Veduta al tempo di Napoleone

Il golfo è come sempre solcato dalle navi, i monti attorno sono brulli e disabitati, la Lanterna è al suo posto ma nel 1810 Genova faceva parte a tutti gli effetti dell’Impero napoleonico che durò fino al 1814.

In quell’anno Napoleone soppresse tutti gli ordini monastici e le congregazioni religiose nel dipartimento di Genova, degli Appennini, di Montenotte e delle Alpi Marittime.

L’architetto Andrea Tagliafico fu incaricato di progettare la costruzione, nel luogo dove sorgeva un tempo il convento di San Domenico (odierna piazza De Ferrari) di un nuovo teatro cittadino e riedificò il lazzaretto della Foce.

Nel frattempo in piazza dell’Acquaverde, in ossequio al nuovo regime, venne innalzata un’imponente statua dell’imperatore corso.

Sul promontorio di San Benigno Bonaparte aveva appena fatto erigere un palo del rudimentale telegrafo, strumento che utilizzava per essere informato in anticipo rispetto ai suoi nemici.

Leggenda narra che Napoleone appena giunto a Genova avesse chiesto ai genovesi se i francesi rubassero?

Arguta e spiritosa fu la risposta: “Non tutti i francesi sono ladri, ma Bonaparte sì”.

Ambroise Louis Garneray vista di parte Genova, 1810.

Trittico di San Pancrazio

Dietro all’altare della chiesa di San Pancrazio recentemente restaurato, si scorge il pezzo forte della chiesa, il cinquecentesco trittico di scuola fiamminga attribuito ad Adrien Isenbrandt.

La pregevole pala descrive la vita del santo attraverso il racconto della Legenda Aurea di Jacopo da Varagine.

A dichiararlo è l’autore stesso quando sull’anta sinistra raffigura San Pietro con in mano le chiavi del Regno Celeste ed il celebre libro scritto dal vescovo di Genova.

Al tempo delle persecuzioni cristiane del III sec d. C ordinate dall’imperatore Diocleziano, quando venne martirizzato, Pancrazio era poco più di un bambino di quattordici anni.

Al centro della pala il santo è raffigurato, a sottolineare le sue nobili origini, con un falcone.

Diocleziano è prostrato ai suoi piedi, in mezzo Cristo sovrastato dallo Spirito Santo e dal Padre Eterno, con a destra San Giovanni Evangelista con una coppa in mano da cui spunta un mostriciattolo che fugge.

Sullo sfondo la città di Roma dove avvenne il martirio della quale si riconoscono alcuni monumenti. Nell’anta destra San Paolo con la spada – tratto caratteristico -della sua iconografia a conclusione di un’opera veramente straordinaria.

“Dettaglio, splendido e inconsueto, dal “Trittico di San Pancrazio” di Adriaen Isenbrant (Bruges, Belgio l 1510 – 1551).


Particolare è la rappresentazione di San Giovanni con in mano il calice e il draghetto.

Narra infatti il vescovo di Genova nel suo scritto che il sacerdote del tempio di Diana ad Efeso avesse dato da bere una coppa avvelenata al santo per metterlo alla prova visto che due condannati, avendone precedentemente bevuto, erano già morti.

Non solo Giovanni non morì ma resuscitò i due uomini.

Il simpatico draghetto dentro al calice simboleggia dunque, oltre al veleno, Satana e il male.

In copertina: Adriaen Isenbrant (Bruges, Belgio attivo 1510 – 1551). Olio su tavola di rovere, parte centrale 252 x 160 cm, 1520 circa. Chiesa di San Pancrazio, Genova.

Portolano

Rarissima e minuziosa immagine di Genova nel 1489.

Dettaglio tratto dal Portolano di Albino de Canepa, cittadino genovese attivo alla fine del XV sec.

Da ‘n pòrto à l’atro o dexidëio o l’inscia
veie stramesuæ, bon vento a-o viægio,
e mi do mondo perso, onde m’inäio
con ciù me perdo, con ciù me gh’attreuvo.

De quello che son fæto m’invexendo:
de tutto quello che vorriæ conosce.
Fæta ‘na Zena, ‘nn’atra a l’é ch’a speta
d’ëse fondâ inti seunni e ‘nte memöie.

Lascia che a lontanansa a ne s’ingheugge
indòsso, comme craccia de sarmaxo,
no gh’é destin, no ghe saià retorno,
solo a mäveggia de chi se descreuve.

Da un porto all’altro il desiderio gonfia / vele smisurate, buon vento per il viaggio, // ed io, perso nel mondo, me ne incanto, / più mi ci perdo e più mi ci ritrovo. // Mi esalto per ciò di cui sono fatto, / che è tutto ciò che vorrei conoscere. / Fatta una Genova, un’altra aspetta / di essere fondata nei sogni e nelle memorie. // Lascia che la lontananza ci si attacchi / addosso, come crosta salmastra, / non c’è meta, non ci sarà ritorno, / solo la meraviglia di scoprirsi.

