In Via Carcassi proprio sotto il muro del parco dell’Acquasola si trova una grande e dimenticata fontana battezzata nei racconti popolari, come “fontana della sfortuna”. Pare che a chi avesse osato bere da tale sorgente sarebbero piovute addosso disgrazie a non finire.
Tale sciocca superstizione era dovuta al fatto che già nel ‘500 nella zona erano state scavate delle enormi fosse per gettarvi i cadaveri della peste e nel ‘600 sulla sovrastante ampia spianata vi si seppellivano i poveri.
Perciò nonostante la fontana fosse allacciata all’acquedotto cittadino, nessuno se ne serviva.
L’origine del toponimo è la stessa del caruggio di Canneto il Lungo con il quale si interseca, ovvero relativa alla presenza dei cannicci che costeggiavano il fossato che degradava dal colle del Brolio fino al mare.
In Val Nervia nel comune di Ventimiglia è sita una preziosa area archeologica che testimonia la cultura degli antichi liguri, in particolare della tribù degli intemeli una comunità vissuta in epoca romana.
Costoro infatti nei primi secoli avanti Cristo fondarono la città di Albintimilium.
Oggi il sito di notevole interesse storico offre una passeggiata a cielo aperto fra le rovine del millenario abitato, delle terme e del teatro.
Ma è all’interno dei locali del museo che si scoprono alcune sorprendenti curiosità.
Oltre infatti a busti di statue, vasellami vari, a gioielli e preziosi monili si possono ammirare i tavolieri, con relative pedine, del misterioso (soprattutto per le successive simbologie medievali) gioco del filetto (le cui tracce sono visibili anche sugli scalini della cattedrale di San Lorenzo a Genova) e un incredibile oggetto, stupefacente per la sua modernità.
Si tratta di un utensile multi uso in metallo risalente ai primi due secoli dopo Cristo in cui si distinguono chiaramente, fra le altre, una forchetta, un cucchiaio ed un coltello.
Insomma gli ingegnosi abitanti della riva destra del torrente Nervia avevano realizzato circa 1700 anni prima di Karl Elsener, il prototipo del celeberrimo coltellino svizzero.
Gente pragmatica questa dei Liguri.
In copertina “il coltellino svizzero”. Immagine tratta da Gedi Visual.
A palazzo del Principe sono collocati tre straordinari cicli di arazzi quattro e cinquecenteschi: il primo dedicato alle storie di Alessandro Magno, il secondo ai mesi dell’anno, o meglio, alle divinità ad essi associate, il terzo alla battaglia di Lepanto.
Quest’ultimo ciclo è costituito da sei panni e due tramezzi conservati nella sala del Naufragio del palazzo.
Gli arazzi furono commissionati da Giovanni I Andrea D’Oria, nipote di Andrea, che fu tra i protagonisti del celebre scontro navale.
Ad elaborare i bozzetti preparatori venneri incaricati addirittura Lazzaro Calvi che disegnò le scene centrali e Luca Cambiaso che si occupò delle incorniciature e delle figure allegoriche.
La stesura degli arazzi avvenne a Bruxelles e furono consegnati a Genova nel 1591.
La sequenza degli episodi rappresentati ha inizio con La partenza da Messina della flotta cristiana, nel quale si descrive la partenza delle navi cristiane dal porto siciliano, sotto il comando supremo di Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V.
In basso a sinistra è rappresentata la “Capitana Nova” di Giovanni Andrea I, riconoscibile grazie alla presenza a poppa del fanale a forma di globo celeste, dono della moglie Zenobia.
A sinistra della scena centrale compare l’allegoria della Concordia, caratterizzata dagli attributi iconografici del caduceo e della lira, a destra si scorge invece la Nemesi, identificata dalla presenza di un metro e del freno che le viene offerto da un fanciullo.
Il secondo arazzo illustra la Navigazione lungo le coste calabre, mostrando l’avanzamento della flotta cristiana alla ricerca dello scontro con le navi turche. Il panno immortala il momento in cui la flotta della Sacra Lega costeggiò le coste della Calabria in direzione di Corfù, isola al largo dell’Epiro, caposaldo veneziano. Da lì giunsero poi a Lepanto, nei pressi delle isole Curzolari, anticamente conosciute come Echinadi, dove ebbe luogo lo scontro con l’armata turca. Le figure allegoriche che accompagnano l’episodio sono la Vigilanza, a sinistra, con gli attributi del gallo, della testa di leone e della gru e, sul lato opposto, il Dominio sul mare, caratterizzata da una folta chioma agitata dal vento e dal tridente di Nettuno.
