artista cita poi monumenti antichi, terme, templi, ponti, obelischi e riesce a conferire sia dinamicità alla complessa scena che energia alla moltitudine dei personaggi e plasticità ai movimenti dei loro corpi.
Le terme romane in rovina sullo sfondo sono allegoria del decadimento morale e fisico del mondo pagano che, proprio dai ruderi dell’edificio classico, attinge le pietre per compiere la lapidazione del santo.
L’immagine del volto di Stefano che appare serenamente rassegnato in accentuato contrasto con le indemoniate e bestiali espressioni dei suoi carnefici conferisce alla rappresentazione una potenza sovrumana.