Galleria Ayrolo Negrone

Palazzo Negrone Ayrolo sorge sull’accorpamento di quello che era un tempo, in Piazza Fontane Marose, la residenza del governatore spagnolo in città.

Si tratta indiscutibilmente di uno dei palazzi dei Rolli più prestigiosi frutto, nella forma in cui lo possiamo ammirare oggi, delle rivisitazioni ottocentesche di Antonio Barabino.

Senza dubbio l’ambiente più significativo della dimora è la straordinaria galleria commissionata a metà ‘600 da Agostino Ayrolo a Giovanni Battista Carlone che ne decora la volta con le storie di Enea.

I magnifici affreschi in un trionfo di colori vividi e meravigliosamente conservati risultano valorizzati dagli ampi fasci di luce delle finestre che illuminano gli spazi. Le scene sono incastonate in un’articolata cornice di balaustre che fa risaltare il sapiente e suggestivo gioco prospettico.

Il racconto si sviluppa in tre principali scene che narrano il conflitto tra gli dei durante la guerra di Troia. Da un lato Giunone che istiga Marte ed Eolo contro l’eroe troiano, dall’altro Venere che, di contro, si fa garante e lo presenta addirittura a Giove.

Tutto attorno il Carlone rappresenta un ricco colorito catalogo di figure allegoriche e virtù che devono celebrare da un lato la regalità di Enea e l’avversità di Giunone nei suoi confronti, dall’altro.

Ma non finisce qui perché la famiglia Negrone, nel frattempo subentrata agli Ayrolo, impreziosisce la galleria con un ulteriore ciclo di affreschi alle pareti che racconta la battaglia di Lepanto del 1571.

Viene infatti affidato al pittore fiammingo Cornelius De Wael il compito di rappresentare il famoso scontro navale contro i turchi a cui il casato aveva partecipato con onore fra le fila del contingente comandato da Giovanni Andrea I D’Oria.

La dinamica narrazione del conflitto, ricca di dettagli trova nella conquista del vessillo della capitana turca (stendardo tuttora custodito nella Villa del Principe) il suo momento culminante.

La meraviglia della galleria viene completata qualche decennio più tardi dal pittore savonese Bartolomeo Guidobono a cui spetta l’incombenza di racchiudere le scene all’interno di cornici dinamiche metamorfiche che fungano sia da trait d’union tra parete e volta che da spazio autonomo espositivo.

La Grande Bellezza…

In copertina: Storie di Enea nella Galleria di Palazzo Ayrolo Negrone.

Foto di Lorenzo Zeppa.

Il Portale di Tursi

Per noi genovesi Tursi è il palazzo del Comune. In realtà la sua prima intitolazione fu Palazzo Nicolò Grimaldi.

L’edificio venne realizzato su progetto dei fratelli, Giovanni e Domenico, Ponzello.

Dai Grimaldi la proprietà passò di mano a Giovanni Andrea Doria e poi al figlio Carlo, duca di Tursi, a cui si deve l’odierna intestazione.

Il cinquecentesco palazzo, il più esteso di tutta via Garibaldi fu sede, a fine ‘700, della corte di Maria Teresa di Parma e per un decennio del collegio dei Gesuiti (1838-48).

Costoro stravolsero gli interni originali cancellando parecchi affreschi e decorazioni “blasfeme”, demolirono o spostarono molte opere d’arte.

Dopo la dominazione sabauda finalmente nel 1848 il palazzo fu donato al Comune di Genova.

Il sontuoso portale di impianto classico presenta colonne doriche, fornice arcuato, con sull’antico trofei e statue a coronamento dello stemma cittadino che riporta anche la testa di Giano sia alla base che al vertice, sotto la corona.

Al centro un mascherone ghignante con orecchie di satiro che in origine reggeva le insegne dei Grimaldi.

Gli altri vistosi mascheroni che ornano le finestre del piano rialzato sono invece opera di Taddeo Carlone e si ripetono anche nei prospetti laterali affacciati sui giardini.

La Geande Bellezza…

In copertina: lo stemma del portale di Palazzo Tursi.

L’atrio di Palazzo Nicolosio Lomellino

A volte per ammirare la grande bellezza delle dimore patrizie genovesi non necessariamente bisogna affidarsi a dettagliate visite ai piani nobiliari, ma basta camminare a testa in su e sbirciare nei portoni.