Il terzo panno raffigura lo Schieramento delle flotte. A destra si vede l’armata turca, organizzata in una formazione continua, pensata con l’intento di aggirare le navi nemiche. I cristiani, a sinistra, si divisero invece in quattro corni: al centro si posizionarono le galee di Don Giovanni d’Austria, a sinistra quelle veneziane di Agostino Barbarigo e a destra quelle di Giovanni Andrea I Doria. In seconda fila si scorgono le navi della retroguardia, al comando di Alvaro Bazan. Tra i due schieramenti si vedono le galeazze veneziane, navi dotate di una ragguardevole potenza di fuoco, che si rivelarono decisive per le sorti della battaglia. Le allegorie della Speranza e della Prudenza affiancano la scena centrale, la prima caratterizzata da un giglio e la seconda da tre teste di animali (lupo, leone e cane).
L’arazzo dedicato alla Battaglia vera e propria reca la rappresentazione dello scontro, che si rivelò estremamente sanguinoso. La vittoria della Lega Santa, in una battaglia le cui sorti rimasero a lungo in bilico, fu conquistata grazie alla superiore potenza di fuoco della flotta cristiana. Il panno mostra ai lati della scena centrale la figura della Fortuna, rappresentata in equilibrio su una sfera e accompagnata dall’emblema della cornucopia, e della Fortezza, caratterizzata dalla presenza di uno scheletro, di una corona e di un ramo di quercia.
Il penultimo panno è dedicato alla Vittoria cristiana e la fuga dellesette galee turche. Favorite dal sopraggiungere della notte, sette navi turche, comandate dal corsaro Uluç Alì, riuscirono a sfuggire alla cattura. Giovanni Andrea I, la cui nave si scorge impegnata nel vano sforzo dell’inseguimento, fu aspramente criticato per la sua scelta di interrompere lo schieramento cristiano nel tentativo di realizzare una manovra di aggiramento dei turchi. L’arazzo presenta diversi elementi di trionfo sul nemico, rappresentato in catene nella porzione inferiore del panno.
L’ultimo arazzo della serie raffigura il Ritorno a Corfù. La flotta cristiana, vittoriosa, trainò nel porto veneziano circa centotrenta navi turche prese prigioniere durante la battaglia. In primo piano è rappresentata la Capitana Nova di Giovanni Andrea con una preziosa preda di guerra: la nave ammiraglia turca. A corredo della scena vi sono la Gloria, caratterizzata dalla presenza di un cigno, e la Fama, con i suoi attributi della tromba, della lancia e le ali tempestate di occhi, orecchie e lingue.
Dopo questa dettagliata ed erudita descrizione tratta pari pari (sarebbe stato presuntuoso togliere o aggiungere altro) dal sito doriapamphilj.it, riporto questa divertente storiella citata sulla relativa monografia del Prof. Barbero che la dice lunga sull’essenziale pragmatismo dei genovesi:
“… l’ammiraglio veneziano scrisse alla Serenissima “La Madrepatria è salva”; l’ammiraglio pontificio scrisse al papa “La vera fede ha trionfato”; l’ammiraglio spagnolo scrisse al re Felipe “Vostra maestà ora domina anche il Mediterraneo”; Gio Andrea Doria scrisse al suo amministratore “Smetti di pagare l’assicurazione per i carichi perché sul mare non c’è più pericolo”.
In copertina il primo arazzo che immortala la partenza della flotta da Messina.
Giovanni Andrea I D’Oria parente (cugino di terzo grado) del più celebre Andrea resterà nella storia sia come ammiraglio, avendo ereditato il comando delle galee spagnole a Genova e successivamente il titolo di Capitano generale del Mare della corona di Spagna nel Mediterraneo, per aver partecipato con discusse fortune alla battaglia di Lepanto, sia come mecenate per aver impreziosito la sontuosa dimora del Principe.
Non tutti sanno però che, oltre ad aver incrementato in maniera esponenziale la fortuna ereditata dell’illustre avo fino a diventare il privato cittadino più ricco d’Europa, fu l’audace e irriverente imprenditore che volle una nave bordello ancorata in Darsena.
Da alcuni decenni infatti il frequentato quartiere a luci rosse sotto il Castelletto era stato demolito, proprio al tempo e su iniziativa di Andrea, per far posto a metà ‘500 alla monumentale Strada Nuova detta anche Via Aurea.
Inoltre le prostitute come ricordato dal detto popolare “a l’è cheita na bagascia in maa sensa bagnase” non potevano né avvicinarsi ai moli, né di conseguenza salire a bordo delle navi.
Ma “se Maometto non va alla montagna- come recita un altro abusato proverbio- la montagna va da Maometto” e fu così che Giovanni I Andrea D’Oria ebbe la brillante idea di acquistare una galea battente bandiera spagnola, di ormeggiarla nella darsena e di allestire al suo interno un lussuoso bordello.