Il viaggio diviene, nei versi del Prof. Fiorenzo Toso liberamente ispirati dall’anonimato genovese, condizione esistenziale e significa conoscenza.

Quell’essere “per lo mondo sì desteixi” è occasione, come argutamente osservato dallo stesso esimio linguista, “di esperienze feconde e manifestazione di creatività, attraverso il mito fondativo di infinite città, non importa se reali, immaginate o ricordate”.

Il restauro dello stemma

A meglio identificare la Lanterna con la città, nel 1340 venne dipinto alla sommità della torre inferiore lo stemma del Comune di Genova, opera del pittore Evangelista di Milano.

Il maestoso simbolo misura ben 80 metri quadrati, 10 metri d’altezza dello scudo, per una larghezza nei punti massimi di 8 metri.

In passato lo stemma era già stato “rinfrescato” varie volte, l’ultima delle quali nel 1992, in occasione delle Colombiadi.

Per questo motivo il personale della ditta Formento Restauri, incaricata del ripristino, ha effettuato cinque prelievi di pellicola pittorica e di intonaco in cinque punti diversi.

Dalle relative e puntuali analisi è emerso che nel tempo alcune parti sono state “semplificate”, uniformando le due diverse gradazioni di rosso e le due di giallo-oro in un solo rosso e un solo giallo.

Gli operai artisti di Formento non solo sono riusciti a replicare le sfumature della tinteggiatura originale, ma si sono attivati anche per far riaffiorare alcune iscrizioni fino ad oggi diventate illeggibili o quasi.

Il tutto, naturalmente, si è svolto sotto gli attenti controlli della Soprintendenza Archeologia, Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Genova e le province di Imperia, La Spezia e Savona con i sopralluoghi del dottor Franco Boggero e dell’architetto Francesca Passano.

Formento Restauri ha impegnato, nelle varie fasi, da due a quattro persone simultaneamente “in quota”, tra cui una restauratrice professionista, naturalmente qualificata per questa acrobatica tecnica di lavoro.

L’ottimo risultato è sotto gli occhi di tutti.

21 sett 2019

La cripta più antica

Nella versione attuale il santuario delle Grazie, causa i bombardamenti della seconda guerra mondiale, si presenta in maniera anonima abbellito nell’antistante piazzetta dalla statua del Padre Santo (1963) di Guido Galletti.

Il tempio venne eretto nelle forme originarie nel XI sec. e fu intitolato alla Madonna delle Grazie per volere dei marinai. Costoro infatti, data la vicinanza al mare, lo elessero a loro santuario e meta delle loro suppliche.

Nel ‘500 l’edificio venne quasi completamente ricostruito. Solo il campanile, a bifore, resta orgoglioso testimone della primitiva struttura.

In realtà il sito posto sulla scogliera del Mandraccio è antichissimo. Secondo alcune fonti risalirebbe addirittura al V sec. d. C, dedicato ai santi Nazario e Celso, e sarebbe stato costruito, come la vicina ex cattedrale di S. Maria di Castello, per ordine del re longobardo Ariperto.

“Interni della cripta”. Foto di Anna Rosa Basile.

Negli anni ’50 del secolo scorso durante i lavori di ristrutturazione della sottostante cisterna gli operai fecero un inaspettato ritrovamento.

All’altezza dell’odierna Via Quadrio, al livello di quella che un tempo era la spiaggia, scoprirono una piccola cripta di origine romanica che, secondo le fonti, sarebbe il più antico tempio cristiano cittadino.

Qui secondo la tradizione sarebbero approdati i due santi martiri e vi avrebbero celebrato la prima messa iniziando l’evangelizzazione della nostra regione.

La cripta è visitabile ogni venerdì dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18 grazie al prezioso contributo dei volontari di S. Maria di Castello.

In copertina foto della cripta di Anna Rosa Basile.

Le lattughe ripiene

La zuppa di lattughe ripiene (leitughe pinn-e) costituisce un emblematico esempio dell’ingegnosa capacità della cucina ligure di amalgamare con sapiente armonia gusti ed elementi poveri in modo assolutamente gustoso e saporito.

Le foglie imbottite con un ripieno di magro vengono arrotolate con cura a mo’ di involtino, per poi essere lessate nel brodo di carne per una decina di minuti.
Dall’imbottitura – invece – in ossequio ai giorni di magro imposti dal calendario liturgico, la carne viene bandita.

Le lattughe ripiene possono essere cucinate anche in una versione alternativa che prevede la cottura anziché in brodo in un soffritto arricchito di abbondante salsa al pomodoro.

“Versione al pomodoro”. Foto e preparazione di Giuliana e Bruno Bocciardo.