È questo il caso del cinquecentesco Palazzo Nicolosio Lomellino al civ. n. 7 di Via Garibaldi che risalta, per via del particolate colore azzurro carta zucchero e per la magnificenza degli stucchi della facciata, su tutti gli altri edifici della strada.

La mano del suo ispirato progettista Giovanni Battista Castello, detto il Bergamasco, si palesa oltre che nel prospetto principale, anche nel gusto teatrale dell’apparato festoso di stucchi dell’atrio a pianta ovale.

La complessa quanto armonica decorazione si dipana dal medaglione ovale centrale con una scena di trionfo di un condottiero circondata da mascheroni raccordati a quattro putti seduti sulla cornice stessa che reggono un capo dei festoni di frutti, agganciati a loro volta alle incorniciature delle quattro storie a bassorilievo, alternate ad altre figure efebiche alate sedute sul cornicione.

“Il Ninfeo che funge da raccordo fra il cortile e i giardini pensili posti due livelli più in alto.

Da qui si accede al cortile impreziosito dal celebre settecentesco monumentale Ninfeo di Domenico Parodi che si sviluppa su più livelli.

La Grande Bellezza…

In copertina: l’atrio di Palazzo Nicolosio Lomellino. Foto di Stefano Eloggi.

L’atrio di Palazzo Angelo Giovanni Spinola

Al civ. n. 5 di Via Garibaldi si trova il Palazzo Angelo Giovanni Spinola di Luccoli prestigiosa sede oggi della Deutsche Bank.

La facciata è affrescata con motivi attribuiti a Lazzaro Tavarone e alla bottega di Pantaleo Calvi. Le allegorie rappresentate, per celebrare la vocazione di difensore del Cattolicesimo del casato, rimandano alle Storie di Roma: condottieri con schiavi ai piedi si alternano a trofei e insegne belliche, allegorie della Fama e della Vittoria.

Curioso l’accesso alla dimora priva del classico maestoso portale marmoreo. Nell’atrio dove campeggia lo stemma di famiglia trionfano i colori e lo splendore degli affreschi dei fratelli Calvi.

Il piano nobile, un tempo sede dell’esclusivo circolo culturale Tunnel (oggi attivo al civ. n. 6 di Palazzo Gio Battista Spinola) ospita preziosi dipinti di Andrea Semino, Lazzaro Tavarone e Bernardo Castello.

La Grande Bellezza…

In copertina: L’atrio di Palazzo Angelo Giovanni Spinola. Foto di Stefano Eloggi.

Salita Santa Caterina

Fino a quando nel 1155 vennero erette le mura del Barbarossa la strada era naturale proseguimento dell’odierna Via Luccoli, nota come Via Luculi.

Da Soziglia infatti il percorso si dipanava, superato il boschetto “luculus” al tempio, odierna Acquasola, di Acca.

Inglobata dunque nella cerchia la località mutò il nome, in ossequio alla nuova porta Multedi aperta fra Largo Lanfranco e piazza Corvetto, in Contrada o – appunto – Porta Multedi.

Fino al 1227 la strada era anche nota, per via della presenza in loco della misteriosa confraternita di San Germano, come Salita San Germano di Lòcore.

Tutta la zona successivamente cambiò ancora intitolazione poiché da salita Dinegro al civ. n. 10 era a quel tempo occupata dalla distrutta chiesa (demolita nel 1815) di Santa Caterina di Alessandria con annesso chiostro addossato al muraglione di contenimento dei giardini della sovrastante villetta.

La salita era attarversata, come testimoniato da numerose rappresentazioni nei secoli, da uno scenografico ponte sifone dell’acquedotto costruito nel 1462 e distrutto in occasione dell’ottocentesca costruzione di Via Roma.

La strada è sede di prestigiose cinquecentesche dimore nobiliari ricche di importanti opere d’arte quali. fra le altre; al civ. n. 2 Palazzo Spinola Pignone; al civ. n. 4 Palazzo Gio Batta Spinola poi Agostino Airolo; al civ. n. 3 Palazzo Tommaso Spinola.

Nella Salita si trova anche la Sala Camillo Sivori, intitolata al celebre violinista ultimo allievo di Paganini, che nel 1869 vi tenne il concerto inaugurale.

Nel 1892 vi si svolse anche il Congresso del Partito dei Lavoratori che segnò la scissione fra anarchici e socialisti. Questi ultimi riunendosi presso il locale”Il Garofano Rosso” in Salita Pollaiuoli fondarono il partito socialista italiano.

in copertina: Salita Santa Caterina.