Con questo arguto stratagemma la nave risultava quindi essere fuori dalla giurisdizione della Repubblica e di conseguenza esonerata dalla tassazione e dalle regole in vigore sulla terraferma.
L’attività, nonostante i numerosi contenziosi nel tentativo di bloccarla, prosperò per oltre un secolo fino a quando nel 1716 il doge Lorenzo Centurione, per porre fine alla scandalosa situazione acquistò dagli eredi, pagandola una cifra folle, la nave.
“A Dumenega” scritto a quattro mani da Fabrizio De André e Mauro Pagani più che una canzone è una colorita istantanea che descrive in maniera sagace un’usanza tutta genovese, ovvero lo scandaloso quanto ipocrita “rito” della passeggiata domenicale delle prostitute.
A costoro infatti che per tutta la settimana erano relegate a esercitare la loro professione in un quartiere ben delimitato della città, quello del Monte Albano alle pendici del Castelletto, solo alla domenica veniva concesso di passeggiare liberamente e di partecipare alle funzioni religiose.
De André racconta gli atteggiamenti della gente al passaggio di queste prostitute e descrive le reazioni dei vari personaggi, tutti accomunati dall’incoerenza e dal finto moralismo perbenista: da chi grida loro qualsiasi epiteto sconcio la domenica e poi le frequenta durante la settimana facendone “le pubbliche mogli”, al direttore del porto, che è felice di tutto quel ben di Dio a passeggio che porta tanti soldi nelle casse del Comune, finanziando la costruzione di un nuovo molo ma, per non essere da meno rispetto agli altri, comunque le insulta.
In molti hanno ritenuto questi versi poco più di una piccante quanto suggestiva licenza poetica priva di fondamento storico, frutto del genio narrativo dei suoi due autori.
De André e Pagani avevano invece trascritto in modo ispirato e canzonatorio un’accurata ricerca avvalorata da diversi studi quali ad esempio la “Città portuale del medioevo” dei professori Bianchi-Poleggi che confermavano come, a partire già dal 1339, effettivamente quegli introiti avessero contribuito alla costruzione di calata Cattaneo.
Quegli stessi introiti che avrebbero concorso nei secoli successivi a finanziare anche i lavori di restauro della Cattedrale di San Lorenzo, della Porta del Molo e della costruzione di molti nobili palazzi cittadini.
Addirittura nel 1418 venne istituita un’apposita magistratura con relativo Podestà, preposto alla riscossione delle decime, una tassa di cinque soldi da pagarsi mensilmente, sostituita successivamente da un più pratico obolo forfettario.
Nel 1461 inoltre si stabilì che le bagasce dovessero essere foreste e che si abbigliassero, per non confonderle con le donne “comuni et honeste”, in maniera diversa dalle stesse.
A metà del ‘500 il quartiere a loro riservato venne raso al suolo per far posto alla strada dei signori, la moderna e lussuosa Strada Nuova, nota anche come via Aurea, odierna via Garibaldi.
Con le pietre recuperate dalla demolizione l’architetto perugino Galeazzo Alessi edificò la maestosa cupola della basilica di Carignano.
Tornando ai personaggi della canzone, che dire poi della tragicomica, per non dire patetica, macchietta del rozzo bigotto che, per legge di contrappasso, anche lui, per essere conforme al “branco”, inveisce contro le bagasce, ma sembra essere l’unico a non riconoscere fra queste anche la propria moglie.