«…Oh leituga, cibbo inscipido, dimme un pò comme ti pèu diventa gustosa e sapida, e ciù bonn-a che i ravieu, se ùnn-a man sapiente e pratica a manipola o to pin, c’ùn bon broddo, un sugo saturo d’elementi sopraffìn? Benché Zena a te rivendiche, ti è d’origine divinn-a, comme a manna ai tempi biblici, comme a torta pasqualinn-a, e o segno coi so discepoli o te deve avei mangiòu, benché i testi e e sacre cronache non ne n’aggian mai parlóu…».

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“Ricetta tratta da La cuciniera genovese, con sottotitolo La Vera Maniera di cucinare alla genovese, di G.B Ratto del 1863”. L’immagine della foto è ovviamente una recente ristampa.


(«…Oh lattuga, cibo insipido, dimmi un po’ come puoi diventare gustosa e sapida e migliorare dei ravioli, se una mano sapiente e pratica manipola il tuo ripieno, con un buon brodo, un sugo saturo d’elementi sopraffini? Benché Genova ti rivendichi, sei d’origine divina, come la manna nei tempi biblici, come la torta Pasqualina, e il Signore coi suoi discepoli deve averti mangiato, benché i testi e le sacre cronache non ce n’abbiano mai parlato… »).
Niccolò Bacigalupo (1837-1904) poeta e drammaturgo genovese.

Inni Civili. Costûmanze zeneixi ne-e grandi solennitae da Gëxa
(Usanze genovesi nelle grandi solennità della Chiesa).

In copertina foto di Giuliano e Bruna Boccardo.

Röba pinn-a

Le verdure ripiene costituiscono classico esempio della genuina semplicità della cucina ligure.

Zucchina (succhin), melanzana (meizànn-a), cipolla (çiòula), peperone, (pevión) sono gli ortaggi che più si prestano a questa preparazione, senza tuttavia dimenticare pomodori (tomâte), patate (patàtte) e le lattughe (leitûghe).

Gli ortaggi, accuratamente mondati e spolpati fungono da gustosa custodia mentre la polpa ottenuta viene aggiunta al ripieno.

A questo punto le verdure vanno, per evitare che disperdano acqua, salate e lasciate riposare circa un’ora sopra un canovaccio dopodiché è possibile procedere alla farcitura.

La composizione della farcia varia da zona a zona, da famiglia a famiglia, ma di solito è a base di uova, grana o Parmigiano, prescinsêua (cagliata fresca), erbe aromatiche, in particolare la persa, (la maggiorana), olio extravergine di oliva e, per favorire il processo di formazione della caratteristica croccante crosticina, una leggera spolverata di pan grattato.

Alcune varianti prevedono l’aggiunta di carne trita cruda o cotta, o mortadella o prosciutto cotto a seconda delle disponibilità del momento.

I RIpieni genovesi. Foto e preparazione dell’autore.

I ripieni si cuociono in forno a 180° per circa 30 minuti e si possono gustare subito così caldi appena sfornati, oppure all’indomani a temperatura ambiente.

Meno frequenti ma non meno gustose sono le preparazioni che, con le stesse modalità, prevedono le patate (varietà quarantina bianca), i carciofi violetti di Albenga e le cappelle dei funghi porcini raccolti nei boschi nostrani.

Un tempo dopo averli cotti in forno si usava sia friggerli che cucinarli in umido. In quest’ultimo caso i ripieni, adagiati in una capiente casseruola, vengono passati in una corposa salsa di pomodoro.

Trattando di röba pinn-a particolare menzione merita la lattuga ripiena cotta in un sapido brodo di carne, tradizionale pietanza dei giorni di quaresima… ma questa è un’altra storia.

In copertina: tegame di ripieni al forno. Foto di Serena Rossi.

Via San Bernardo

Le prime notizie sul caruggio risalgono al 1345 quando la strada era chiamata dei “Salvaghi”.

Via San Bernardo assunse l’attuale intitolazione nel ‘600 per via del convento e chiesa, oggi scomparsi, che sorgevano all’angolo con Vico Vegetti al posto dell’edificio occupato dalle scuole.

La chiesa fu costruita sui resti di una precedente dimora nobiliare dei De Marini e nel 1627 divenne anche convento dei monaci Cistersensi Fogliensi.

Nel 1797 gli edifici religiosi vennero sconsacrati e dismessi per poi essere definitivamente demoliti nel 1849, al tempo della repressione piemontese dei bersaglieri del La Marmora.

Malinconico testimone di un tempo che fu è rimasto il campanile inglobato nelle case circostanti.

Di notte illuminato da un lampione il caruggio riposa mentre la pioggia che accarezza il selciato ammanta i colori ocra di una magica patina.

Le gocce di pioggia saltellano sul selciato per non bagnarsi“.


Cit. Roberto Gervaso storico e giornalista.