Apollo che saetta i Greci

Il Salone della Vendetta di Palazzo Antonio Doria, sede oggi della Prefettura di Genova, è decorato alle pareti con “Storie della guerra di Troia” e sul soffitto “Apollo che saetta i Greci alle porte di Troia”.

Si tratta, quest’ultima della prima commessa di una certa importanza, in autonomia dal padre Giovanni, realizzata dal giovane Luca Cambiaso. L’allora diciassettenne artista monegliese, che in età matura verrà chiamato dai reali di Spagna per decorare nientemeno che l’’Escorial madrileno, sprigiona qui tutto il suo emergente talento, sebbene ancora influenzato dal fascino manieristico di Giulio Romano e Perin del Vaga.

Artisti dei quali Cambiaso aveva avuto occasione di ammirare le opere dal vivo in città (“Decollazione di S. Stefano” del primo e “Sala degli Eroi” del secondo).

In copertina: Apollo che saetta i Greci alle porte di Troia.

L’Immacolata del Puget

Nell’oratorio della chiesa di San Filippo Neri in Via Lomellini 10 l’attenzione è catturata dallo scenografico altare barocco che ospita la statua dell’Immacolata.

Un trionfo di stucchi, cornici dorate, balaustre e colonne di marmo funge da meravigliosa quinta al capolavoro realizzato nel 1670 da Pierre Puget.

A confermare la paternità della prodigiosa scultura dell’artista marsigliese è l’autore stesso che incide la sua firma sul gradino del tempietto retto da un angelo.

La maestosa sovrastante pala che rappresenta San Filippo Neri in estasi è invece opera di datazione incerta del pittore fiammingo Simone Dubois.

La Grande Bellezza…

In copertina: l’Immacolata del Puget. Foto di Stefano Eloggi.

Lo scalone di Hitchcock

La straordinaria carriera di Alfred Hitchcock come regista ebbe inizio proprio a Genova in una primaverile mattina del 1925. La scena della pellicola d’esordio “The Pleasure Garden” infatti (Il Giardino del Piacere) si apriva con la partenza di una nave ripresa dalle banchine del porto della Superba.

A raccontarlo è il famoso cineasta stesso nel libro intervista “Il cinema secondo Hitchcock” realizzato nel 1962 ed edito nel 1966 dal giovane collega francese François Truffaut.

Il futuro maestro del brivido prese alloggio in quel periodo presso l’Hotel Bristol di Via XX Settembre, albergo in cui ritornò poi più volte nel corso degli anni a venire, raccontandone aneddoti, disavventure e peripezie.

Al suo interno l’edificio è caratterizzato da un lussuoso arredo in puro stile liberty e da un particolarissimo scalone ellittico in marmo bianco capace di fornire all’osservatore vertiginose prospettive che non lasciarono evidentemente indifferente nemmeno il geniale regista anglo americano.

Si narra infatti che fu proprio questa ipnotica spirale, realizzata nel 1905 dall’architetto Dario Carbone, ad aver ispirato Alfred – che si trovava al Bristol per girare alcune scene di “Caccia al Ladro – la stesura della scenneggiatura del film “Vertigo” conosciuto in Italia con il titolo di “La Donna che visse due volte”.

La Grande Bellezza…

In copertina: Lo Scalone del Bristol. Foto di Stegfano Eloggi.

La volta dell’Annunziata.

I soffitti della Basilica dell’Annunziata nella loro abbagliante opulenza lasciano lo stupefatto visitatore a testa in su.

Tutto gira intorno come se si fosse colti da un’inebriante vertigine di grande bellezza.

L’incredibile tripudio di stucchi, ori, colori e dipinti è frutto della maestria di almeno quattro grandi interpreti del Barocco genovese: Giovanni e Giovanni Battista Carlone, Gioacchino Assereto e Andrea Ansaldo.

Giovanni Carlone iniziò la decorazione a fresco nella seconda metà degli anni venti del seicento cominciando a dipingere gli episodi previsti per il transetto: PentecosteIncredulità di san TommasoTrasfigurazione e Discepoli di Emmaus. Continuò quindi con le prime tre campate della navata centrale, in cui dipinse L’adorazione dei MagiL’entrata in Gerusalemme e La preghiera nell’orto degli ulivi. Probabilmente realizzò anche alcuni degli affreschi delle navate laterali.