Quandu ä dumenega fan u gíu cappellin neuvu neuvu u vestiu cu ‘a madama a madama ‘n testa o belin che festa o belin che festa a tûtti apreuvu ä pruccessiún d’a Teresin-a du Teresún tûtti a miâ ë figge du diàu che belin de lou che belin de lou
e a stu luciâ de cheusce e de tettín ghe fan u sciätu anche i ciû piccin mama mama damme ë palanche veuggiu anâ a casín veuggiu anâ a casín e ciû s’addentran inta cittæ ciû euggi e vuxi ghe dan deré ghe dixan quellu che nu peúan dî de zeùggia sabbu e de lûnedì
a Ciamberlinú sûssa belin ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe in Caignàn musse de tersa man e in Puntexellu ghe mustran l’öxellu
a Ciamberlinú sûssa belin ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe in Caignàn musse de tersa man e in Puntexellu ghe mustran l’öxellu
e u direttú du portu c’u ghe vedde l’ou ‘nte quelle scciappe a reposu da a lou pe nu fâ vedde ch’u l’è cuntentu ch’u meu-neuvu u gh’à u finansiamentu u se cunfunde ‘nta confûsiún cun l’euggiu pin de indignasiún e u ghe cría u ghe cría deré bagasce sëi e ghe restè
e ti che ti ghe sbraggi apreuvu mancu ciû u nasu gh’avei de neuvu bruttu galûsciu de ‘n purtòu de Cristu nu t’è l’únicu ch’u se n’è avvistu che in mezzu a quelle creatúe che se guagnan u pan da nûe a gh’è a gh’è a gh’è a gh’è a gh’è anche teu muggè
a Ciamberlinú sûssa belin ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe in Caignàn musse de tersa man e in Puntexellu ghe mustran l’öxellu
a Ciamberlinú sûssa belin ä Fuxe cheusce de sciaccanuxe in Caignàn musse de tersa man e in Puntexellu ghe mustran l’öxelluLa Domenica, traduzioneQuando alla domenica fanno il giro cappellino nuovo nuovo il vestito con la madama la madama in testa cazzo che festa cazzo che festa e tutti dietro alla processione della Teresina del Teresone tutti a guardare le figlie del diavolo che cazzo di lavoro che cazzo di lavoro
e a questo dondolare di cosce e di tette gli fanno il chiasso anche i più piccoli mamma mamma dammi i soldi voglio andare al casino voglio andare al casino e più si addentrano nella città più occhi e voci gli danno dietro gli dicono quello che non possono dire di giovedì di sabato e di lunedì
a Pianderlino (via e zona sopra San Fruttuoso e Marassi) succhia cazzi alla Foce cosce da schiaccianoci in Carignano fighe di terza mano e a Ponticello gli mostrano l’uccello
a Pianderlino succhia cazzi alla Foce cosce da schiaccianoci in Carignano fighe di terza mano e a Ponticello gli mostrano l’uccello
e il direttore del porto che ci vede l’oro in quelle chiappe a riposo dal lavoro per non fare vedere che è contento che il molo nuovo ha il finanziamento si confonde nella confusione con l’occhio pieno di indignazione e gli grida gli grida dietro bagasce siete e ci restate
e tu che gli sbraiti appreso neanche più il naso avete di nuovo brutto stronzo di un portatore di Cristo non sei l’unico che se ne è accorto che in mezzo a quelle creature che si guadagnano il pane da nude c’è c’è c’è c’è c’è anche tua moglie
a Pianderlino succhia cazzi alla Foce cosce da schiaccianoci in Carignano fighe di terza mano e a Ponticello gli mostrano l’uccello
a Pianderlino succhia cazzi alla Foce cosce da schiaccianoci in Carignano fighe di terza mano e a Ponticello gli mostrano l’uccello.
In Copertina: i brassezei della Foce portano in processione i loro crocifissi
Da quasi 150 anni la Galleria Mazzini rappresenta l’elegante salotto buono dei genovesi.
Fu edificata tra il 1866 e il 1877 in contemporanea alla signorile attigua Via Roma.
Purtroppo doloroso scotto da pagare per tale costruzione fu la demolizione del convento di San Sebastiano, del conservatorio di San Giuseppe, dell’Oratorio di San Giacomo delle Fucine oltre che di tutti i caruggi che degradano verso via Luccoli.
Resta traccia di questo imponente sbancamento nel terrapieno lato Via Cebà – antica creuza del diavolo – dove il portone del civico n.3 è sospeso sul fronte del palazzo.
A cavallo delle due guerre del secolo scorso la galleria era frequentata dalla meglio gioventù cittadina, da poeti, scrittori, intellettuali, artisti ed impresari teatrali, massima espressione della cultura cittadina e nazionale.
Fra i musicisti, Verdi, Mascagni e Puccini; fra gli scrittori, i poeti e i giornalisti, Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, Montale, Quasimodo, Sbarbaro, Donaver, Barrili, Gandolin, Baratono, Firpo, Bacigalupo, Gozzano; fra gli artisti, gli architetti e scultori Grasso e Messina; fra gli attori, Govi e Lina Cavaliere.
Nonostante l’inesorabile trascorrere del tempo le scintillanti vetrate, i lampadari in bronzo con Giano e i Grifoni in ghisa che sorvegliano dall’alto e le cupole in vetro mantengono inalterate il loro fascino.
In copertina Galleria Mazzini con gli addobbi natalizi. Foto di Leti Gagge.
“Il viaggio per mare è stato un avvenimento. Come andava gradatamente sparendo lontano, la grande Genova notturna, disseminata di luci, assorbita dal chiaro di luna, così come un sogno trapassa in un altro! […] Come un sogno Genova si sprofonda nel mare. Sono morto per questo mondo, dileguato con l’ultima luce? Oh, fosse così! Sarebbe possibile?”.
“Genova è molto bella con le sue case dipinte, i suoi giardini verdi a spalliera e gli Appennini dietro. Ma quanto rumore! Che moltitudine! Su tre uomini che passano per le strade, ci sono un monaco e un soldato”.
Cit. Alfred de Musset (1810 – 1857) poeta e scrittore francese.