La Grande Bellezza…

Foto di Andrea Robbiano

Il Ponte di Carignano e la Madre di Dio

È forse l’immagine più famosa che ritrae la dimenticata e nostalgica bellezza di Via Madre di Dio sotto il Ponte di Carignano.

Qualche anno fa divenne la copertina di un divertente gioco da tavolo a tema storico intitolato “Zena 1814”. Tale erudito e piacevole passatempo è ambientato negli effimeri 8 mesi di indipendenza della Repubblica genovese compresi tra la caduta di Napoleone e il Congresso di Vienna (1814 – 1815) in seguito al quale Genova venne venduta dagli inglesi ai Savoia.

L’autore di questo quadro, il pittore olandese Pieter van Loon, immortala con dovizia di particolari una scena di vita quotidiana conferendole una straordinaria vivacità.

Ed è così che, con sapiente gioco di ombre e luci, di colori vividi alternati ad altri più tenui e di frizzante realismo, la strada si anima di una moltitudine di caratteristici personaggi che popolano botteghe ed osterie: marinai che giocano alla riffa, bambini che gironzolano per strada, garzoni e muli da soma che trasportano merci, una coppia a passeggio seguita da uno scolaro con i libri, popolane che chiacchierano tra di loro e con giovanotti, avvolte nei loro macramè.

A sinistra si vede un navigante appoggiato alla porta, forse in cerca di un ingaggio, che aspetta davanti agli uffici della Compagnia marittima di battelli a vapore – di cui si legge l’insegna – della linea Livorno Marseille.

A fianco un locale dalla cui sovrastante targa con la scritta “Stanza…” si deduce essere in affitto.

Vicino “Il Grande Albergo Bella…” supera il tendone di una bottega di legumi e cereali.

Al centro della strada si distinguono un gruppo di preti e un frate. Sul lato destro si notano una grande edicola votiva oggi scomparsa, una donna seduta sulla soglia di casa e la dicitura “Buon Vin ed a mangiare” che campeggia sulla sottostante osteria. Appesa alle corde una cesta si confonde fra i panni stesi.

Domina la scena il celebre ponte di Carignano voluto da Domenico Sauli per collegare, da un colle all’altro, la propria Basilica gentilizia di S. Maria Assunta (Carignano) con il cuore del centro storico (Sarzano), scavalcando l’impervio strapiombo di Via Madre di Dio.

L’imponente opera fu realizzata tra il 1718 e il 1724 dall’ingegnere francese Gerard de Langlade nell’ambito dei lavori di ricostruzione resisi necessari, ma iniziati solo qualche decennio, a causa dei bombardamenti del 1684 del re Sole.

Sullo sfondo i colori che si dissolvono con sapiente sfumatura nella prospettiva lasciano intendere una via assai trafficata e frequentata che restituisce al quartiere scomparso tutta la sua umana vitalità.

“Strada della Madre di Dio e Ponte di Carignan a Genova” 1847 olio su tela 61,5.x 90 cm. Pieter van Loon. Genova, Collezioni Banca Carige.

Il 25 aprile del piccolo Lorenzo

Raccontare il significato del 25 aprile, senza cadere nella retorica, a generazioni che ormai vivono il giorno della Liberazione come una pagina di storia sbiadita nel tempo, è impresa ardua.

Allora ho pensato di farlo attraverso le parole di un testimone di quei giorni che ne racconta le emozioni con gli occhi ingenui del bambino.

“Non ho mai dimenticato la sera del mio primo XXV aprile (o forse era il 26 ??) ricordo come fosse ora … ero in casa con mia madre e mio padre convalescente in seguito alle amputazioni dei piedi per cancrena durante la ritirata dal Don… quando improvvisamente iniziarono scoppi tremendi dal lato di Genova… la mia reazione fu pavloviana e scappai sotto al tavolo… uno dei soliti bombardamenti… – pensai – anche se non realizzavo completamente cosa fossero questi bombardamenti… ma i miei ne erano terrorizzati… poi vidi mia madre e mio padre pazzi di gioia abbracciarsi… mi recuperarono da sotto al tavolo e mi presero in braccio… inutile dire quanto fossi sorpreso, non avevo mai visto mia madre e mio padre ridere… ero smarrito e non capivo… mia madre dolcemente cercò di spiegarmi che erano “fuochi d’artificio”… parole nuove per me… e che scoppiavano perché la guerra era finita e con essa tutti i massacri e gli orrori… la mia unica reazione fu… i miei ci scherzarono per anni…”allora stasera posso dormire da solo ??? “.

Un abbraccio a tutti e un augurio che questo giorno sia festeggiato più col cuore che con la demagogia.

Lorenzo Van, testimone di quei giorni.

In copertina le formazioni partigiane sfilano il 26 aprile per Piazza De Ferrari e Via XX.