Causa l’improvvisa morte di Giovanni, il proseguimento dell’opera fu affidato al fratello Giovanni Battista. Costui dipinse le campate rimanenti della navata centrale (La ResurrezioneGesù risorto saluta Maria prima di salire al cielo e Maria incoronata) e le campate delle navate laterali che ancora dovevano essere finite. Nel frattempo, in un periodo che non è stato ancora possibile inquadrare, lavorò ad alcuni affreschi anche Gioacchino Assereto, che dipinse le prime volte delle navate laterali (Eleazaro e Rebecca al pozzo e Pietro e Giovanni risanano lo storpio davanti alla porta Bella di Per decorare gli spazi più significativi dell’edificio, i Lomellini ingaggiarono anche Andrea Ansaldo, cui chiesero di mettere mano innanzi tutto alla cupola. L’artista vi lavorò ininterrottamente per tre anni, fino alla morte avvenuta nel 1638. La complessa macchina prospettica si articola con gli affreschi e le figure in oro a tutto tondo che ricoprono, con ritmo ascendente, l’intera superficie dei pennacchi, del tamburo, della cupola e della lanterna sommitale. Il tema centrale corrisponde alla dedicazione del tempio, l’Ascensione della Vergine.

La tensione verticale del complesso prende avvio con le quattro grandi figure ad affresco dei pennacchi, i Quattro evangelisti, fra i quali spiccano il giovane Giovanni con la penna sollevata e la figura avvitata dell’anziano e barbuto Marco, che esibisce una possente muscolatura. Quattro coppie di giovani nudi reggono in cima agli arconi lo stemma mariano in campo azzurro. Nel cerchi del tamburo, le quattro finestre sono incorniciate da cariatidi dorate che sembrano sorreggere la cupola, e coppie di puttini in oro a tutto tondo. Ad essi si alternano architetture dipinte con colonne tortili e balaustre dalle quali sporgono i discepoli dipinti a trompe-l’œil. Nella cupola le architetture dipinte proseguono quelle reali della chiesa formando un suggestivo tutt’uno, e da un arcone si scorge l’Assunta contornata da vari personaggi biblici. Il vortice ascensionale si conclude nel cupolino dove è raffigurato Dio Padre.

La Grande Bellezza…

In copertina: la volta dell’Annunziata. Foto di Leti Gagge.

Salita degli Angeli

Salita degli Angeli con la sua caratteristica mattonata è l’antichissima creuza che collegava la collina di San Benigno con il percorso delle secentesche mura della porta degli Angeli che sorgeva in prossimità dell’omonimo convento con annesso ospitale.

Arrivati in cima alla ripida mulattiera si gode di un panorama mozzafiato che spazia dal Porto Antico a Capo Mele.

Non è certo un luogo turistico di passaggio eppure i colori rosso mattone, rosa pastello e giallo ocra delle case sono gli stessi dei borghi marittimi più celebrati e famosi della Superba e ci raccontano una storia “carica di sale, gonfia di odori”.

Questo proprio perché un tempo anche questi lidi, oggi relativamente distanti dal mare, erano lambiti dalle onde.

Fino all’Ottocento infatti quando cominciarono i riempimenti per l’ampliamento delle strutture portuali, la piazza da cui dipana la salita – come del resto l’intero borgo – aveva il mare a pochi metri di distanza.

Si respirava quindi odore di salmastro ma anche olezzo di cadaveri in attesa di sepoltura.

Tanto è vero che qui in quella che oggi è Piazza Di Negro, sul ciglio del fossato di S. Teodoro, fin dal ‘200 erano collocate le forche e vi si eguivano le impiccagioni.

Il nome della piazza rimanda invece all’omonima famiglia patrizia che qui fece edificare nel XVI secolo la dimora di villeggiatura ancora oggi esistente: villa Di Negro, poi Durazzo, poi Rosazza.

Fra i Di Negro si annoverano numerosi capitani, alcuni ammiragli, parecchi senatori della Repubblica, un doge e un cardinale. Non vanno tuttavia dimenticati l’erudito astrologo e poeta Andalò che fu nel ‘300 maestro di Boccaccio e il letterato marchese Gian Carlo che fece della sua dimora nel ‘700 un apprezzato luogo d’incontro delle migliori menti europee.

La villa era impreziosita da un ampio giardino, scomparso con l’ottocentesca costruzione delle strade che degradava fino alla riva e da uno scenografico parco, ancora esistente, adagiato sulla collina retrostante.

Proprio per la sua privilegiata posizione la villa era detta dello Scoglietto.

La Grande Bellezza…

In copertina: Salita degli Angeli. Foto di Leti Gagge.